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Tutti gli agganci all’horror di Death Note si esauriscono nella prima decina di minuti, mettendo così fine alla morbosità che caratterizzava tutta la serie. Se nei capitoli precedenti il fatto che il protagonista potesse decidere in anticipo la morte di qualsiasi altro personaggio permetteva agli sceneggiatori di costruire arzigogolate impalcature narrative e di giocare direttamente con lo spettatore, tutto L changes the world si esaurisce a uno scontro tra L e un gruppo di terroristi. Tristezza infinita, a cui va ad aggiungersi anche la progressiva evoluzione del protagonista da quello che conosciamo a perfetto action hero. O, per rileggerlo sotto un altro punto di vista, da prodotto dell’immaginario nipponico a ennesimo eroe di stampo statunitense.
Se nei precedenti capitoli i buchi di sceneggiatura era disseminati ad arte, per poter essere tappati all’ultimo minuto dall’ennesima svolta narrativa, in questo spin off ci sono e basta. E si parla di un film di 130 minuti, dilatato all’inverosimile e dove la vicenda è riassumibile in una manciata di parole. Siamo passati da un estremo (eccessiva comprensione a discapito della profondità) all’altro, con esiti catastrofici. Unica costante tra i tre film: la regia televisiva. Non proprio un punto di forza, direi.
Approfondimento sul cinema giapponese e mercato occidentale: Eccessi di giapponesità: Tokyo Gore Police, Meatball Machine, The Machine Girl, Death Trance.
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