venerdì 31 ottobre 2008
giovedì 30 ottobre 2008
[pubblicità creativa] Apri la bocca
Questa fa veramente male. E la cosa che più mi irrita è che nel nostro paesello di cattolici qualche associazione di genitori la farebbe eliminare dal palinsesto.
[trailer] Viy di Oleg Stepchenko (Russia/2009)
E i russi chi li ferma più? Anche di fronte a un prodotto di consumo come questo Viy, che dovrebbe narrare le avventure di un cartografo perso tra i Carpazi, non si può non rimanere frastornati dalla cura formale dell'insieme. Fotografia da gotico all'italiana (ma aggiornata ai tempi che corrono), inquadrature a effetto, cattiveria quanto basta. Ma saremo più dalle parti di Mechenosets o dei Guardiani della Notte?
martedì 28 ottobre 2008
Misery Index - Traitors (Relapse/2008)
Traitors è un plotone d’esecuzione equipaggiato con fucili a pompa, un tirapugni saltato a un martello pneumatico, una bomba tubo termonucleare. Traitors è un autotreno caricato a nitroglicerina, una tempesta di bulloni e chiodi arrugginiti, una rissa in una raffineria di cocaina. Traitors è il capolavoro dei Misery Index. Non cercate vie di fuga. Dove non arrivano evoluzioni sempre più funamboliche, ciuffi sempre più emo e loghi sempre più illeggibili arrivano gli spietati no global del Maryland. Un disco che non ha un secondo di pausa, un calo di tensione o una parvenza di perplessità. La produzione dell’illuminato Kurt Ballou (dei Converge) è compatta come una colata di cemento armato, abrasiva senza essere fastidiosa. Come se Rick Rubin si mettesse a produrre l’ultimo dei Suffocation. Il comparto tecnico, anche se orfano del picchiatore Kevin Talley, è da capogiro e ci regala una sequela di canzoni da urlo, senza sbagliare un solo riff su tutta la durata del disco. Eppure i Misery Index hanno qualcosa in più, un retaggio tra il punk, l’HC e il thrash metal che li rende orecchiabili e d’impatto anche nei momenti più feroci. Vi ritroverete spesso e volentieri a riascoltare l’intero album troppe volte di seguito per essere un lavoro da affiancare a Dying Fetus e Origin. Traitors è un sonoro calcio nel culo a reunion gratuite, deliri emo death e vecchie carcasse che aspettano di decomporsi al sole di qualche festival estivo. Se Despised Icon, All Shall Perish e Beneath the Massacre spostano la barriera dell’estremo in nuovi territori, alle retrovie ci pensa il panzer Misery Index. Disco estremo del 2008, insindacabile.
lunedì 27 ottobre 2008
[le bustone] Conquest di Lucio Fulci (1983/Italia)
Non tutti i film necessitano di un analisi seria e approfondita. Esistono masterpiece capaci di riportarci a quella dimensione tipicamente infantile legata a doppio filo con le classiche bustone da edicola. Pacchetti multicolor ravvivati da strilli fuori misura, oggetti invitanti e misteriosi. All’interno ci trovavi sempre qualcosa che non ti aspettavi, e anche se ogni ingrediente era completamente slegato dagli altri l’alchimia che si veniva a creare era qualcosa di inimitabile. Questa rubrica è ispirata proprio a quelle bustone, e a tutti quei film dove l’accumulo vale più della coerenza interna. Opere sgangherate, sottovalutate, ma ricche di un fascino che solo l’enumerazione dei singoli ingredienti può spiegare.
Nella bustona di oggi troverete:
Un banda di wookie cocainomani (se li potesse vedere il buon Chewbecca, che vergogna!)
Una regina malvagia in tanga borchiati e con una propensione inquietante alla zoofilia (e che tra l’altro pippa alla grandissima con gli wookie di prima).
Omosessualità latente (dopotutto si parla di culturisti che si aggirano in microslip di pelo).
Frattaglie (tante, e con una frequenza imbarazzante. Diciamo che il Fulci’s touch non si fa fatica a percepire).
Archi laser.
Messaggi ecologisti (e anche moraleggianti se si vede la fine che fanno gli wookies cocainomani).
Nebbia (che il fumo sia la scenografia più funzionale ed economica l’abbiamo capito tutti, ma una cosa così non li vedeva dai più scalcinati low budget HKonghesi degli anni 80).
Erotomani mutaforma.
Zombie (cosa dicevamo circa il Fulci’s touch?).
Sintetizzatori (a pioggia continua).
Mostri di ragnatela ripieni di fanghiglia.
Barbari vestiti come i compari Mad Max.
Mutandoni pelosi.
Nunchako di pietra (sic).
Cespugli-che-lanciano-frecce-avvelenate.
Bubboni.
Riti di magia nera palesemente improvvisato sul set.
Un banda di wookie cocainomani (se li potesse vedere il buon Chewbecca, che vergogna!)
Una regina malvagia in tanga borchiati e con una propensione inquietante alla zoofilia (e che tra l’altro pippa alla grandissima con gli wookie di prima).
Omosessualità latente (dopotutto si parla di culturisti che si aggirano in microslip di pelo).
Frattaglie (tante, e con una frequenza imbarazzante. Diciamo che il Fulci’s touch non si fa fatica a percepire).
Archi laser.
Messaggi ecologisti (e anche moraleggianti se si vede la fine che fanno gli wookies cocainomani).
Nebbia (che il fumo sia la scenografia più funzionale ed economica l’abbiamo capito tutti, ma una cosa così non li vedeva dai più scalcinati low budget HKonghesi degli anni 80).
Erotomani mutaforma.
Zombie (cosa dicevamo circa il Fulci’s touch?).
Sintetizzatori (a pioggia continua).
Mostri di ragnatela ripieni di fanghiglia.
Barbari vestiti come i compari Mad Max.
Mutandoni pelosi.
Nunchako di pietra (sic).
Cespugli-che-lanciano-frecce-avvelenate.
Bubboni.
Riti di magia nera palesemente improvvisato sul set.
venerdì 24 ottobre 2008
Bible Illuminated: non la Bibbia del cool, ma la Bibbia cool
A cura degli svedesi di Illuminated World la Bibbia come non l'avete mai vista: rivista e riproposta come se si trattasse di un magazine patinato, dal formato alla scelta delle fotografie. Il significato della cosa mi sfugge: secolarizzazione o semplice propaganda? Su Bible Illuminated una preview e la possibilità di ordinarla.
mercoledì 22 ottobre 2008
Nuove favole horror: Hansel & Gretel di Im Pil-Sung (Korea del Sud/2008).
La definizione di favola horror, ormai da 20 anni in mano al despota Tim Burton, ha subito nel corso delle ultime stagioni cinematografiche una serie di scossoni decisivi per definirne la fisionomia. Dopo l’avvento del gotico nell’immaginario adolescenziale (si pensi agli ultimi capitoli cinematografici del maghetto Potter) una coppia di pellicole riesce a dare in maniera irreversibile carattere adulto a questo sottogenere. Si parla de Il Labirinto del Fauno di Del Toro e di questo Hansel & Gretel, produzione sud coreana per la regia di Yim Pil-Sung.
In seguito a un incidente stradale il giovane Eun-su, in fuga da una paternità non voluta e in viaggio verso una madre malata, si perde in un bosco labirintico. Una bambina lo guiderà fino a una casa piena di dolci e giocattoli. Ma il suo soggiorno durerà ben di più del previsto.
Girato come se il Guy Maddin di Twilight of the Ice Nymphs (1997) si fosse sottoposto a una dose massiva di manwua, questo Hansel & Gretel conferma ancora una volta come la nazione asiatica sud coreana abbia sviluppato un’estetica riconoscibile fin dai primi fotogrammi. Una fotografia abbagliante, molto al di là del limite imposto dal kitsch, si sposa con una serie di scelte claustrofobiche e stranianti. Il risultato sono due ore di interni, rendendo tali anche le rare escursioni nei boschi e nel mondo esterno alla casa perno di tutto il racconto. Più volte si ha l’impressione che il regista abbia deciso di spostare il concetto di tableau vivant verso un nuovo livello, abbassando il ritmo dell’opera per andare a restituirci una serie di illustrazioni tratte da libri per bambini. Ma irrimediabilmente virate al nero.
A una messa in scena zuccherosa e camp si va ad aggiungere una sceneggiatura che prende il via dal surreale, passa all’horror psicologico e si conclude nel dramma più angosciante. Partendo dalla tesi su cui faceva forza il capolavoro Save The Green Planet (2003) di Jang Jun-hwan secondo cui il male si sviluppa dentro di noi sempre per qualche causa e spostandone il perno dalla società alla famiglia, evitando come solo nel cinema orientale sanno fare moralismi e tesi sociologiche da quattro soldi, il secondo lungometraggio di Yim Pil-Sung acquista una profondità sconosciuta a gran parte degli horror moderni. Il risultato è la cronaca di vite violate ridipinta da thriller soprannaturale, con una messa in scena allucinata (e sottilmente malata) come non se ne vedeva dalla prima gita nella fabbrica del buon Willie Wonka.
In seguito a un incidente stradale il giovane Eun-su, in fuga da una paternità non voluta e in viaggio verso una madre malata, si perde in un bosco labirintico. Una bambina lo guiderà fino a una casa piena di dolci e giocattoli. Ma il suo soggiorno durerà ben di più del previsto.
Girato come se il Guy Maddin di Twilight of the Ice Nymphs (1997) si fosse sottoposto a una dose massiva di manwua, questo Hansel & Gretel conferma ancora una volta come la nazione asiatica sud coreana abbia sviluppato un’estetica riconoscibile fin dai primi fotogrammi. Una fotografia abbagliante, molto al di là del limite imposto dal kitsch, si sposa con una serie di scelte claustrofobiche e stranianti. Il risultato sono due ore di interni, rendendo tali anche le rare escursioni nei boschi e nel mondo esterno alla casa perno di tutto il racconto. Più volte si ha l’impressione che il regista abbia deciso di spostare il concetto di tableau vivant verso un nuovo livello, abbassando il ritmo dell’opera per andare a restituirci una serie di illustrazioni tratte da libri per bambini. Ma irrimediabilmente virate al nero.
A una messa in scena zuccherosa e camp si va ad aggiungere una sceneggiatura che prende il via dal surreale, passa all’horror psicologico e si conclude nel dramma più angosciante. Partendo dalla tesi su cui faceva forza il capolavoro Save The Green Planet (2003) di Jang Jun-hwan secondo cui il male si sviluppa dentro di noi sempre per qualche causa e spostandone il perno dalla società alla famiglia, evitando come solo nel cinema orientale sanno fare moralismi e tesi sociologiche da quattro soldi, il secondo lungometraggio di Yim Pil-Sung acquista una profondità sconosciuta a gran parte degli horror moderni. Il risultato è la cronaca di vite violate ridipinta da thriller soprannaturale, con una messa in scena allucinata (e sottilmente malata) come non se ne vedeva dalla prima gita nella fabbrica del buon Willie Wonka.
lunedì 20 ottobre 2008
M18-J-92T: il disegno tecnico diventa arte.
Si fa chiamare M18-j-92T, è sudafricano e fa letteralmente paura. Tanto vi basti per fare un giro sul suo blog.
domenica 19 ottobre 2008
Carcade: la next next gen del videogioco?
Sviluppato da tre geniali studenti berlinesi Carcade è il primo esempio concreto di intersezione tra realtà e finzione videoludica. Costruendo i livelli di gioco in tempo reale e basandosi sulle informazioni inviate da una web cam montata sull'esterno di un'autovettura (in quale gioco si sta fermi?) si ottiene un risultato impressionante, un'autentica fusione tra simulazione e vita reale. Sopra trovate un video esemplificativo, tanto per rendersi conto davanti a che rivoluzione ci stiamo trovando.
Commodore 64 Orchestra
Nerd come poche altre cose viste in vita mia.
sabato 18 ottobre 2008
Ebola - Nothing Will Change
Agli Ebola piace non piacere a nessuno. Perché impegnati in un percorso troppo personale per essere condiviso da altri. Con la volontà di essere sempre etichettati come qualcosa d’altro. Inscriverli nella nuova ondata death core vorrebbe dire svilirne il lato teatrale e melodrammatico, parlarne solo in virtù della violenza spietata unita alle melodie funeree non farebbe giustizia alla sensazione di apocalisse imminente come non si avvertiva con tale tanfo dall’ultimo Today Is The Day. Le sperimentazioni fanno debordare spesso e volentieri l’amalgama sonoro degli Ebola in territori impregnati dei liquami black metal, senza mai scordare un’urgenza febbricitante che non può che ricordare le derive death moderniste di Despised Icon e Beneath The Massacre. Tutto senza mai perdere un’immediatezza e una freschezza inauditi per il folto fronte dei talebani dell’elitarismo a ogni costo. Anche a costo di andare in contraddizione con l’avvio di questa recensione. Ed è proprio questo il punto, l’intelligenza di una band capace di toccare nell’arco di una stessa traccia punte di estremismo ferale e intuizioni (di suono come di struttura) accessibili a chiunque simpatizzi anche solo vagamente con certe sonorità. Senza dimenticare una costruzione dell’immaginario che sfocia in sussurri recitati, melodie d’altri tempi ed emotività da romanzo ottocentesco. E stiamo parlando solamente dell’anticipazione del disco che verrà. Speriamo il prima possibile.
venerdì 17 ottobre 2008
Make It Count - Leeway (GSR Music/2008)
Il miglior disco HC dell'anno. Semplice, violento, melodico. C'è poco spazio per le moderne cazzate emometaldeathcore quando si ha a che fare con un lavoro che fa sul serio come questo Leeway. Qui la mia recensione.
martedì 14 ottobre 2008
The Valiant Ones (1975): King Hu e l'arte di filmare l'azione
Per i puristi della pellicola il cinema non è che l’arte dell’immagine in movimento. Dimenticandosi per un attimo della posizione centrale che la sceneggiatura ha guadagnato negli ultimi anni (anche se non sembrerebbe) e sforzandosi di isolare un filone che sfrutti al meglio le potenzialità della meravigliosa macchina cinema è difficile trovare qualcosa di più completo del cosiddetto action, soprattutto nella sua accezione marziale. Esatto, quei tanto vituperati film di calci e pugni. Basterebbe un recupero superficiale di capolavori come Duel to the death (Ching Siu-tung/1982), The barefoot kid (Johnnie To/1993), Ashes of time (Wong Kar Wai/1994) o The Blade (Tsui Hark/1995) per rendersi conto di come le scorse generazioni di cineasti cantonesi abbiano portato la grammatica della settima arte a un nuovo livello. E prima di tutto questo arrivò The valiant ones (1975), del maestro King Hu.
Concepito come narrativamente nullo proprio dal suo stesso autore, The valiant ones non è null’altro che una sequela di risse e di scontri marziali. Il risultato è da capogiro. Le coreografie fluide e mai sopra le righe di Sammo Hung vengono consegnate all’eternità da un montaggio al limite del subliminale, da movimenti di macchina inauditi e da un uso dello zoom che ne eleva lo status da simbolo dell’amatoriale a protesi naturale della carrellata. La frequenza e la complessità degli scontri va ad aumentare con lo scorrere dei minuti, fino al cataclismatico duello finale.
Lo spettatore si trova così al cospetto di 106 minuti di invenzioni e di raccordi azzardati. L’amore per la compressione, caratteristico di tutto il cinema di HK, viene portato alle estreme conseguenze unendo sinuosi movimenti di macchina a ellissi appena percettibili, senza dimenticare l’apporto drammatico di un sapente uso dello zoom. Campi strettissimi ci proiettano direttamente dentro l’azione, mentre l’inquadratura rimane incollata agli attori spesso in maniera del tutto inaudita.
Detto per inciso, oggi come oggi non esiste cineasta capace di tanto. Senza contare maestranze e atleti. King Hu sfrutta tutti i colori della tavolozza cinema, elevando il cinema popolare ad autentica avanguardia linguistica. Le sequenze vengono spezzettate in segmenti supersonici, frammentando la narrazione e spostando l’asse dalla comprensione alla percezione. L’occhio smette di identificare tutto quello che succede sullo schermo, il messaggio arriva direttamente al cervello.
In quanti ne sono capaci oggi?
Sotto trovate la sequenza finale, non ci sono problemi di spoiler, ma mi sembrava giusto avvisarvi.
Concepito come narrativamente nullo proprio dal suo stesso autore, The valiant ones non è null’altro che una sequela di risse e di scontri marziali. Il risultato è da capogiro. Le coreografie fluide e mai sopra le righe di Sammo Hung vengono consegnate all’eternità da un montaggio al limite del subliminale, da movimenti di macchina inauditi e da un uso dello zoom che ne eleva lo status da simbolo dell’amatoriale a protesi naturale della carrellata. La frequenza e la complessità degli scontri va ad aumentare con lo scorrere dei minuti, fino al cataclismatico duello finale.
Lo spettatore si trova così al cospetto di 106 minuti di invenzioni e di raccordi azzardati. L’amore per la compressione, caratteristico di tutto il cinema di HK, viene portato alle estreme conseguenze unendo sinuosi movimenti di macchina a ellissi appena percettibili, senza dimenticare l’apporto drammatico di un sapente uso dello zoom. Campi strettissimi ci proiettano direttamente dentro l’azione, mentre l’inquadratura rimane incollata agli attori spesso in maniera del tutto inaudita.
Detto per inciso, oggi come oggi non esiste cineasta capace di tanto. Senza contare maestranze e atleti. King Hu sfrutta tutti i colori della tavolozza cinema, elevando il cinema popolare ad autentica avanguardia linguistica. Le sequenze vengono spezzettate in segmenti supersonici, frammentando la narrazione e spostando l’asse dalla comprensione alla percezione. L’occhio smette di identificare tutto quello che succede sullo schermo, il messaggio arriva direttamente al cervello.
In quanti ne sono capaci oggi?
Sotto trovate la sequenza finale, non ci sono problemi di spoiler, ma mi sembrava giusto avvisarvi.
lunedì 13 ottobre 2008
domenica 12 ottobre 2008
Bergamo Street Art (Pt.1)
Poche storie, ecco una rassegna di autentiche opere d'arte raccolte sui muri (anzi, sullo stesso muro!) della mia città. Alla faccia di Berlusconi e delle sue proposte ad alto tasso di populismo (contando che il popolo in questione è un popolo di vecchi).
sabato 11 ottobre 2008
Banksy goes to New York City
Nuova trovata per il grande street artist Banksy. Dall'Inghilterra a New York, dallo stencil all'animatronic: The Village Pet Store and Charcoal Grill è un finto negozio popolato da inquitanti animali. Forse un poco didascalico, ma sicuramente molto suggestivo.
Sul sito un pacco di altri filmati.
Sul sito un pacco di altri filmati.
venerdì 10 ottobre 2008
[trailer]Saluda Al Diablo De Mi Parte di Carlos Esteban e Juan Felipe Orozco (Colombia/2008) Pt.2
Secondo, magnifico trailer per il noir colombiano Saluda Al Diablo De Mi Parte (il primo lo trovate qui). Che dire? Pare un incrocio tra Michael Mann e Nicolas Winding Refn (vi prego recuperate la sua trilogia capolavoro Pusher, rivaluterete ogni altro crime movie nella vostra top 10) e la cosa non può che rallegrarmi. Come penso qualunque essere senziente con un minimo di fascinazione per la malavita.
mercoledì 8 ottobre 2008
[trailer] A forbidden love story di Alexi Tan (Ita/Taiwan/2008)
Il nuovo progetto di Alexi Tan, pupillo di John Woo e autore del pregevole Blood Brothers, è un cortometraggio dall'alto tasso di melodramma (in puro HK style) targato Diesel. Ancora una volta il brand italiano dimostra di essere un bel passo avanti agli altri, dando fiducia a un giovane regista non certo proveniente dai soliti circolini.
Trovate tutto qui.
Trovate tutto qui.
martedì 7 ottobre 2008
Exit No. 6 di Yu Hsien Lin (Taiwan/2007)
Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino/2004) fu etichettato come una pubblicità della BMW lunga 100 minuti, A bittersweet life (Kim Jee-woon/2005) spostava il campo da gioco dalle berline tedesche allo stile di Dolce & Gabbana. Non c’è da meravigliarsi quindi se il giovanilistico Exit No.6 parrà ai suoi detrattori come uno spot della Diesel girato a Taiwan. Yu Hsien Lin dona al suo secondo lungometraggio una messa in scena stratosferica, inondando lo schermo di colori e tagli di luce. Sinuosi movimenti di macchina giocano con angolazioni inconsuete, mentre i piani fissi acquistano varietà grazie ai continui slittamenti della messa a fuoco. Un tour de force stilistico che annichilisce ogni concorrente, e che paradossalmente trova un pari solamente nell’outsider Bio Zombie (1998) di Wilson Yip. E non solo per l’eccellenza della messa in scena.
Perché l’adolescenza è sfavillante e colorata solo nella testa degli adulti.
Proprio come il piccolo film di Hong Kong questo Exit No.6 nasconde, dopo un 95% buono di film completamente votato alla commedia (horror per Bio Zombie, romantica in questo caso), un’iniezione di realtà che li avvicina entrambi alle intuizioni sviluppate da Fukasaku nel suo Battle Royale. La ribellione giovanile e la resistenza a un sistema che fa della competizione il suo asse principale possono essere rappresentati in maniera differente da occidente a oriente. Quasi cancellati o relegati in romantiche parentesi nostalgiche nella commedia occidentale (dai vari American Pie fino alle nostre Mocciate), portati alle estreme conseguenze (ma non quelle che vi aspettate) nei campioni d’incasso dell’altra metà del mondo.
Succede così che una piccola produzione di Taiwan, come questo Exit No.6, ci regali gioia per gli occhi e nel contempo ci porti a riflettere. Gustose citazioni dai classici del kung fu si sposano con l’estetica da fotografia di moda (diciamo Elaine Constantine), la leggerezza del ricordo si mischia alla dura realtà e al cinismo dell’iperbole. Perché a Ximending tutto può succedere, anche di arrendersi alla vita (proprio come nei centri commerciali di Hong Kong visti in Bio Zombie).
Perché l’adolescenza è sfavillante e colorata solo nella testa degli adulti.
Proprio come il piccolo film di Hong Kong questo Exit No.6 nasconde, dopo un 95% buono di film completamente votato alla commedia (horror per Bio Zombie, romantica in questo caso), un’iniezione di realtà che li avvicina entrambi alle intuizioni sviluppate da Fukasaku nel suo Battle Royale. La ribellione giovanile e la resistenza a un sistema che fa della competizione il suo asse principale possono essere rappresentati in maniera differente da occidente a oriente. Quasi cancellati o relegati in romantiche parentesi nostalgiche nella commedia occidentale (dai vari American Pie fino alle nostre Mocciate), portati alle estreme conseguenze (ma non quelle che vi aspettate) nei campioni d’incasso dell’altra metà del mondo.
Succede così che una piccola produzione di Taiwan, come questo Exit No.6, ci regali gioia per gli occhi e nel contempo ci porti a riflettere. Gustose citazioni dai classici del kung fu si sposano con l’estetica da fotografia di moda (diciamo Elaine Constantine), la leggerezza del ricordo si mischia alla dura realtà e al cinismo dell’iperbole. Perché a Ximending tutto può succedere, anche di arrendersi alla vita (proprio come nei centri commerciali di Hong Kong visti in Bio Zombie).
Person Elaine Constantine
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lunedì 6 ottobre 2008
Shoot'Em Up di Michael Davis (US/2008)
Nella sua assoluta idiozia Shoot‘Em Up nasconde più di un colpo di genio. Prodotto che nasce e si regge sull’incrocio di rimandi e linguaggi, traguardo ultimo di una tendenza autodistruttiva verso la completa cannibalizzazione dell’immaginario collettivo, il lungometraggio di Michael Davis mette le cose in chiaro fin dalle inquadrature d’apertura. Un primissimo piano di scuola spaghetti western, un duro lercio e trasandato occupato in un banchetto a base di caffè e carote. Inconsciamente il protagonista si definisce nella nostra testa come un incrocio tra Clint Eastwood (e infatti più volte durante il film Clive Owen viene apostrofato come “l’uomo senza nome”) e Bugs Bunny, lasciandoci intendere cosa ci aspetterà nei prossimi 80 minuti. Dopo una manciata di secondi piombo e sangue stanno già saturando il nostro sguardo, fino all’epifania del titolo: Shoot’Em Up. Un rimando ben preciso alla famiglia più feroce delle arti video ludiche, una dichiarazione d’intenti che richiama i vari Contra e Metal Slug a numi tutelari di un’azione gratuita, senza sosta e che fa del bodycount a tre cifre un simbolo da sbandierare con orgoglio. E non è un caso che tutto il film non è che la riproposta della scena più famosa del cult Hard Boiled di John Woo, spalmata sul minutaggio di un lungometraggio e irrobustita/diluita dal tipico gusto da baraccone US. Un cartone animato ultraviolento, eccessivo sotto ogni punto di vista, che si prende il lusso di rileggere una delle sequenza fondamentali della chiave di volta Django (Sergio Corbucci/1966) e di restituirla alle nuove generazioni innestata con l’idealizzazione dell’heroic bloodshed, l’umorismo della Rockstar Games e il gusto dell’eccesso patinato tipico dello splat pack. Il risultato fa tabula rasa di ogni nozione narrativa, basando lo sviluppo della trama su intuizioni sospese tra idiozia e sottile presa in giro del lavoro di sceneggiatore a Hollywood.
Tutto qui, il resto si muove tra i Motorhead e le tette della Bellucci, tra una battuta su quanto sono scontati gli action movie e uno sproloquio più che inutile. Peccato per la tecnica registica non eccelsa di Michael Davis, incapace di portare a fondo la riflessione sul noir cantonese proprio per una padronanza del mezzo cinema che non sfiora neppure le vette di Johnnie To, Ringo Lam, Patrick Yau, Alan Mak e dello stesso John Woo. Siamo comunque lontano da videoclip e accelerazioni digitali, dell’eclettismo un po’ stupido alla Crank o dalla confusione di un Michael Bay qualsiasi. E per una volta, tanto basta.
Tutto qui, il resto si muove tra i Motorhead e le tette della Bellucci, tra una battuta su quanto sono scontati gli action movie e uno sproloquio più che inutile. Peccato per la tecnica registica non eccelsa di Michael Davis, incapace di portare a fondo la riflessione sul noir cantonese proprio per una padronanza del mezzo cinema che non sfiora neppure le vette di Johnnie To, Ringo Lam, Patrick Yau, Alan Mak e dello stesso John Woo. Siamo comunque lontano da videoclip e accelerazioni digitali, dell’eclettismo un po’ stupido alla Crank o dalla confusione di un Michael Bay qualsiasi. E per una volta, tanto basta.
Person Michael Bay
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mercoledì 1 ottobre 2008
[pubblicità creativa] Il miglior horror noir degli ultimi 10 anni
Vi ricordate di questa clip? La dimostrazione di come uno spot possa battere su tutta la linea gran parte della produzione horror degli ultimi anni. Penso che basti la semplice visione per spiegare il perchè di tale affermazione. Adesso è il turno del noir dalle tinte Lynchiane. Non per nulla il primo ricordo che mi riaffiora durante la visione è l'arcinota campagna di comunicazione curata dal regista del Montana per Playstation 2. In qualunque caso un nuovo capolavoro di sintesi e regia.
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