FRONTE
RETRO
Ci si legge domenica.
Ci si legge domenica.
E poi succede che ti stupisci e ti accorgi che le cose non sono quasi mai come te le aspetti. Come quando compri il primo volume di Shaolin Cowboy unicamente per i disegni del divino Geof Darrow e ti rendi conto che ciò che ti conquista di più del fumetto in questione è il suo lato narrativo.
Shaolin Cowboy è un personaggio incomprensibilmente carismatico, che si muove in un mondo dall’iconografia talmente forte e radicale da guadagnarsi un identità propria già nei primi due mini archi narrativi (riassumibili in due lunghissime scene di combattimento). Granchi vendicativi, mostri ENORMI, divinità hip hop, squali, motoseghe,… ogni cosa pare talmente fuori posto da funzionare perfettamente. L’impressione di una concreta mancanza di limiti viene rafforzata dalla follia dei dialoghi, che passano dallo humor dei Monthy Phyton a esplosioni di volgarità degne del Garth Ennis più in forma, oltre che dall’iperbolica regia di Geof Darrow. Per una volta il livello maniacale dei dettagli nelle sue tavole passa in secondo piano rispetto alla loro costruzione: carrellate, panoramiche e dolly funambolici prendono vita sotto i nostri occhi, spingendo un bel po’ più in la quello che pareva consentito alla carta stampata. I riferimenti stilistici a un certo cinema marziale/fantasy di Hong Kong sono palesi (basti il protagonista stesso), così come l’ossessione per l’accumulo e la violenza stilizzata. Fiumi di sangue e un mare di morti vanno a infradiciare la complessa ragnatela di riferimenti pop che compongono uno dei punti di forza dell’immaginario di questo prodotto. La citazione per una volta assume l’importanza e il ruolo che gli compete, evitando lo sterile giochino del riferimento (quasi mai) colto al film preferito dall’autore. Esattamente come nella Lega Mooriana, ogni tassello ha un suo preciso perché (fondamentale per entrare nell’ottica del bizzarro umorismo che permea tutta l’opera) ma per questo non deve essere per forza chiaro anche al più ebete dei lettori. Piccolo particolare indispensabile per ovviare al Tarantinismo d’acchito, una delle più grosse piaghe della cultura occidentale degli ultimi dieci anni.
Shaolin Cowboy è un prodotto colto, profondamente raffinato nella sua volgarità da supermercato, aspetto che va nuovamente a collegarsi con la macchina da cinema che rappresentava l’ex colonia inglese negli anni ’80. Quando i primi noir balistici made in HK arrivarono in Europa l’effetto più immediato fu la restituzione a un’intera generazione di cinefili dei loro eroi dell’infanzia, solamente inseriti in un contesto per cui il termine ultraviolenza finalmente assumeva un significato. I limiti scomparvero e non era più sacrilegio immaginarsi due Beretta dai caricatori infiniti, cosi come fantasy smise di significare soltanto ex culturisti in perizoma di pelo, ma spadacini volanti, ninja dai poteri sovrannaturali, geyser di sangue e mondi a chilometri dal limite del credibile.
Shaolin Cowboy è l’obbligo di scordare tutte quelle regole che ci si impone ogni volta che si entra a contatto con l’immaginario. Semplicemente.
Acqua Storta non colpisce per il suo innesto brutale in una delle realtà più tragiche del territorio italiano. Non colpisce neppure per la sua natura di remake in chiave camorristica di Brokeback Mountain. Acqua Storta colpisce perché non si fa capire.
Nel breve romanzo di L.R. Carrino tutto sembra fatto per tenere all’oscuro il lettore dalla realtà dei fatti: muore gente di cui non si era mai sentito parlare, si confabula al telefono qualcosa che non verrà mai rivelato, ci si muove come marionette nel più tragico dei teatrini. Ed è proprio così che appaiono Giovanni e Salvatore, i due protagonisti della vicenda. Ci viene fatto credere che sono indipendenti, liberi dalle leggi marziali di un organizzazione criminale che nulla perdona e a cui nulla sfugge, e invece, ancora una volta, la realtà sarà più dura di noi.
Non è un caso che molte parti del romanzo siano scritte proprio in napoletano, che si facciano riferimenti (a posti, persone,..) assolutamente incomprensibili a chiunque non venga dalla città partenopea. Se avessi un amico originario del capoluogo Campano mi piacerebbe chiedergli a che pagina le cose hanno incominciato ad apparirgli chiare. Forse a metà, magari direttamente dal primo capitolo. Mentre per me, nato e cresciuto nella ricca provincia Bergamasca, i fatti hanno rivelato la loro fisionomia solo nelle ultime due/tre pagine.
Probabilmente il romanzo mi sarebbe apparso meno misterioso e incomprensibile, probabilmente meno bello. E invece così non fa altro che farmi sentire più inerte. Semplicemente più piccolo.
Acqua Storta
di L.R. Carrino
Pag. 128 - Euro 10,00
Edizioni Meridiano Zero
ISBN 978-88-8237-159-3
Tom Yung Goong stava a Devil May Cry come Chocolate a Double Dragon. Al femminile però.
Il nuovo hit del sempre più florido cinema delle mazzate thai si pone come non plus ultra per quanto riguarda il lato marziale, ma non riesce a raggiungere Tabunfire (Dynamite Warrior) sul versante cinematografico. Come nei due Tony Jaa movies (Ong Bak e TYG) e l’ultraviolento Born To Fight, la trama è un semplice pretesto per portare lo spettatore da un combattimento all’altro, fino alla sfiancante maratona finale, 25 minuti su 80 di durata totale. Gli scontri e il corpo, con la sua fisicità e il suo dinamismo, sono quindi al centro dell’opera, e con loro tutta una serie di rimandi all’immaginario collettivo.
Non è un caso se il primo combattimento, dove la giovane protagonista rivela la sua furia distruttrice, si consuma proprio in una ghiacciaia. Tra l’altro nei primi trailer promozionali di questo Chocolate si potevano notare proprio alcune clip in cui l’addestramento di Zen passava anche dalla visione di Game Of Death, ultimo film (anche se mai completato) del compianto Piccolo Drago. Insomma un vero e proprio omaggio alla genesi di un mito, confermato anche durante la sequenza da una sere di urli e mosse tipiche dell’ attore/regista/atleta/filosofo di origini Hong Konghesi.
Ma la vera scena di culto, quella che compete alla pari con il piano sequenza di scuola PS/XBOX di Tom Yung Goong, sono i dieci minuti passati tra leve, ginocchiate e stunt su tre cornicioni posti a diversi livelli. La cosa più simile che si potesse immaginare a un picchiaduro a scorrimento. Come è logico i movimenti in profondità sono impossibili in un tale contesto, lasciando libertà di movimento soltanto in verticale e in orizzontale. Non avete idea di quanto dolore possa trasmettere il passaggio da pixel a carne e ossa quando portato fino in fondo (piccola frecciatina alle produzioni statunitensi?).
Per il resto il film è una magnifica sarabanda di trovate, con un incipit forse fin troppo melò, ma che dopo la prima mezz’ora subisce un accelerazione vertiginosa verso la sublimazione della narrazione. Una valanga di calci, pugni, salti e stunts al limite dell’umano. Peccato che la costruzione di una mitologia locale sia ancora lontana, escludendo appunto il già citato fantasy spaghetti western Tabunfire: a fare grande il cinema marziale dell’ex colonia inglese infatti non furono soltanto registi e atleti, ma anche il significato iconico che molti personaggi si portano appresso anche oggi. Impossibile negare che mexican stand off, doppie Beretta e Chow Yun Fat che scivola su di un passamano non richiamino immediatamente una certa idea di azione esagerata, fatta di sangue, lacrime, onore e quintalate di piombo rovente. Anche senza essere fan esagerati di John Woo.
Non tutti i film necessitano di un analisi seria e approfondita. Esistono masterpiece capaci di riportarci a quella dimensione tipicamente infantile legata a doppio filo con le classiche bustone da edicola. Pacchetti multicolor ravvivati da strilli fuori misura, oggetti invitanti e misteriosi. All’interno ci trovavi sempre qualcosa che non ti aspettavi, e anche se ogni ingrediente era completamente slegato dagli altri l’alchimia che si veniva a creare era qualcosa di inimitabile. Questa rubrica è ispirata proprio a quelle bustone, e a tutti quei film dove l’accumulo vale più della coerenza interna. Opere sgangherate, sottovalutate, ma ricche di un fascino che solo l’enumerazione dei singoli ingredienti può spiegare.
Nella bustona di oggi troverete:
Chow Yun Fat vestito da ritardato, che si aggira per HK con una macchina da ritardati e che si atteggia come Mel Gibson nella versione per ritardati di Arma Letale (che non differenzia molto da quella standard),
Liu Chia-liang alla regia (per chi non lo sapesse qui si parla di uno dei più grandi registi e coreografi d’arti marziali di sempre, l’uomo che ha consegnato ai posteri The 36th Chamber of Shaolin),
Ti Lung nei panni di un ex boss delle triadi (sempre per chi non lo sapesse Ti Lung è l’uomo con la più alta media di morti per pellicola nella storia del cinema, andatevi a riguardare A Better Tomorrow 1&2, Blood Brothers, Mercenaries from Hong Kong, The Flying Guillotine 2, Return of the One-Armed Swordsman,…),
Gordon Liu che interpreta un killer (va bene, se non sapete eppure questa non avete mai visto nulla di made in HK, a questo punto accontentatevi di sapere che Liu è il monaco protagonista della trentaseiesima camera nonché fratello adottivo del regista),
Un discreto numero di comparsate da parte della generazione di attori che fecero grandi le produzioni Shaw Brother,
Misoginia (recuperate la versione UK che riporta tutta la scena in cui Chow Yun Fat picchia Nina Li come se non ci fosse un domani),
Orrido canto pop anni’80 (il canto pop è la versione HK del jpop giapponese o del kpop coreano),
Vagonate di umorismo becero e sguaiato,
Una sceneggiatura che si esaurisce dopo 60 minuti,
Una mezz’ora finale composta unicamente da morti, distruzione e sangue a secchi,
Improbabili acrobazie aeree di un fucile a pompa,
Duelli alla Chang Cheh ma con delle simpatiche motoseghe,
I seni di Nina Li.
A 5.5o euri su Play.com. Mi pare che li valga tutti.
Effettivamente a oggi la scrittura e la costruzione di un immaginario dotato di basi solide sembrano essere decisamente il punto debole di questa new wave (naturalmente con le sue notevoli eccezioni, esempio su tutti il noir esistenzialista Last Life In The Universe, lavoro in cui il colpo di scena risolutore è inserito talmente ad arte da sfuggire allo spettatore meno attento), finendo spesso per impantanarsi in un impasse a metà tra l’ultranazionalismo e il derivazionismo coatto o, in
In controtendenza il recente Dinamite Warrior(Khon Fai Bin, di Chalerm Wongpim, 2006) si propone invece come film di arti marziali alla Tony Jaa (e in effetti il coreografo e il produttore sono gli stessi dietro ai successi del superatleta) ma nasconde invece al suo interno un considerevole sforzo verso un’effettiva maturazione a tutto tondo. Il risultato è degno dei migliori wuxia Hong Konghesi, ma riletto sotto una luce tipicamente thai: abbiamo così un guerriero misterioso epigono di Robin Hood, una trama capace di miscelare dati storici con magia nera e colpi di scena, una marea di citazioni dall’opera di Sergio Leone, tante botte e una messa in scena più vicina al fantasy orientale classico (quindi sporca e violenta) rispetto che ai moderni polpettoni al gusto di plastica a opera di Yimou Zhang. L’opera ha moltissimi difetti, ma il passo avanti rispetto agli esperimenti precedenti in campo action è effettivamente grandioso.
La compattezza della produzione di questa nazione è quella tipica delle scuole di pensiero fortemente radicate nella cultura che le ha generate, esattamente come successe in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ’70 o, come si è già detto, a Hong Kong negli anni ’80. In questa ondata di registi e sceneggiatori devono comunque esistere delle figure guida, una delle quali può essere ricondotta senza il minimo dubbio al giovane Yuthlert Sippapak, capace di dare in pasto al pubblico due tra le opere più rappresentative del frullato pop a cui fa capo il cinema thai. Stiamo parlando di Killer Tattoo (2001), sorta di action comedy dove trovate ai limiti della parodia convivono con parentesi melodrammatiche ed eccessi balistici degni del Ringo Lam di Full Contact (Haap dou Ko Fei, 1993), e del piccolo cult Buppah Ratthtree (2003), scheggia impazzita dove è possibile ritrovare struggenti storie d’amore, commedia, horror e splatter, in un carosello totalmente folle che non può non ricordare (anche per follia espositiva e furore registico) il capolavoro Save The Green
Uno dei punti su cui questo cineasta pare insistere molto è, al pari di una grandissima fetta di tutto il cinema thai, la simpatia per quelli che molta gente definirebbe come outcast, fuori casta. L’appartenente alla minoranza, il povero, il tagliato fuori dal mondo civile, figure solitamente escluse dal mondo del cinema, se non per poterle sfruttare a fini politically uncurrect o, all’opposto, ai limiti del patetico (limite ampiamente superato quando il film in questione viene presentato in qualche vetrina internazionale), nel folle immaginario dei vari Sippapak riescono a prendersi la loro rivincita sul mondo dei cosiddetti normali. Nel B-movie Sars War (Khun Krabii hiiroh, di Taweewat Wantha, 2004) sorta di sgangherato e sovraccarico omaggio ai monster movie di derivazione eco vengeance, il bruttissimo protagonista Suthep Po-ngam, quaranta chili di ometto calvo e sdentato, non solo combatte come un Bruce Willis dei tempi d’oro ma si porta pure a letto, con grande soddisfazione di lei, la porno scienziata di turno.
Da notare come il vero protagonista, naturalmente belloccio e tutto preso da mosse sempre più cool, riesca anch’esso a concludere con la bellezza da salvare come da copione, ma sul più bello questa si riveli un/a transgender, tipologia di personaggio, presente molte volte anche come comunità, che praticamente compare in tutti i film come interprete di una sorta di terzo sesso. Non uomini travestiti da donne o viceversa, ma semplicemente entità comprese tra i due estremi, situazione borderline spesso talmente naturalizzata da non prevedere particolari accorgimenti in fase di sceneggiatura (uno è un travestito, punto e basta, senza portare per forza di cose ad altro). Naturalmente anche questo punto, oltre
Nel campione d’incassi The Bodyguard, il protagonista mena senza pietà Sayan Meungrajarn, un noto comico tailandese affetto da sindrome di down, dopo averne prese a vagonate (come altri durante il film) proprio da quest’ultimo.
Una sensibilità che traspare con tutta la sua irruenza anche nel recente Dorm (Dek Hor, di Songyos Sugmakanan, 2006), commovente e dolcissima storia di fantasmi bambini. Come in una controparte orientale di Stand By Me o del bildungsroman ad opera di Joe R. Lansdale
Un film piccolo, piccolo, magnificamente scritto e realizzato, ma soprattutto impensabile fuori dai confini della sua
La cinematografia thailandese è attualmente una delle più attive a livello mondiale. Autentico bengodi per l’amante del cinema di genere, la nazione del sud est asiatico sembra essere l’unico vero erede della produzione Honk Konghese del ventennio d’oro (1980–2000). Alla poetica dell’ex colonia inglese la new wave del cinema thai scippa di forza gusto per l’eccesso e amore incondizionato per la libertà d’espressione più selvaggia, ma ne acquisisce anche un infantilismo ostico per chi non abbia il palato pronto a certi gusti forti tipici del cinema proveniente dal Far East.
Lontana dalla superficie patinata e ipercurata delle produzioni Sud Coreane o dal distacco del cinema nipponico, il cinema thai sembra prendere forza proprio dall’abusata definizione di postmoderno: come in un calderone dove uno sbadato inserviente ha mischiato troppi ingredienti, così gran parte della produzione di questo paese finisce per essere indefinibile, un caleidoscopio metalinguistico dove il cinema vive di continue citazioni e, contemporaneamente, di spinte continue a superare la linea del già visto. Una dicotomia all’apparenza insensata, ma che finisce per dare alcuni dei frutti più interessati che la settima arte pare disposta a concederci in questo inizio di millennio: spingendo a fondo su questo tasto il cinema action finisce così per arrivare a una iper realtà dove tutto è talmente vero da sembrare frutto di elaborate soluzioni in CGI o in wire work. Due gli esempi più lampanti: Born To Fight (aka Kerd Ma Lui, di Panna Rittikrai, 2004) e Tom Yung Gong (giunto in occidente rimontato e rimusicato, distribuito con il titolo The Protector, di Ptachya Pinkaew, 2005). Il primo dei due titoli può essere riassunto facilmente in un’unica e lunghissima sequenza d’azione, tutta imperniata sulla crudezza degli scontri e sulla spericolatezza inaudita degli stunt. In più di un occasione si è costretti a
Discorso più complesso per Tom Yung Gong, successore morale dell’ hit a livello mondiale Ong Bak (sempre di Prachya
Qui tutto è genere, e così il nostro paladino procede via via verso nemici sempre più grossi e cattivi (con tanto di
Fusione tra linguaggi quindi, così come nel lisergico Bankok Loco (Tawan young wan yoo, di Pornchai Hongrattanaporn, 2004), commedia demenziale, citazionista oltre i livelli di guardia, fusa con il musical ma dotata di
Eccesso che pare veramente dominare ogni filone cinematografico, da quello più profondo e festivaliero (vedi Tears of the Black Tiger, western tra melodramma e kitsch a opera di Wisit Sasanatieng e primo film thai ad approdare a Cannes, nel 2000)alle produzioni più smaccatamente di cassetta, esempio su tutti il sequel Art Of The Devil 2 (Long khong, del Team Ronin, 2005), che sfrutta il brand di una delle più deboli pellicole del recente cinema horror orientale per montare una delle campagne promozionali più aggressive che si ricordi, a base di trailer immersi nell’emoglobina e poster decisamente estremi. Il film in sé è in realtà un noioso teen slasher di matrice sovrannaturale, capace però di racchiudere all’interno della narrazione priva di ritmo e mordente alcune fra le scene più crudeli viste nel cinema degli ultimi dieci anni. Tra pornografia gore (ami e lucertole sottocutanee, fiamme ossidriche) e micro ellissi a raccordo sonoro di scuola prettamente Miikiana (si confronti la scena degli aghi del seminale Audition con i denti cavati a forza di AOTD 2) i sette registi di questo seguito-solo-nel-nome hanno rischiato seriamente di fissare un nuovo standard nella rappresentazione della violenza. Peccato per la sceneggiatura stopposa e per certe scelte di montaggio decisamente di peso per lo scorrere del film.
Mani Nude vi terrorizzerà. Sorprendente, considerando il fatto che il romanzo in questione si pone agli antipodi di ogni genere con tale obiettivo come fine ultimo.
Come i suoi protagonisti, Mani Nude gioca sporco. Perché, per quanto estremo e rivoltante, tutto quello descritto nel romanzo di Paola Barbato potrebbe accadere realmente. A ognuno di noi. Mani Nude gioca sporco perché spesso, molto spesso, la realtà può avere un effetto esponenzialmente più destabilizzante di ogni fantasia, anche la più spinta o visionaria.
Siete un sedicenne, un banale e scontato sedicenne. Con i pensieri, i sogni e le fantasie che un ragazzo di tale età può avere. In una sera come tante altre venite rapito, chiuso in un camion e costretto a lottare per la vita in una serie di combattimenti illegali. E’ il primo giorno del resto della vostra nuova vita.
Partendo da uno spunto capace di stimoli ma comunque conosciuto, l’autrice assesta un paio di colpi spiazzanti e capaci di fa guadagnare alla vicenda una fisionomia nuova. Il tema del corpo, legato in maniera indissolubile al genere, abbandona le suggestioni nichilistiche e viscerali riconoscibili nel film Tokyo Fist di Shinya Tsukamoto o in opere narrative come Fighter di Craig Davidson o Fight Club di Chuck Palahniuk per procedere nella direzione opposta. Se negli esempi riportati la body modification spingeva verso una mutazione violenta della carne, con corpi desiderosi di essere sempre più vicini a una versione tumefatta dell’Elephant Man di Lynch, in Mani Nude il combattente deve essere bello. Niente lividi, nasi rotti o denti neri. Nel romanzo ci si sofferma minuziosamente nel seguire operazioni futili che ci aspetterebbe di ritrovare più in un salone di bellezza che in un’arena per la boxe clandestina. Si passa così da una concezione del sesso totalizzante e metaforica a una sfera più esplicita e virata in una chiave tra il queer e il decadente.
In secondo luogo, l’analisi dei processi interiori dei protagonisti, più vicina a un contorto bildungsroman piuttosto che al Cane di Paglia peckinpahniano. Davide, il protagonista, non sprofonda in un baratro di follia, non si isola in un nuovo mondo costruito a sua misura. Piuttosto riesce a trovare una convivenza tra maturazione e regressione a uno stadio infantile. Entra in una fase adulta diventando cosciente e consapevole, ma sviluppa nel contempo una dipendenza del suo maestro che si pone a metà tra il rapporto padre-figlio (qui la regressione), cane-padrone (decisamente regressione) e l’attrazione omoerotica. Paola Barbato riesce a dare profondità a un groviglio di spinte interiori inestricabile, senza mai cadere nel didascalico. Il lettore si trova così costretto a leggere fra le righe, tendenza esplicitata anche dalle numerose ellissi narrative che punteggiano le 430 pagine del romanzo.
Un romanzo in cui il contatto fisico è solo un sofisticato mcguffin, dove i veri protagonisti sono i rapporti umani. Che, inseriti in un contesto che di umano non ha nulla, finiscono per implodere su se stessi. Fino alla beffa finale.