lunedì 5 maggio 2008

Botte, sangue e risate: il nuovo cinema thai (Parte 1)


Visto e considerato che per il pezzo seguente mi ero fatto un discreto culo quadro e che per colpa di qualcuno ha goduto di una diffusione paragonabile all'utilità di un contagocce in mezzo al deserto, ho deciso di fregarmene di quanto sia invecchiato e di riproporlo a puntate. Ma ora basta con i preamboli e vai con il primo blocco! Check it out come direbbero alla tivvu dei ggiovani!



La cinematografia thailandese è attualmente una delle più attive a livello mondiale. Autentico bengodi per l’amante del cinema di genere, la nazione del sud est asiatico sembra essere l’unico vero erede della produzione Honk Konghese del ventennio d’oro (1980–2000). Alla poetica dell’ex colonia inglese la new wave del cinema thai scippa di forza gusto per l’eccesso e amore incondizionato per la libertà d’espressione più selvaggia, ma ne acquisisce anche un infantilismo ostico per chi non abbia il palato pronto a certi gusti forti tipici del cinema proveniente dal Far East.

Lontana dalla superficie patinata e ipercurata delle produzioni Sud Coreane o dal distacco del cinema nipponico, il cinema thai sembra prendere forza proprio dall’abusata definizione di postmoderno: come in un calderone dove uno sbadato inserviente ha mischiato troppi ingredienti, così gran parte della produzione di questo paese finisce per essere indefinibile, un caleidoscopio metalinguistico dove il cinema vive di continue citazioni e, contemporaneamente, di spinte continue a superare la linea del già visto. Una dicotomia all’apparenza insensata, ma che finisce per dare alcuni dei frutti più interessati che la settima arte pare disposta a concederci in questo inizio di millennio: spingendo a fondo su questo tasto il cinema action finisce così per arrivare a una iper realtà dove tutto è talmente vero da sembrare frutto di elaborate soluzioni in CGI o in wire work. Due gli esempi più lampanti: Born To Fight (aka Kerd Ma Lui, di Panna Rittikrai, 2004) e Tom Yung Gong (giunto in occidente rimontato e rimusicato, distribuito con il titolo The Protector, di Ptachya Pinkaew, 2005). Il primo dei due titoli può essere riassunto facilmente in un’unica e lunghissima sequenza d’azione, tutta imperniata sulla crudezza degli scontri e sulla spericolatezza inaudita degli stunt. In più di un occasione si è costretti a riflettere se quello a cui si sta assistendo sullo schermo sia tutto vero, ritornando con il pensiero al Jackie Chan degli anni ’80 e alle sue acrobazie senza freni, mentre si assiste a cadute e salti di ogni genere e da ogni altezza. Inutile dire quanto, in un opera simile, la trama sia pretestuosa e superflua.

Discorso più complesso per Tom Yung Gong, successore morale dell’ hit a livello mondiale Ong Bak (sempre di Prachya Pinkaew). In controtendenza a mode da videoclip tipicamente statunitensi il regista sceglie come mezzo espressivo il piano sequenza, dalle origini del cinema indicato come strumento per eccellenza di veridicità e realismo. L’innovazione sta tutta nel fondere così le prodezze reali del disumano Tony Jaa con una grammatica presa di forza dal videogioco. Come dire, il massimo del realismo che incontra l’universo totalmente finzionale di avatar e seconde vite. Nel celebrato piano sequenza il cui il protagonista percorre un intero palazzo a balconate, con decine di attori menanti e ogni tipo di orpello frantumato nella furia del combattimento, sembra realmente di assistere ad una partita a qualche sorta di picchiaduro. Eppure tutto il fascino della messa in scena sta nel fatto che tutto sta accadendo realmente sotto i nostri occhi, senza mediazioni extradiegetiche se non una musica drum’n’bass messa lì proprio a pompare adrenalina facile facile.

Qui tutto è genere, e così il nostro paladino procede via via verso nemici sempre più grossi e cattivi (con tanto di autentici boss di fine livello) in un delirio di linguaggi che raramente ci si è trovato di fonte così esplicito e pornografico.

Fusione tra linguaggi quindi, così come nel lisergico Bankok Loco (Tawan young wan yoo, di Pornchai Hongrattanaporn, 2004), commedia demenziale, citazionista oltre i livelli di guardia, fusa con il musical ma dotata di una messa in scena di una ricercatezza unica. Montaggio, fotografia, color correction, movimenti di macchina: nulla è come ci si aspetterebbe, tutto è un gradino più in la di quello che si è già visto anche nelle sperimentazioni più ardite. Pensate all’umorismo surreale di un Cromartie High School (Sakigake!! Kuromati Kôkô: The Movie, di Yudai Yamaguchi, 2005), unito con l’aroma pecoreccio della commedia scollacciata e il gusto per lo scatologico del John Water più contenuto, il tutto filmato in maniera tale da far sembrare un Crank (Mark Neveldine, Brian Taylor, 2006) qualsiasi come un caposaldo del cinema classico. Pur rimanendo in territori da commedia si finisce per sforare quasi in un estetica da avanguardia stilistica, come se la videoarte si scoprisse improvvisamente divertente.

Eccesso che pare veramente dominare ogni filone cinematografico, da quello più profondo e festivaliero (vedi Tears of the Black Tiger, western tra melodramma e kitsch a opera di Wisit Sasanatieng e primo film thai ad approdare a Cannes, nel 2000)alle produzioni più smaccatamente di cassetta, esempio su tutti il sequel Art Of The Devil 2 (Long khong, del Team Ronin, 2005), che sfrutta il brand di una delle più deboli pellicole del recente cinema horror orientale per montare una delle campagne promozionali più aggressive che si ricordi, a base di trailer immersi nell’emoglobina e poster decisamente estremi. Il film in sé è in realtà un noioso teen slasher di matrice sovrannaturale, capace però di racchiudere all’interno della narrazione priva di ritmo e mordente alcune fra le scene più crudeli viste nel cinema degli ultimi dieci anni. Tra pornografia gore (ami e lucertole sottocutanee, fiamme ossidriche) e micro ellissi a raccordo sonoro di scuola prettamente Miikiana (si confronti la scena degli aghi del seminale Audition con i denti cavati a forza di AOTD 2) i sette registi di questo seguito-solo-nel-nome hanno rischiato seriamente di fissare un nuovo standard nella rappresentazione della violenza. Peccato per la sceneggiatura stopposa e per certe scelte di montaggio decisamente di peso per lo scorrere del film.



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