venerdì 22 febbraio 2008

[oldies but goldies] The Neighbor No. 13 di Yasuo Inoue (2005)

Siamo nel 2005. Sul fronte occidentale impazza l’invasione del new horror dagli occhi a mandorla, il mercato si satura di film cuscinetto e nell’aria incominciano a girare le voci di un remake da parte degli americani del capolavoro Kairo (Pulse) di Kiyoshi Kurosawa, probabilmente il film meno esportabile dal mercato giapponese dai tempi di Tetsuo. In questa desolante sarabanda viene gettato anche Yasuo Inoue, che dalla sua non ha certo molti punti a favore: esordisce al cinema sfruttando un genere in cui la possibilità di emergere sono, al momento, pressoché nulle, proviene dal mondo dei videoclip e, in ultimo, il suo film è noto ai più solo per la partecipazione di Takashi Miike come attore. E perché l’edizione a tiratura limitata del DVD è una figata imbattibile. Insomma, sembrava proprio che N13 non se lo sarebbe filato nessuno, esattamente come successe con il fumetto a cui era ispirato (a opera di tal Inoue Santa).
E invece, sorpresa sorpresa, il film è una bomba. Recuperando il vero significato di perturbante freudiano, l’intera opera parte dal presupposto di un passato rimosso ma familiare, di qualcosa che non ci è chiaro ma permea la nostra vita per la sua interezza, il bistrattato Yasuo costruisce un opera elegante, angosciosa e mai scontata.


Jûzô Murasaki è un giovane frustrato da un passato crudele, fatto di bullismo e torture. La repressione continua di questi stimoli lo ha portato, infine, a una dissociazione della personalità, generando una sorta di gemello malvagio.

La trama può essere, a grandi linee, riassumibile così: terribilmente banale (considerando anche le accuse alla società nipponica, flagellata dalla piaga della violenza giovanile). Ma è come viene raccontata che colpisce duro, durissimo. A esempio di questo, il colpo di genio visionario che stilizza in uno affresco di pura follia i viaggi nell’inconscio del protagonista: due uomini nudi, imperlati di sudore, che ballano al lume di una lampadina tremolante sui ritmi di una martellante musica techno. Guardandosi negli occhi, sfidandosi senza dire una parola. E questo è solo un assaggio di quello che la pellicola ci riserva, tra splatter estremo, animazioni malate e istanti di autentico terrore. Di quello che cresce dentro ma non si capisce il perché, che nasce da un inquadratura lenta e sinuosa, dal silenzio.

Non ci sono colpi a effetto in questo N13, il perturbante è già sullo schermo prima che noi ce ne accorgiamo, che ci osserva prima che noi ci sorprendiamo a guardare lui. Ci sorride attraverso i lineamenti deformi del lato oscuro di Jûzô. Come ne Gli Ambasciatori di Holbein il Giovane.


Esecuzione su esecuzione, la vicenda ci porta all’inevitabile e prevedibile scontro finale tra le due facce della stessa medaglia, alla scena che tutti si aspettano e commentano divertiti già a pochi minuti dall’inizio della pellicola. Ma anche qui veniamo sorpresi. Nessun climax apocalittico ad attenderci, nessuna impennata del bodycount. Solamente la rabbia per quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, la malinconia di un' infanzia spezzata. Una privazione più mortifera e menomante di qualunque motosega o machete. Il non senso assoluto che prende forma davanti ai nostri occhi attoniti. Se si guarda bene, il peggiore degli incubi potrebbe non abitare che a pochi metri da casa nostra.


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