La cinematografia thailandese è attualmente una delle più attive a livello mondiale. Autentico bengodi per l’amante del cinema di genere, la nazione del sud est asiatico sembra essere l’unico vero erede della produzione Honk Konghese del ventennio d’oro (1980–2000). Alla poetica dell’ex colonia inglese la new wave del cinema thai scippa di forza gusto per l’eccesso e amore incondizionato per la libertà d’espressione più selvaggia, ma ne acquisisce anche un infantilismo ostico per chi non abbia il palato pronto a certi gusti forti tipici del cinema proveniente dal Far East.
Lontana dalla superficie patinata e ipercurata delle produzioni Sud Coreane o dal distacco del cinema nipponico, il cinema thai sembra prendere forza proprio dall’abusata definizione di postmoderno: come in un calderone dove uno sbadato inserviente ha mischiato troppi ingredienti, così gran parte della produzione di questo paese finisce per essere indefinibile, un caleidoscopio metalinguistico dove il cinema vive di continue citazioni e, contemporaneamente, di spinte continue a superare la linea del già visto. Una dicotomia all’apparenza insensata, ma che finisce per dare alcuni dei frutti più interessati che la settima arte pare disposta a concederci in questo inizio di millennio: spingendo a fondo su questo tasto il cinema action finisce così per arrivare a una iper realtà dove tutto è talmente vero da sembrare frutto di elaborate soluzioni in CGI o in wire work. Due gli esempi più lampanti: Born To Fight (aka Kerd Ma Lui, di Panna Rittikrai, 2004) e Tom Yung Gong (giunto in occidente rimontato e rimusicato, distribuito con il titolo The Protector, di Ptachya Pinkaew, 2005). Il primo dei due titoli può essere riassunto facilmente in un’unica e lunghissima sequenza d’azione, tutta imperniata sulla crudezza degli scontri e sulla spericolatezza inaudita degli stunt. In più di un occasione si è costretti a
Discorso più complesso per Tom Yung Gong, successore morale dell’ hit a livello mondiale Ong Bak (sempre di Prachya
Qui tutto è genere, e così il nostro paladino procede via via verso nemici sempre più grossi e cattivi (con tanto di
Fusione tra linguaggi quindi, così come nel lisergico Bankok Loco (Tawan young wan yoo, di Pornchai Hongrattanaporn, 2004), commedia demenziale, citazionista oltre i livelli di guardia, fusa con il musical ma dotata di
Eccesso che pare veramente dominare ogni filone cinematografico, da quello più profondo e festivaliero (vedi Tears of the Black Tiger, western tra melodramma e kitsch a opera di Wisit Sasanatieng e primo film thai ad approdare a Cannes, nel 2000)alle produzioni più smaccatamente di cassetta, esempio su tutti il sequel Art Of The Devil 2 (Long khong, del Team Ronin, 2005), che sfrutta il brand di una delle più deboli pellicole del recente cinema horror orientale per montare una delle campagne promozionali più aggressive che si ricordi, a base di trailer immersi nell’emoglobina e poster decisamente estremi. Il film in sé è in realtà un noioso teen slasher di matrice sovrannaturale, capace però di racchiudere all’interno della narrazione priva di ritmo e mordente alcune fra le scene più crudeli viste nel cinema degli ultimi dieci anni. Tra pornografia gore (ami e lucertole sottocutanee, fiamme ossidriche) e micro ellissi a raccordo sonoro di scuola prettamente Miikiana (si confronti la scena degli aghi del seminale Audition con i denti cavati a forza di AOTD 2) i sette registi di questo seguito-solo-nel-nome hanno rischiato seriamente di fissare un nuovo standard nella rappresentazione della violenza. Peccato per la sceneggiatura stopposa e per certe scelte di montaggio decisamente di peso per lo scorrere del film.
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