







Traitors è un plotone d’esecuzione equipaggiato con fucili a pompa, un tirapugni saltato a un martello pneumatico, una bomba tubo termonucleare. Traitors è un autotreno caricato a nitroglicerina, una tempesta di bulloni e chiodi arrugginiti, una rissa in una raffineria di cocaina. Traitors è il capolavoro dei Misery Index. Non cercate vie di fuga. Dove non arrivano evoluzioni sempre più funamboliche, ciuffi sempre più emo e loghi sempre più illeggibili arrivano gli spietati no global del Maryland. Un disco che non ha un secondo di pausa, un calo di tensione o una parvenza di perplessità. La produzione dell’illuminato Kurt Ballou (dei Converge) è compatta come una colata di cemento armato, abrasiva senza essere fastidiosa. Come se Rick Rubin si mettesse a produrre l’ultimo dei Suffocation. Il comparto tecnico, anche se orfano del picchiatore Kevin Talley, è da capogiro e ci regala una sequela di canzoni da urlo, senza sbagliare un solo riff su tutta la durata del disco. Eppure i Misery Index hanno qualcosa in più, un retaggio tra il punk, l’HC e il thrash metal che li rende orecchiabili e d’impatto anche nei momenti più feroci. Vi ritroverete spesso e volentieri a riascoltare l’intero album troppe volte di seguito per essere un lavoro da affiancare a Dying Fetus e Origin. Traitors è un sonoro calcio nel culo a reunion gratuite, deliri emo death e vecchie carcasse che aspettano di decomporsi al sole di qualche festival estivo. Se Despised Icon, All Shall Perish e Beneath the Massacre spostano la barriera dell’estremo in nuovi territori, alle retrovie ci pensa il panzer Misery Index. Disco estremo del 2008, insindacabile.
Non tutti i film necessitano di un analisi seria e approfondita. Esistono masterpiece capaci di riportarci a quella dimensione tipicamente infantile legata a doppio filo con le classiche bustone da edicola. Pacchetti multicolor ravvivati da strilli fuori misura, oggetti invitanti e misteriosi. All’interno ci trovavi sempre qualcosa che non ti aspettavi, e anche se ogni ingrediente era completamente slegato dagli altri l’alchimia che si veniva a creare era qualcosa di inimitabile. Questa rubrica è ispirata proprio a quelle bustone, e a tutti quei film dove l’accumulo vale più della coerenza interna. Opere sgangherate, sottovalutate, ma ricche di un fascino che solo l’enumerazione dei singoli ingredienti può spiegare.
A cura degli svedesi di Illuminated World la Bibbia come non l'avete mai vista: rivista e riproposta come se si trattasse di un magazine patinato, dal formato alla scelta delle fotografie. Il significato della cosa mi sfugge: secolarizzazione o semplice propaganda? Su Bible Illuminated una preview e la possibilità di ordinarla.
La definizione di favola horror, ormai da 20 anni in mano al despota Tim Burton, ha subito nel corso delle ultime stagioni cinematografiche una serie di scossoni decisivi per definirne la fisionomia. Dopo l’avvento del gotico nell’immaginario adolescenziale (si pensi agli ultimi capitoli cinematografici del maghetto Potter) una coppia di pellicole riesce a dare in maniera irreversibile carattere adulto a questo sottogenere. Si parla de Il Labirinto del Fauno di Del Toro e di questo Hansel & Gretel, produzione sud coreana per la regia di Yim Pil-Sung.

Si fa chiamare M18-j-92T, è sudafricano e fa letteralmente paura. Tanto vi basti per fare un giro sul suo blog.
Agli Ebola piace non piacere a nessuno. Perché impegnati in un percorso troppo personale per essere condiviso da altri. Con la volontà di essere sempre etichettati come qualcosa d’altro. Inscriverli nella nuova ondata death core vorrebbe dire svilirne il lato teatrale e melodrammatico, parlarne solo in virtù della violenza spietata unita alle melodie funeree non farebbe giustizia alla sensazione di apocalisse imminente come non si avvertiva con tale tanfo dall’ultimo Today Is The Day. Le sperimentazioni fanno debordare spesso e volentieri l’amalgama sonoro degli Ebola in territori impregnati dei liquami black metal, senza mai scordare un’urgenza febbricitante che non può che ricordare le derive death moderniste di Despised Icon e Beneath The Massacre. Tutto senza mai perdere un’immediatezza e una freschezza inauditi per il folto fronte dei talebani dell’elitarismo a ogni costo. Anche a costo di andare in contraddizione con l’avvio di questa recensione. Ed è proprio questo il punto, l’intelligenza di una band capace di toccare nell’arco di una stessa traccia punte di estremismo ferale e intuizioni (di suono come di struttura) accessibili a chiunque simpatizzi anche solo vagamente con certe sonorità. Senza dimenticare una costruzione dell’immaginario che sfocia in sussurri recitati, melodie d’altri tempi ed emotività da romanzo ottocentesco. E stiamo parlando solamente dell’anticipazione del disco che verrà. Speriamo il prima possibile.
Per i puristi della pellicola il cinema non è che l’arte dell’immagine in movimento. Dimenticandosi per un attimo della posizione centrale che la sceneggiatura ha guadagnato negli ultimi anni (anche se non sembrerebbe) e sforzandosi di isolare un filone che sfrutti al meglio le potenzialità della meravigliosa macchina cinema è difficile trovare qualcosa di più completo del cosiddetto action, soprattutto nella sua accezione marziale. Esatto, quei tanto vituperati film di calci e pugni. Basterebbe un recupero superficiale di capolavori come Duel to the death (Ching Siu-tung/1982), The barefoot kid (Johnnie To/1993), Ashes of time (Wong Kar Wai/1994) o The Blade (Tsui Hark/1995) per rendersi conto di come le scorse generazioni di cineasti cantonesi abbiano portato la grammatica della settima arte a un nuovo livello. E prima di tutto questo arrivò The valiant ones (1975), del maestro King Hu.
Nuova trovata per il grande street artist Banksy. Dall'Inghilterra a New York, dallo stencil all'animatronic: The Village Pet Store and Charcoal Grill è un finto negozio popolato da inquitanti animali. Forse un poco didascalico, ma sicuramente molto suggestivo.
Il nuovo progetto di Alexi Tan, pupillo di John Woo e autore del pregevole Blood Brothers, è un cortometraggio dall'alto tasso di melodramma (in puro HK style) targato Diesel. Ancora una volta il brand italiano dimostra di essere un bel passo avanti agli altri, dando fiducia a un giovane regista non certo proveniente dai soliti circolini.
Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino/2004) fu etichettato come una pubblicità della BMW lunga 100 minuti, A bittersweet life (Kim Jee-woon/2005) spostava il campo da gioco dalle berline tedesche allo stile di Dolce & Gabbana. Non c’è da meravigliarsi quindi se il giovanilistico Exit No.6 parrà ai suoi detrattori come uno spot della Diesel girato a Taiwan. Yu Hsien Lin dona al suo secondo lungometraggio una messa in scena stratosferica, inondando lo schermo di colori e tagli di luce. Sinuosi movimenti di macchina giocano con angolazioni inconsuete, mentre i piani fissi acquistano varietà grazie ai continui slittamenti della messa a fuoco. Un tour de force stilistico che annichilisce ogni concorrente, e che paradossalmente trova un pari solamente nell’outsider Bio Zombie (1998) di Wilson Yip. E non solo per l’eccellenza della messa in scena.