Fighter non è una nuova copia sbiadita del giustamente cult generazionale Fight Club (loro On the Road, noi le gesta di un manipolo di terroristi impegnati nel massacrarsi di botte. Grazie per il bel mondo che ci avete lasciato!). Fighter è la versione cartacea del capolavoro viscerale Tokyo Fist (Shinya Tsukamoto, 1995), autentico manifesto postmoderno della body modification come segno di ribellione alla conformità. Esattamente come nel lungometraggio nipponico, la sfida sul ring, il confronto con l’avversario è solo una scusa per potersi immergere senza sensi di colpa nella sfera dell’ ultraviolenza più brutale, unico mezzo per modificare definitivamente la propria carne e quindi la propria vita. Lineamenti ridotti a poltiglia, cicatrici mal cucite, steroidi e piercing estremo. Il corpo che si lacera, cambia forma, diventa altro. Definitivamente, un biglietto di sola andata verso la nuclearizzazione più talebana. Da questo punto di vista la cupa atmosfera da ordine mondiale della nuova carne cronenberghiana/ballardiana viene abbandonato a favore di un egoistico ed egocentrico viaggio interiore, alla riscoperta della propria vera natura. La piena consapevolezza di se stessi che porterà inesorabilmente al conclusione più nera. La sfida all’ignoranza e all’innocenza passa direttamente per la conoscienza dei nostri limiti, con tutto il carico di dolore che una scelta simile può portare.
Fighter parla di boxe clandestina, di incontri consumati tra sporcizia e sangue rappreso. Due storie di fascinazione per la violenza, per le conseguenze della stessa sulla nostra essenza più materiale. Sull’aiuto che queste ci possono dare per riprenderci la nostra vita. Carne tumefatta e ossa rotte come soluzione ai problemi, alla noia, alle prospettive che non ci appartengono. Autodistruzione come miglioramento. Dal punto di vista strettamente narrativo, interessandosi alla descrizione dello scontro fisico, non esiste eleganza in questo libro. Non ci sono i geyser di sangue che arricchivano di algida stilizzazione i due Lady Snowblood di Toshiya Fujita, e neppure l’armonia e la bellezza delle coreografie di Siu-Tung Ching. Non esiste attrazione per questo tipo di orrore, la maschera inumana di chi non pare appartenere più al nostro ramo dall’evoluzione da almeno tre round ma si rifiuta comunque di andare giù. Il libero arbitrio portato al cubo, più terrorizzante di ogni serial killer e di qualunque mostro tentacolare.
La scrittura di Davidson nulla concede ai virtuosismi tipici di Chuck Palahniuk, non sfruttando (quasi) per nulla le caratteristiche del medium. Il canadese preferisce stare dalle parti della sceneggiatura estesa, dell’ ultrarealismo di Edward Bunker, concedendosi solo rare escursioni nella visionarietà da incubo che odora decisamente di Clive Barker. Fighter è leggibile in una sola giornata, le immagini si materializzano davanti ai nostri occhi senza il minimo sforzo, stando ben lontane dal concederci il lusso di immaginarle. Nessuno spazio per la riflessione o la libera interpretazione. Un montante diretto sotto il mento. Rapido, doloroso, da black out totale. E aspettatevi un risveglio in una pozza del vostro stesso sangue.
Fighter parla di boxe clandestina, di incontri consumati tra sporcizia e sangue rappreso. Due storie di fascinazione per la violenza, per le conseguenze della stessa sulla nostra essenza più materiale. Sull’aiuto che queste ci possono dare per riprenderci la nostra vita. Carne tumefatta e ossa rotte come soluzione ai problemi, alla noia, alle prospettive che non ci appartengono. Autodistruzione come miglioramento. Dal punto di vista strettamente narrativo, interessandosi alla descrizione dello scontro fisico, non esiste eleganza in questo libro. Non ci sono i geyser di sangue che arricchivano di algida stilizzazione i due Lady Snowblood di Toshiya Fujita, e neppure l’armonia e la bellezza delle coreografie di Siu-Tung Ching. Non esiste attrazione per questo tipo di orrore, la maschera inumana di chi non pare appartenere più al nostro ramo dall’evoluzione da almeno tre round ma si rifiuta comunque di andare giù. Il libero arbitrio portato al cubo, più terrorizzante di ogni serial killer e di qualunque mostro tentacolare.
La scrittura di Davidson nulla concede ai virtuosismi tipici di Chuck Palahniuk, non sfruttando (quasi) per nulla le caratteristiche del medium. Il canadese preferisce stare dalle parti della sceneggiatura estesa, dell’ ultrarealismo di Edward Bunker, concedendosi solo rare escursioni nella visionarietà da incubo che odora decisamente di Clive Barker. Fighter è leggibile in una sola giornata, le immagini si materializzano davanti ai nostri occhi senza il minimo sforzo, stando ben lontane dal concederci il lusso di immaginarle. Nessuno spazio per la riflessione o la libera interpretazione. Un montante diretto sotto il mento. Rapido, doloroso, da black out totale. E aspettatevi un risveglio in una pozza del vostro stesso sangue.
Fighter di Craig Davidson
396 pagine, 16.50 €
Edizioni BD
1 commento:
sembra una figata, non me lo farò scappare...
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