Una striscia di terra tra Korea del Sud e Korea del Nord. Nell’avamposto 506 tutti gli uomini vengono ritrovati orribilmente massacrati, lasciando un solo sopravissuto in coma. All’indomani della scoperta l’esercito insabbierà tutto, lasciando solo una notte per risolvere il mistero.
Mi ricordo una vecchia intervista a Lamberto Bava da parte dei ragazzi di Nocturno. Il regista sosteneva che la difficoltà maggiore di un horror fosse il riuscire a riempire 90 minuti di pellicola, perché il genere in questione necessita di tempi “brevi”. Probabilmente nessuna ha avvisato di questo il sud koreano Su-chang Kong. Per fortuna.
GP506 è un horror bellico che supera le due ore, non ha scene d’azione ed è completamente basato sull’investigazione. E nonostante il ritmo più che sostenuto alla fine si ha l’impressione di avere ancora spazi bui da illuminare. Sono cose che succedono quando si da la giusta importanza alla sceneggiatura.
La narrazione di GP506 sfida direttamente lo spettatore, richiede attenzione e non lascia spazio a nessun tipo di didascalie da multisala. Trattandosi di un film horror dalla struttura da giallo, la raccolta di testimonianze ha una parte importante nel dipanarsi della vicenda. Partendo da questo presupposto Su-chang Kong si prende la libertà di incastrare presente e passato in maniera del tutto armonica, arrivando anche a racconti all’interno di flashback o flashback all’interno di flashback. Tutto senza mai spiegare nulla allo spettatore, obbligato così a una partecipazione per forza di cose attiva. All’interno della complessa ragnatela di soluzioni narrative studiate dal Nostro, una delle più efficaci e rappresentative è la riproposizione multipla di scene già viste, ogni volta a conoscenza di un nuovo particolare. L’accumulo di indizi cambia completamente la percezione della vicenda ,con effetti tanto stupefacenti da non rendersi quasi conto che quello che scorre sullo schermo lo abbiamo già assimilato una o più volte. Gli eventi si succedono senza tregua, più nelle parole dei soldati che nei fatti. Eppure non ci si annoia mai.
Rispetto al precedente R Point il regista evita alcuni grossolani errori, tipo le incursioni forzate e fuori luogo nel j horror più scontato, ma perde anche parte della fisicità che permetteva al suo esordio di raggiungere vette di tensione impossibili. Si ha l’impressone di un lavoro più maturo e meno di pancia, sicuramente migliore anche se più freddo. Riconfermata in toto l’eleganza della messa in scena, forte di una fotografia e di una regia totalmente fusi tra loro. GP506 riesce a essere claustrofobico e splatter senza mai cadere in cliché o nel pretestuoso, ma guidando lo spettatore in un tour de force linguistico che restituisce al cinema ciò che gli è stato sottratto da televisione e videoclip. Si prenda a esempio il breve piano sequenza in cui la narrazione avviene attraverso specchi e un sinuoso movimento di macchina a spirale, in una sequela di simbolismi legati alla sceneggiatura più che al semplice piacere visivo.
Un horror teso e violento, ma al contempo ricco d'umanità e melodramma. Un crossover di generi e suggestioni che riconferma uno dei più promettenti registi di questa generazione.
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