L changes the world non è un brutto film, si limita a essere inutile. Anche il resto della serie Death Note non era certo un capolavoro, ma perlomeno si basava su di un immaginario tipicamente nipponico, fatto di personaggi ambigui, demoni, magia e adolescenti che si muovono senza problemi in un mondo di adulti. Tra tutto il fornito parco personaggi il detective L svettava senza problemi per originalità e carisma, da qui l’inevitabile spin off. Un genio in età da liceo, maniaco dell’igiene, che veste di bianco, comunica con il mondo (e indaga) attraverso il computer e si nutre solo di dolci. Che non riesce ad avere rapporti interpersonali (se non con il suo maggiordomo) ma collabora con tutti i corpi di polizia del mondo per la risoluzione dei casi più complicati. Tutto molto nipponico, e se ci aggiungete il classico ciuffo corvino davanti al volto da belloccio tenebroso avrete il ritratto completo. Peccato che Hideo Nakata decida di fregarsene di tutto questo, oltre al fatto di dimenticarsi di essere stato il regista di Dark Water.
Tutti gli agganci all’horror di Death Note si esauriscono nella prima decina di minuti, mettendo così fine alla morbosità che caratterizzava tutta la serie. Se nei capitoli precedenti il fatto che il protagonista potesse decidere in anticipo la morte di qualsiasi altro personaggio permetteva agli sceneggiatori di costruire arzigogolate impalcature narrative e di giocare direttamente con lo spettatore, tutto L changes the world si esaurisce a uno scontro tra L e un gruppo di terroristi. Tristezza infinita, a cui va ad aggiungersi anche la progressiva evoluzione del protagonista da quello che conosciamo a perfetto action hero. O, per rileggerlo sotto un altro punto di vista, da prodotto dell’immaginario nipponico a ennesimo eroe di stampo statunitense.
Se nei precedenti capitoli i buchi di sceneggiatura era disseminati ad arte, per poter essere tappati all’ultimo minuto dall’ennesima svolta narrativa, in questo spin off ci sono e basta. E si parla di un film di 130 minuti, dilatato all’inverosimile e dove la vicenda è riassumibile in una manciata di parole. Siamo passati da un estremo (eccessiva comprensione a discapito della profondità) all’altro, con esiti catastrofici. Unica costante tra i tre film: la regia televisiva. Non proprio un punto di forza, direi.
Tutti gli agganci all’horror di Death Note si esauriscono nella prima decina di minuti, mettendo così fine alla morbosità che caratterizzava tutta la serie. Se nei capitoli precedenti il fatto che il protagonista potesse decidere in anticipo la morte di qualsiasi altro personaggio permetteva agli sceneggiatori di costruire arzigogolate impalcature narrative e di giocare direttamente con lo spettatore, tutto L changes the world si esaurisce a uno scontro tra L e un gruppo di terroristi. Tristezza infinita, a cui va ad aggiungersi anche la progressiva evoluzione del protagonista da quello che conosciamo a perfetto action hero. O, per rileggerlo sotto un altro punto di vista, da prodotto dell’immaginario nipponico a ennesimo eroe di stampo statunitense.
Se nei precedenti capitoli i buchi di sceneggiatura era disseminati ad arte, per poter essere tappati all’ultimo minuto dall’ennesima svolta narrativa, in questo spin off ci sono e basta. E si parla di un film di 130 minuti, dilatato all’inverosimile e dove la vicenda è riassumibile in una manciata di parole. Siamo passati da un estremo (eccessiva comprensione a discapito della profondità) all’altro, con esiti catastrofici. Unica costante tra i tre film: la regia televisiva. Non proprio un punto di forza, direi.
Approfondimento sul cinema giapponese e mercato occidentale: Eccessi di giapponesità: Tokyo Gore Police, Meatball Machine, The Machine Girl, Death Trance.
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