Se si volesse tracciarne una definizione compresa tra le assi cartesiane del cinema occidentale, questo 13 Beloved apparirebbe come una sorta di incrocio ad alto tasso metaforico tra la saga di “Saw” e “Un giorno di ordinaria follia”. Se abitassimo in un mondo più giusto, potremmo invece definirlo come l’ennesima conferma della salute eccellente del nuovo cinema tailandese, senza sembrare come dei geek alla perenne ricerca della nicchia da scoprire. Ed è un peccato che sia la prima ipotesi ad avere la meglio, perché questo nuovo lavoro di Chukiat Sakveerakul ha la potenza deflagrante di una bomba tubo gettata in un grande magazzino il giorno della vigilia di Natale. Una miscela di tensione, ripugnanza e humor nero con un tasso di cinismo alle soglie del sopportabile, il tutto servito con un impianto scenico e linguistico tra l’avanguardia e l’allucinato, senza però mai risultare stopposo o pedante.
Dopo un breve e (apparentemente) inutile prologo, ci viene presentato il giovane Phuchit (interpretato dall’ottimo Krissada Terrence, già nel fenomenale “Bangkok Loco”), salesman per una nota ditta di strumenti musicali. Per il Nostro gli affari (anche sentimentali) non vanno bene e la sua vita pare finita sull’orla di un baratro, con gli ingenti debiti a spingere verso il vuoto e la definitiva caduta. Fortunatamente la situazione è destinata a cambiare, ma nel modo più imprevisto. In seguito ad una misteriosa telefonata Phuchit è invitato a partecipare ad un gioco telefonico, una sorta di “Chi vuol essere milionario?” in tredici passaggi. Ad ogni step corrisponde una vincita in denaro e una prova per potersela accaparrare. Naturalmente prima si decide se accettare e solo successivamente si viene introdotti al nuovo livello del gioco, il cui rifiuto corrisponde alla perdita totale del monte premi. Si comincia con l’uccidere una mosca, ma molto presto ci si ritroverà prigionieri in gironi pasoliniani, fino al più selvaggio degli atti di violenza gratuita.
Tra interni perennemente illuminati a giorno, tagli di inquadrature sghembi, intrusioni sonore stranianti (ma una volta finito il film tutto combacia), un protagonista sempre più lercio (sia dentro che fuori) il lungometraggio viaggia come un treno verso la conclusione. Non è che ci sia molto da sezionare e analizzare in questo 13 Beloved: la critica al consumismo e all’avidità è talmente chiara e diretta da sfuggire a ogni possibile accusa di paternalismo o moralismo didascalico. E’ piuttosto la struttura da gioco a premi televisivo, dove in palio c’è pecunia e non la vita o qualcosa di altrettanto drammatico, a favorire un immedesimazione spiazzante e fin troppo immersiva. Se spesso si sceglie la totale alterità come fattore perturbante, sempre in ambito ludico si pensi all’ultraviolenza del non senso nel seminale “Funny Games” (1997) di Michael Haneke, qui è proprio la possibilità di immedesimazione a chiudere lo stomaco. Chiunque, durante la visione, si porrà almeno una volta la domanda circa cosa farebbe lui stesso in una simile situazione. Uccidere una mosca per soldi? Perché no? Proseguire o perdere tutto? Semplicemente agghiacciante, soprattutto in virtù dello strisciante senso dell’umorismo che pervade tutta la durata del lavoro. Una presa in giro che non sfocerà in nessuna risata liberatoria, ma in un amaro sorriso sempre più serrato e di circostanza. Perché alla fine è tutto un gioco, finzione. Nel mondo reale non potrebbe mai succedere qualcosa del genere. Vero?
Dopo un breve e (apparentemente) inutile prologo, ci viene presentato il giovane Phuchit (interpretato dall’ottimo Krissada Terrence, già nel fenomenale “Bangkok Loco”), salesman per una nota ditta di strumenti musicali. Per il Nostro gli affari (anche sentimentali) non vanno bene e la sua vita pare finita sull’orla di un baratro, con gli ingenti debiti a spingere verso il vuoto e la definitiva caduta. Fortunatamente la situazione è destinata a cambiare, ma nel modo più imprevisto. In seguito ad una misteriosa telefonata Phuchit è invitato a partecipare ad un gioco telefonico, una sorta di “Chi vuol essere milionario?” in tredici passaggi. Ad ogni step corrisponde una vincita in denaro e una prova per potersela accaparrare. Naturalmente prima si decide se accettare e solo successivamente si viene introdotti al nuovo livello del gioco, il cui rifiuto corrisponde alla perdita totale del monte premi. Si comincia con l’uccidere una mosca, ma molto presto ci si ritroverà prigionieri in gironi pasoliniani, fino al più selvaggio degli atti di violenza gratuita.
Tra interni perennemente illuminati a giorno, tagli di inquadrature sghembi, intrusioni sonore stranianti (ma una volta finito il film tutto combacia), un protagonista sempre più lercio (sia dentro che fuori) il lungometraggio viaggia come un treno verso la conclusione. Non è che ci sia molto da sezionare e analizzare in questo 13 Beloved: la critica al consumismo e all’avidità è talmente chiara e diretta da sfuggire a ogni possibile accusa di paternalismo o moralismo didascalico. E’ piuttosto la struttura da gioco a premi televisivo, dove in palio c’è pecunia e non la vita o qualcosa di altrettanto drammatico, a favorire un immedesimazione spiazzante e fin troppo immersiva. Se spesso si sceglie la totale alterità come fattore perturbante, sempre in ambito ludico si pensi all’ultraviolenza del non senso nel seminale “Funny Games” (1997) di Michael Haneke, qui è proprio la possibilità di immedesimazione a chiudere lo stomaco. Chiunque, durante la visione, si porrà almeno una volta la domanda circa cosa farebbe lui stesso in una simile situazione. Uccidere una mosca per soldi? Perché no? Proseguire o perdere tutto? Semplicemente agghiacciante, soprattutto in virtù dello strisciante senso dell’umorismo che pervade tutta la durata del lavoro. Una presa in giro che non sfocerà in nessuna risata liberatoria, ma in un amaro sorriso sempre più serrato e di circostanza. Perché alla fine è tutto un gioco, finzione. Nel mondo reale non potrebbe mai succedere qualcosa del genere. Vero?
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