RPoint prende il suo maggior punto di forza proprio da quello che non è. Detto questo facciamo un piccolo passo indietro e andiamo per gradi.
Il genere horror è considerato da sempre mezzo privilegiato per dire altro rispetto a quello che i nostri occhi vedono sul grande schermo, una sorta di corsia preferenziale per la metafora sociologica . Lo sanno bene i maestri Carpenter, Cronenberg, Tsukamoto, Kurosawa e tutto il resto della compagnia dell’orrore politico. Altrettanto bene il giovane sud coreano Kong Su-chang sa di non essere assolutamente all’altezza di tali mostri sacri. E, tornando alla boutade iniziale, da qui la sua forza maggiore. Perché un horror ambientato durante la guerra del Vietnam si sarebbe prestato troppo facilmente al ruolo di pamphlet antibellico dalla carica didascalica deflagrante, e difficilmente il regista di turno si sarebbe rivelato in grado di disinnescare tale esplosivo nefasto a favore di un messaggio un tantinello meno scontato. Da qui l’intuizione di sfruttare l’ambientazione solo per ricreare circostanze per cui si è obbligati tassativamente a fidarsi ciecamente di chi ti sta accanto. E tutti sappiamo quanto questo sia difficile. E a che livelli di tensione si possa arrivare contando unicamente sugli altri.
Tutto verte intorno a una semplice operazione di recupero, tanto basta per isolare dal resto dell’esercito una squadra di soldati svuotati da settimane di guerra in un ambiente ostile. Peccato che in agguato ci sia la solita minaccia ectoplasmatica (o forse no?). Psicologicamente esausti i nostri si ritroveranno prigionieri tanto di una villa diroccata, edificata nel cuore nero della giungla più madida, quanto di se stessi e dei propri demoni interiori, andando a scatenare una spirale di ansia claustrofobica letteralmente insostenibile.
Il film è formalmente ineccepibile, esattamente come ci si aspetterebbe da un prodotto coreano, unendo una regia scaltra nel costruire giochi di tensione pericolosissimi e una fotografia semplicemente perfetta. Nulla di strano se si considera il paese di provenienza del film in questione, le cui produzioni vengono spesso tacciate dai puristi come esempi di sconfinamento nel nefasto genere dello “spot BMW” detto anche “sindrome da porno Vivid”. I problemi invece sorgono quando le influenze vengono bellamente scippate dai diretti concorrenti (i giappi) e infilate nella sceneggiatura a forza. Naturalmente si sta parlando delle inutili incursioni della solita bambina nerocrinita. Oltre a spezzare la tensione in modo quasi imbarazzante, tali segmenti non sembrano neppure girati dallo stesso regista del resto del metraggio: completamente fuori ritmo, ridicoli e approssimativi. Il fatto è che si stia parlando di un film dove tutto è talmente studiato a tavolino da far accapponare la pelle senza mostrare nulla, un opera dove si riesce perfino a insinuare spessore psicologico in un filone praticamente in balia dei clichès come il men-on-a-mission. L’occasione di rendere la magnifica cornice tropicale un vero e proprio antagonista dei Nostri è sfruttato solo in parte, condividendo il ruolo di motore della paura con la presenza fantasmatica. Il terrore avrebbe potuto essere ancora più corporeo e concreto, il destabilizzante trip nella psiche devastata dei combattenti ancora più amaro. Quindi turatevi il naso, ingoiate il boccone amaro e preparatevi a passare la notte all’RPoint. Ne vale comunque la pena. Decisamente.
Il genere horror è considerato da sempre mezzo privilegiato per dire altro rispetto a quello che i nostri occhi vedono sul grande schermo, una sorta di corsia preferenziale per la metafora sociologica . Lo sanno bene i maestri Carpenter, Cronenberg, Tsukamoto, Kurosawa e tutto il resto della compagnia dell’orrore politico. Altrettanto bene il giovane sud coreano Kong Su-chang sa di non essere assolutamente all’altezza di tali mostri sacri. E, tornando alla boutade iniziale, da qui la sua forza maggiore. Perché un horror ambientato durante la guerra del Vietnam si sarebbe prestato troppo facilmente al ruolo di pamphlet antibellico dalla carica didascalica deflagrante, e difficilmente il regista di turno si sarebbe rivelato in grado di disinnescare tale esplosivo nefasto a favore di un messaggio un tantinello meno scontato. Da qui l’intuizione di sfruttare l’ambientazione solo per ricreare circostanze per cui si è obbligati tassativamente a fidarsi ciecamente di chi ti sta accanto. E tutti sappiamo quanto questo sia difficile. E a che livelli di tensione si possa arrivare contando unicamente sugli altri.
Tutto verte intorno a una semplice operazione di recupero, tanto basta per isolare dal resto dell’esercito una squadra di soldati svuotati da settimane di guerra in un ambiente ostile. Peccato che in agguato ci sia la solita minaccia ectoplasmatica (o forse no?). Psicologicamente esausti i nostri si ritroveranno prigionieri tanto di una villa diroccata, edificata nel cuore nero della giungla più madida, quanto di se stessi e dei propri demoni interiori, andando a scatenare una spirale di ansia claustrofobica letteralmente insostenibile.
Il film è formalmente ineccepibile, esattamente come ci si aspetterebbe da un prodotto coreano, unendo una regia scaltra nel costruire giochi di tensione pericolosissimi e una fotografia semplicemente perfetta. Nulla di strano se si considera il paese di provenienza del film in questione, le cui produzioni vengono spesso tacciate dai puristi come esempi di sconfinamento nel nefasto genere dello “spot BMW” detto anche “sindrome da porno Vivid”. I problemi invece sorgono quando le influenze vengono bellamente scippate dai diretti concorrenti (i giappi) e infilate nella sceneggiatura a forza. Naturalmente si sta parlando delle inutili incursioni della solita bambina nerocrinita. Oltre a spezzare la tensione in modo quasi imbarazzante, tali segmenti non sembrano neppure girati dallo stesso regista del resto del metraggio: completamente fuori ritmo, ridicoli e approssimativi. Il fatto è che si stia parlando di un film dove tutto è talmente studiato a tavolino da far accapponare la pelle senza mostrare nulla, un opera dove si riesce perfino a insinuare spessore psicologico in un filone praticamente in balia dei clichès come il men-on-a-mission. L’occasione di rendere la magnifica cornice tropicale un vero e proprio antagonista dei Nostri è sfruttato solo in parte, condividendo il ruolo di motore della paura con la presenza fantasmatica. Il terrore avrebbe potuto essere ancora più corporeo e concreto, il destabilizzante trip nella psiche devastata dei combattenti ancora più amaro. Quindi turatevi il naso, ingoiate il boccone amaro e preparatevi a passare la notte all’RPoint. Ne vale comunque la pena. Decisamente.
Link alla pagina IMDB: http://www.imdb.com/title/tt0417072/