giovedì 28 febbraio 2008

[oldies but goldies] R-Point di Su-chang Kong (2004)






RPoint prende il suo maggior punto di forza proprio da quello che non è. Detto questo facciamo un piccolo passo indietro e andiamo per gradi.


Il genere horror è considerato da sempre mezzo privilegiato per dire altro rispetto a quello che i nostri occhi vedono sul grande schermo, una sorta di corsia preferenziale per la metafora sociologica . Lo sanno bene i maestri Carpenter, Cronenberg, Tsukamoto, Kurosawa e tutto il resto della compagnia dell’orrore politico. Altrettanto bene il giovane sud coreano Kong Su-chang sa di non essere assolutamente all’altezza di tali mostri sacri. E, tornando alla boutade iniziale, da qui la sua forza maggiore. Perché un horror ambientato durante la guerra del Vietnam si sarebbe prestato troppo facilmente al ruolo di pamphlet antibellico dalla carica didascalica deflagrante, e difficilmente il regista di turno si sarebbe rivelato in grado di disinnescare tale esplosivo nefasto a favore di un messaggio un tantinello meno scontato. Da qui l’intuizione di sfruttare l’ambientazione solo per ricreare circostanze per cui si è obbligati tassativamente a fidarsi ciecamente di chi ti sta accanto. E tutti sappiamo quanto questo sia difficile. E a che livelli di tensione si possa arrivare contando unicamente sugli altri.



Tutto verte intorno a una semplice operazione di recupero, tanto basta per isolare dal resto dell’esercito una squadra di soldati svuotati da settimane di guerra in un ambiente ostile. Peccato che in agguato ci sia la solita minaccia ectoplasmatica (o forse no?). Psicologicamente esausti i nostri si ritroveranno prigionieri tanto di una villa diroccata, edificata nel cuore nero della giungla più madida, quanto di se stessi e dei propri demoni interiori, andando a scatenare una spirale di ansia claustrofobica letteralmente insostenibile.



Il film è formalmente ineccepibile, esattamente come ci si aspetterebbe da un prodotto coreano, unendo una regia scaltra nel costruire giochi di tensione pericolosissimi e una fotografia semplicemente perfetta. Nulla di strano se si considera il paese di provenienza del film in questione, le cui produzioni vengono spesso tacciate dai puristi come esempi di sconfinamento nel nefasto genere dello “spot BMW” detto anche “sindrome da porno Vivid”. I problemi invece sorgono quando le influenze vengono bellamente scippate dai diretti concorrenti (i giappi) e infilate nella sceneggiatura a forza. Naturalmente si sta parlando delle inutili incursioni della solita bambina nerocrinita. Oltre a spezzare la tensione in modo quasi imbarazzante, tali segmenti non sembrano neppure girati dallo stesso regista del resto del metraggio: completamente fuori ritmo, ridicoli e approssimativi. Il fatto è che si stia parlando di un film dove tutto è talmente studiato a tavolino da far accapponare la pelle senza mostrare nulla, un opera dove si riesce perfino a insinuare spessore psicologico in un filone praticamente in balia dei clichès come il men-on-a-mission. L’occasione di rendere la magnifica cornice tropicale un vero e proprio antagonista dei Nostri è sfruttato solo in parte, condividendo il ruolo di motore della paura con la presenza fantasmatica. Il terrore avrebbe potuto essere ancora più corporeo e concreto, il destabilizzante trip nella psiche devastata dei combattenti ancora più amaro. Quindi turatevi il naso, ingoiate il boccone amaro e preparatevi a passare la notte all’RPoint. Ne vale comunque la pena. Decisamente.






Link alla pagina IMDB: http://www.imdb.com/title/tt0417072/

mercoledì 27 febbraio 2008

Nemesis Lo Stregone Vol. 1 di Pat Mills & Kevin O'Neil

Chris Cunningham, Alan Davis, Garth Ennis, Neil Gaiman, Dave Gibbons, Alan Grant, Mark Millar, Alan Moore, Grant Morrison. Che cosa hanno in comune questi nomi? Tutti hanno esordito sulle pagine di 2000AD, storico e seminale magazine a fumetti inglese.
Entrato nella leggenda per l’ inconfondibile stile, una strana alchimia fatta di futuri distopici, humor nero e cinismo senza riserve che ne permea ogni pagina fin dal lontano 1977, anno della fondazione, è rimasto per anni poco conosciuto in Italia. Almeno fino a ora, perché la sempre grande Magic Press sembra avere in programma un ciclo di adattamenti dei principali trade paperback marchiati 2000AD. Non si poteva cominciare meglio se non con il primo volume di Nemesis lo Stregone.



Ibrido bastardo tra Guerre Stellari e uno sword & sorcery fuori controllo, graficamente più vicino a produzioni underground che ai patinati magazine di oltre oceano, nel mondo creato da Pat Mills e Kevin O’Neil tutto funziona al contrario di come ci si aspetterebbe: gli alieni non fanno la fila per invadere la Terra, cercano anzi di sfuggire in ogni modo alle legioni di terrestri, impegnati nel ripulire la galassia da ogni forma di vita non riconducibile a uomo/donna. A difendere i deboli e gli indifesi Nemesis, lo stregone. Solo vagamente antropomorfo (testa da pterodattilo, zoccoli da caprone), decisamente rude e spinto da un odio viscerale per Torquemada, il capo della nuova inquisizione. Basti questo per far capire la visionarietà di una coppia di autori capaci di immaginarsi il nostro pianeta come un groviglio di autostrade sotterranee, di infilare siparietti surreali durante una tortura, di masticare cinquant'anni di cultura pop e risputarne un surrogato incattivito e iper vitaminizzato. Quando non era ancora di moda.



Eppure questo stile, a cavallo tra epico e grottesco, sospeso tra il troppo serio e il faceto più becero, ha finito per influenzare il mondo dei comics statunitensi in maniera epocale. Basti pensare alla Vertigo, a Watchmen, a Hellblazer,… a cosa hanno portato oggi tali cataclismi di significato. Probabilmente niente Ultimates, niente Authority, niente Preacher. Fate due conti di cosa ci saremmo persi.



Autore: Pat Mills, Kevin O'Neill
Formato: 21x28.5 cm, pag. 96, Brossurato B/N
ISSN-ISBN: 978-88-7759-182-1
Prezzo euro: € 10.00 IVA compresa

martedì 26 febbraio 2008

Nyia - More Than You Expect (Feto Records/2007)


Decisamente di più. Poco altro da dire. Free/noise/mathcore dalla Polonia. In un certo senso, definitivo.

Qui sotto il link alla mia recensione per Haternal.com:



lunedì 25 febbraio 2008

"Non è un paese per vecchi" di Ethan & Joel Coen (2007)


Non è un paese per vecchi è, semplicemente, l’antiwestern. Il passo successivo alla poetica crepuscolare di Peckinpah. La pietra tombale sull’american dream. Perchè non esiste epica in questo capolavoro, non esiste un istante in cui si è portati a tifare per qualcuno. La totale assenza di musiche ci riporta bruscamente sulla Terra, un posto dove non esistono pompose fanfare all’arrivo della cavalleria. Per dirla tutta, non esiste neppure la cavalleria. Perché se vuoi sopravvivere forse è meglio che te ne stai in disparte, che lasci fare agli altri.


Della solita miriade di personaggi Coeniani il protagonista questa volta è quello che si vede di meno, quel vecchio sceriffo stanco e svogliato che ricorda poco John Ford ma molto i personaggi di Jim Thompson. Perché questo è uno sceriffo che manda avanti il vice nelle situazioni pericolose, che non vuole responsabilità. Si dice addirittura che voglia mollare.

Nel Mucchio Selvaggio un uomo doveva fare quello che doveva fare, anche a rischio di rimetterci la pelle. Ma si sa, certe cose vanno così. O meglio, andavano così quando il mito della frontiera cominciava a disperdersi nel vento del deserto. Perché qui si parla di 1980, non 1900. Adesso è il caso di pensarci due volte prima di fare quello che c’è da fare. Perché potrebbe esserci qualcun altro che potrebbe farlo per noi. Oppure si potrebbe addirittura far finta di niente…


Non esistono scene madri da tramandare ai posteri, qui si muore nelle ellissi narrative, senza che neppure un bastardo venga a piangere per te. Non esistono fragorosi duelli sotto al sole, o codici d’onore, qui il cattivo è uno psicopatico inarrestabile dotato di pistola ad aria compressa.
E il bottino lo si ruba a gang di spacciatori messicani.


Questo è quanto Non è un paese per vecchi, un grandissimo noir travestito da western moderno, ci sbatte in faccia. Un assolo di cinismo assoluto come non se ne vedeva da tempo. Il grande cinema americano si rende conto che non è più tempo di leggende.

sabato 23 febbraio 2008

[trailer] Fatal Move di Dennis Law



Più pallottole che nel Mucchio Selvaggio. Più mazzate che in un action thai. Più gore di un film di Fulci. Di cosa stiamo parlando? Naturalmente del nuovo triad movie made in HK Fatal Move. Regista di tale festival dell'esagerazione è Dennis Law già noto per Fatal Contact(2006) e per aver prodotto titoli come Triangle, Gong Tau e i due Election di Johnnie To. Nel cast si fanno notare Sammo Hung e Simon Yam. Trama che sta un post it (ma sarà veramente così semplice come sembra?): la carriera criminale del boss Sammo Hung si sgretola davanti ai suo occhi. Riuscirà il nostro eroe a portare a casa la pelle e a scoprire chi c'è dietro? Non vediamo l'ora scoprirlo!

venerdì 22 febbraio 2008

[oldies but goldies] The Neighbor No. 13 di Yasuo Inoue (2005)

Siamo nel 2005. Sul fronte occidentale impazza l’invasione del new horror dagli occhi a mandorla, il mercato si satura di film cuscinetto e nell’aria incominciano a girare le voci di un remake da parte degli americani del capolavoro Kairo (Pulse) di Kiyoshi Kurosawa, probabilmente il film meno esportabile dal mercato giapponese dai tempi di Tetsuo. In questa desolante sarabanda viene gettato anche Yasuo Inoue, che dalla sua non ha certo molti punti a favore: esordisce al cinema sfruttando un genere in cui la possibilità di emergere sono, al momento, pressoché nulle, proviene dal mondo dei videoclip e, in ultimo, il suo film è noto ai più solo per la partecipazione di Takashi Miike come attore. E perché l’edizione a tiratura limitata del DVD è una figata imbattibile. Insomma, sembrava proprio che N13 non se lo sarebbe filato nessuno, esattamente come successe con il fumetto a cui era ispirato (a opera di tal Inoue Santa).
E invece, sorpresa sorpresa, il film è una bomba. Recuperando il vero significato di perturbante freudiano, l’intera opera parte dal presupposto di un passato rimosso ma familiare, di qualcosa che non ci è chiaro ma permea la nostra vita per la sua interezza, il bistrattato Yasuo costruisce un opera elegante, angosciosa e mai scontata.


Jûzô Murasaki è un giovane frustrato da un passato crudele, fatto di bullismo e torture. La repressione continua di questi stimoli lo ha portato, infine, a una dissociazione della personalità, generando una sorta di gemello malvagio.

La trama può essere, a grandi linee, riassumibile così: terribilmente banale (considerando anche le accuse alla società nipponica, flagellata dalla piaga della violenza giovanile). Ma è come viene raccontata che colpisce duro, durissimo. A esempio di questo, il colpo di genio visionario che stilizza in uno affresco di pura follia i viaggi nell’inconscio del protagonista: due uomini nudi, imperlati di sudore, che ballano al lume di una lampadina tremolante sui ritmi di una martellante musica techno. Guardandosi negli occhi, sfidandosi senza dire una parola. E questo è solo un assaggio di quello che la pellicola ci riserva, tra splatter estremo, animazioni malate e istanti di autentico terrore. Di quello che cresce dentro ma non si capisce il perché, che nasce da un inquadratura lenta e sinuosa, dal silenzio.

Non ci sono colpi a effetto in questo N13, il perturbante è già sullo schermo prima che noi ce ne accorgiamo, che ci osserva prima che noi ci sorprendiamo a guardare lui. Ci sorride attraverso i lineamenti deformi del lato oscuro di Jûzô. Come ne Gli Ambasciatori di Holbein il Giovane.


Esecuzione su esecuzione, la vicenda ci porta all’inevitabile e prevedibile scontro finale tra le due facce della stessa medaglia, alla scena che tutti si aspettano e commentano divertiti già a pochi minuti dall’inizio della pellicola. Ma anche qui veniamo sorpresi. Nessun climax apocalittico ad attenderci, nessuna impennata del bodycount. Solamente la rabbia per quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, la malinconia di un' infanzia spezzata. Una privazione più mortifera e menomante di qualunque motosega o machete. Il non senso assoluto che prende forma davanti ai nostri occhi attoniti. Se si guarda bene, il peggiore degli incubi potrebbe non abitare che a pochi metri da casa nostra.


giovedì 21 febbraio 2008

Neil Blomkamp (1979) VS Ruairi Robinson (1978): i migliori registi di domani?

Sono entrambi giovani, talentuosi (contate i loro premi!), nati all'estrema provincia dell' impero (sud africano Neil, irlandese Ruairi), scelleratamente smalizziati nell'uso della CG e con una missione impossibile.

Blomkamp dovrà riuscire a portare sul grande schermo le imprese di Master Chef, leggendario protagonista di Halo. E senza farlo sembrare una bambinata. A giudicare dagli spot che il nostro ha girato per pubblicizzare il terzo capitolo del FPS più venduto di sempre l'obbiettivo non pare più così lontano...





Se non avete provato un brivido lungo la schiena, semplicemnte non avete mai giocato ad Halo. E allora rilancio con questo capolavoro di acume politico e linguistico. Annicchilente.



Il povero Ruari invece avrà l'ingrato compito di dare vita nientepopò di meno che ad Akira, classico senza tempo di Katsuhiro Otomo. Dalla sua una manciata di ottime animazioni (per cui è stato candidato anche all'Oscar) e un notevole corto ad ambientazione bellica.



Che dire se non... che vinca il migliore! (ma io tifo per Neil, che pare un Chris Cunningham capace di raccontare storie).

mercoledì 20 febbraio 2008

Today Is The Day - Axis Of Eden (Supernova Records/2007)

Primo disco completamente indipendete di Steve Austin e in assoluto il migliore dei Today Is The Day. La summa della loro poetica malsana. Qui sotto link alla mia rece su Haternal.com.

http://www.haternal.com/haternal-4/dett-pezzo.asp?PezId=7248


A meno che il vostro universo musicale non sia composto unicamente da folletti, dragoni e palestrati bisunti in mutande di pelo, dategli un ascolto. Ve ne pentirete.

martedì 19 febbraio 2008

Eccessi di giapponesità: Tokyo Gore Police, Meatball Machine, The Machine Girl, Death Trance


Fresca fresca da Fangoria ecco l'ultima news talmente made in Japan da sembrare studiata apposta per gli occidentali: è entrato in produzione Tokyo Gore Police, ennesimo frullatone trash/weird che butta nel piatto sangue, mostri di gomma, demenza e qualche forzatura di troppo. Tutto dalla stessa squadra che vi ha portato i film citati nel titolo del post. Coincidenze che non fanno che confermare la mia tesi di una produzione nipponica sempre meno genuina (casi a parte) e sempre più votata all'autoreferenzialità più sterile. Nell' articolo di seguito (scritto proprio per Meatball Machine) trovate tutto spiegato meglio.

Anche se in ritardo di almeno due anni (anche se accessibile al pubblico anglofono da pochissimo) vale comunque la pena parlare di questo Meatball Machine, lavoro che potrebbe nascondere sotto le oziose pieghe del divertissement fine a se stesso alcuni particolari a dir poco inquietanti (per la salute del cinema nipponico).


La trama del film è spiegata in una manciata di parole: piccoli alieni parassiti combattono tra loro prendendo il controllo di ignari terrestri e tramutandone il corpo in una micidiale quanto informe macchina da guerra. Fine. Il tutto spingendo sull’acceleratore del cheapo e del weirdo a ogni costo. E proprio qui nascono i primi problemi, perché per quanto l’idea (?) di base possa fungere da solida base per sviluppi visivo/linguistici (meglio lasciare i contenuti in disparte…) inediti, il tutto sembra girato per dare in pasto al pubblico occidentale quello che ci aspetterebbe da un b movie giapponese. Mano a mano che il film procede si ha l’impressione di avere tra le mani una versione ignorante di quel Tetsuo (Shinya Tsukamoto, 1988) capace di fondere in maniera eccellente linguaggio manga e ossessioni riconducibili ai maestri Cronenberg e Lynch. Peccato che qui non ci sia nessuna riflessione sulla nuova carne, sulle macchine e sulla modernità, nessun nuovo tentativo di contaminazione tra linguaggi, riducendo il tutto ad un susseguirsi di siparietti tra il gore e l’alienato, e piuttosto che al valore semantico della letteratura disegnata si preferisce dare spazio a influenze super cool alla She, the Ultimade Weapon. L’uso reiterato di filtri colorati, inquadrature fisse ossessionanti, personaggi sopra le righe ad ogni costo danno all’intero lungometraggio una patina sospesa tra l’arty di bassa lega e la stravaganza studiata in laboratorio, lasciandosi alle spalle quanto di buono aveva fatto in precedenza il regista Yudai Yamaguchi. Un uomo capace di salire alla ribalta per aver scritto (probabilmente su di un post it) la sceneggiatura di Versus, trampolino di lancio per Ryuhei Kitamura (oggi impegnato in lidi barkeriani) e per aver diretto due tra le più dementi pellicole del cinema moderno: Battlefield Baseball (2003) e soprattutto Chromartie High (2005), autentica perla di stupidità e leggerezza.

Yamaguchi è tutt’altro che un maestro, soffre di una penuria tecnica ingiustificabile e spesso dimentica quanto la nozione di ritmo sia importante per la riuscita di un lavoro. Eppure la sincerità e l’onestà dei suoi precedenti lavori era palpabile, facendoci sorvolare sui (molti) difetti a favore dei (pochi) pregi. Dotato di un umorismo puerile e scevro da ogni velleità di politicamente scorretto, il buon Yamaguchi riusciva a trasmettere quel senso di vuoto pneumatico di cui solo certi manga o anime detenevano il segreto. Si è già detto che questo Meatball Machine non è che punti molto più in alto, ma è la sua fastidiosa tendenza a puntare sempre più in alto (si veda l’escalation di armi generate dai Necroborg) a dare fastidio, come se ci si trovasse di fronte ad un idealizzazione forzata del cinema nipponico che, detto per inciso, nella concezione dello spettatore medio occidentale si riduce a un guazzabuglio di bambine nero crinite, presunti ritmi zen e bizzarrie a base di mostri gommosi (alla faccia del razzismo culturale!). Questa riflessione (tra l’altro parzialmente confutata dalla lungaggine con cui sono stati venduti i diritti per l’estero di questo Meatball Machine) ci porta ad un altro film recente, Death Trance (2005) di Yuji Shimomura, co prodotto dall’americana Tokyo Shock (sussidiaria orientofila della label Media Blaster). Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un guazzabuglio talmente nipponico non risultare più come tale: in un medioevo che pare essere tratto di peso da un Final Fantasy qualsiasi si scontrano personaggi di ogni tipo, dagli emuli di Django a quelli di Berserk, armati di spade, bazooka e chopper. Il tutto accompagnato dalle note dei super popolari Dir En Grey e diretto dal regista dei filmati di Devil May Cry 3 e stunt coordinator per Godzilla: Final Wars (2004). Detto questo, detto tutto: sebbene il film risulti divertente e spesso sorprenda per alcune trovate, si ha un senso di artificioso che lascia il sapore di plastica in bocca. E si noti il termine “plastica” e non lattice (allora sarebbe stata tutta un'altra storia).

Il cinema del paese del Sol Levante ha veramente bisogno di questi mezzucci per essere appetibile a un pubblico lobotomizzato dall’imperialismo culturale statunitense? Una nazione che, ricordiamolo, ha bisogno di convertire (ri doppiaggi, remake, registi comprati e stuprati a suon di contratti milionari) ogni cosa di buono che proviene al di fuori dai suoi confini a qualcosa di interno, capace di mettere autentici maestri come Tsui Hark e Ching Siu Tung a dirigere film con Van Damme e Steven Segal. Continuo a ribadirlo: detto questo, detto tutto.
Ora non ci rimane che attendere il nuovo parto delle teste pensanti dietro ai cult di cui si è appena parlato, che tra l’altro sembrerebbe ancora co prodotto dagli americani della TS: The Machine Girl, storia di una liceale che in seguito ad un stupro si ritrova con un potentissimo vulcan cannon al posto del braccio sinistro. Il trailer promette sangue, motoseghe, tempura e una vagonata di altre cazzatone che fanno tanto Troma sotto anfetamina. Già sul web si sprecano elogi a priori e incoronazioni a cult dell’anno, ma sarà vera gloria? Riuscirà questa sorta di “one armed machine girl” a trasmettere quel senso di autentica follia che solo chi vive a pane e tokusatsu riesce ad apprezzare e a contestualizzare nel panorama dell’immaginario collettivo moderno?

lunedì 18 febbraio 2008

[trailer] The Good, The Bad And The Weird di Kim Ji Woon



Più che un trailer, qui si parla di footage televisivo. Ma: 1)si sta parlando di un film che trae ispirazione dai nostri spaghetti western 2)il regista è Kim Ji Woon. Un uomo incapace di girare un film brutto. Magari possono non piacere, ma è impossibile non rimanere abbagliati dalle capacità del suo talento visionario. The Foul King (commedia amara sul wrestling), The Quiet Family (commedia nerissima da cui anche Miike ha tratto un remake), A Tale Of Two Sister (laccatissimo e patinatissimo k-horror), A Bittersweet Life (laccatissimo e patinatissimo heroic bloodshed), tutti da recuperare in attesa di questo K western. Che, tanto per cambiare, sembra fichissimo.

giovedì 14 febbraio 2008

Artzmania.com: l'e-zine più bella del mondo

Direttamente dalla Malesia l'e-zine più bella del mondo. Il meglio del meglio della grafica a livello mondiale. Gratis e di una ricchezza disarmante. Il numero 7 (la copertina qua sopra) ha quasi 500 pagine, pochissimi testi e una quantità immane di magnifiche illustrazioni. Dal superflat pop al fantasy, passando dai concept per videogiochi fino ai fumetti (sia comics che manga). Un bombardamento continuo per i neuroni. Mille volte meglio del più figo dei volumi Tashen, di Colors e di ogni cosa possiate aver visto in questo campo. E per una volta si evita di passare dai soliti nomi anglo/franco/crucco/statunitensi (anche se si parla di loro per lo meno non sono la fonte).

mercoledì 13 febbraio 2008

Fighter di Craig Davidson

Fighter non è una nuova copia sbiadita del giustamente cult generazionale Fight Club (loro On the Road, noi le gesta di un manipolo di terroristi impegnati nel massacrarsi di botte. Grazie per il bel mondo che ci avete lasciato!). Fighter è la versione cartacea del capolavoro viscerale Tokyo Fist (Shinya Tsukamoto, 1995), autentico manifesto postmoderno della body modification come segno di ribellione alla conformità. Esattamente come nel lungometraggio nipponico, la sfida sul ring, il confronto con l’avversario è solo una scusa per potersi immergere senza sensi di colpa nella sfera dell’ ultraviolenza più brutale, unico mezzo per modificare definitivamente la propria carne e quindi la propria vita. Lineamenti ridotti a poltiglia, cicatrici mal cucite, steroidi e piercing estremo. Il corpo che si lacera, cambia forma, diventa altro. Definitivamente, un biglietto di sola andata verso la nuclearizzazione più talebana. Da questo punto di vista la cupa atmosfera da ordine mondiale della nuova carne cronenberghiana/ballardiana viene abbandonato a favore di un egoistico ed egocentrico viaggio interiore, alla riscoperta della propria vera natura. La piena consapevolezza di se stessi che porterà inesorabilmente al conclusione più nera. La sfida all’ignoranza e all’innocenza passa direttamente per la conoscienza dei nostri limiti, con tutto il carico di dolore che una scelta simile può portare.



Fighter parla di boxe clandestina, di incontri consumati tra sporcizia e sangue rappreso. Due storie di fascinazione per la violenza, per le conseguenze della stessa sulla nostra essenza più materiale. Sull’aiuto che queste ci possono dare per riprenderci la nostra vita. Carne tumefatta e ossa rotte come soluzione ai problemi, alla noia, alle prospettive che non ci appartengono. Autodistruzione come miglioramento. Dal punto di vista strettamente narrativo, interessandosi alla descrizione dello scontro fisico, non esiste eleganza in questo libro. Non ci sono i geyser di sangue che arricchivano di algida stilizzazione i due Lady Snowblood di Toshiya Fujita, e neppure l’armonia e la bellezza delle coreografie di Siu-Tung Ching. Non esiste attrazione per questo tipo di orrore, la maschera inumana di chi non pare appartenere più al nostro ramo dall’evoluzione da almeno tre round ma si rifiuta comunque di andare giù. Il libero arbitrio portato al cubo, più terrorizzante di ogni serial killer e di qualunque mostro tentacolare.



La scrittura di Davidson nulla concede ai virtuosismi tipici di Chuck Palahniuk, non sfruttando (quasi) per nulla le caratteristiche del medium. Il canadese preferisce stare dalle parti della sceneggiatura estesa, dell’ ultrarealismo di Edward Bunker, concedendosi solo rare escursioni nella visionarietà da incubo che odora decisamente di Clive Barker. Fighter è leggibile in una sola giornata, le immagini si materializzano davanti ai nostri occhi senza il minimo sforzo, stando ben lontane dal concederci il lusso di immaginarle. Nessuno spazio per la riflessione o la libera interpretazione. Un montante diretto sotto il mento. Rapido, doloroso, da black out totale. E aspettatevi un risveglio in una pozza del vostro stesso sangue.

Fighter di Craig Davidson
396 pagine, 16.50 €
Edizioni BD

lunedì 11 febbraio 2008

Mad Detective di Johnnie To & Wai Ka Fai (HK,2007)


Johnnie To è uno con la media di almeno un film epocale ogni quattro/cinque opere regolari. A questa considerazione se ne devono aggiungere ancora due: il fatto che lui di film ne gira almeno due all’anno e che anche la più piccola delle tappe d’intermezzo è in ogni caso da ricordare tra i film della stagione. Adesso possiamo passare a parlare di Mad Detective, diretta a quattro mani con l’amico fraterno Wai Ka Fai (un folle che ha nel suo carniere perle come Peace Hotel e Too Many Ways To Be Number One) e pellicola orgogliosamente appartenente alla categoria “film minori”.



Bun (un ritrovato Ching Wan Lau) è un ispettore di polizia dotato di un particolare dono: non vede le persone come appaiono nel mondo fisico ma ne scorge le fattezze interiori. Ai suoi occhi un poliziotto duro e integerrimo può quindi apparire come un debole bambinetto petulante, un gelido collega può apparire come un intero gruppo di persone e quello ipocrita come una snervante donna dalla voce fin troppo acuta e squillante. Durante i novanta minuti di pellicola il nostro protagonista dovrà sfruttare al massimo questo suo dono per risolvere il mistero di un poliziotto scomparso diciotto mesi prima.



Il fatto che ad accompagnare il nostro fido To ci sia uno sceneggiatore a cinque stelle fa capire come il film sia poco cuore e tanto cervello, ponendo sul piatto una vicenda complicata e confusa in cui tutto finisce irrimediabilmente (e cinicamente) per tornare al suo posto giusto. I virtuosismi registici si affievoliscono, andando a favorire una messa in scena cristallina e fortemente descrittiva, scelta indispensabile (e più coraggiosa di quello che sembra) per non confondere ulteriormente le carte in tavola. Il clima è divertito e i due cineasti dell’ex colonia inglese si divertono a sfidare lo spettatore mettendo sul piatto citazioni su citazioni di classici del noir americano, incastri di scrittura fragilissimi, preziosismi nascosti e personaggi che cambiano faccia in continuazione. Nulla è come sembra e la soglia dell’attenzione è costretta a rimanere alta dal primo all’ultimo (nerissimo) minuto. Siamo chiaramente dalle parti del divertissement, esattamente come nel caso di Triangle, ma qui non c’è nulla da dimostrare, manca completamente l’atmosfera da sfida guascona che animava il precedente esperimento. Ecco che tutto si fa più sottile, pur non negando la sua presenza: c’è il tema del destino (che si manifesta ancora con una pistola persa da un agente in servizio), le sparatorie (anche se fatte con la bocca e due dita tese) e (soprattutto) le psicologie dei personaggi, da sempre marchio di fabbrica del nostro Giovanni d’oriente, ma mai esplicitato in maniera così chiara fino a ora. Se prima erano piccole sequenze apparentemente insignificanti (la scena delle palline di carta di The Mission è ormai leggenda) a descrivere e sviscerare i fantasmi di luce che si muovono sul grande schermo ora tutto il film si plasma su questo aspetto della narrazione.

Inutile perdere tempo commentando il comparto tecnico di un film Milkyway Image, stellare di nome e di fatto.

venerdì 8 febbraio 2008

mercoledì 6 febbraio 2008

Gaza - I Don't Care Where I Go When I Die (Blackmarket Activities/2006)

Segnalo con colpevole ritardo uno dei dischi più belli del 2007 (è uscito praticamente a 2006 concluso). Questo “I Don’t Care…” rimarrà la cosa più pesante che potrete sentire fino al prossimo disco degli stessi Gaza. Perché dentro c’è tutto quello che rende un disco ingiustificabile, uno scellerato amalgama di Pig Destroyer, Eye Hate God, Unsane e Today Is The Day. La musica che vi risuonerà nelle orecchie quando vi distruggeranno di calci e pugni in quel vicolo umido e maleodorante che cercate sempre di evitare. Il verso di mille porci mandati al macello. La vostra canadese divelta da un grizzly in preda a una furia che non ha nulla di naturale. E non si sta esagerando.



Artwork strabiliante. Semplice ma duro come un tirapugni stampato sulle gengive.



Abbandonate registrazioni ipertrofiche, melodie svedesi e richiamini emo. Assaggiate il vero estremo.

martedì 5 febbraio 2008

13 Beloved di Chukiat Sakveerakul (2006)

Se si volesse tracciarne una definizione compresa tra le assi cartesiane del cinema occidentale, questo 13 Beloved apparirebbe come una sorta di incrocio ad alto tasso metaforico tra la saga di “Saw” e “Un giorno di ordinaria follia”. Se abitassimo in un mondo più giusto, potremmo invece definirlo come l’ennesima conferma della salute eccellente del nuovo cinema tailandese, senza sembrare come dei geek alla perenne ricerca della nicchia da scoprire. Ed è un peccato che sia la prima ipotesi ad avere la meglio, perché questo nuovo lavoro di Chukiat Sakveerakul ha la potenza deflagrante di una bomba tubo gettata in un grande magazzino il giorno della vigilia di Natale. Una miscela di tensione, ripugnanza e humor nero con un tasso di cinismo alle soglie del sopportabile, il tutto servito con un impianto scenico e linguistico tra l’avanguardia e l’allucinato, senza però mai risultare stopposo o pedante.



Dopo un breve e (apparentemente) inutile prologo, ci viene presentato il giovane Phuchit (interpretato dall’ottimo Krissada Terrence, già nel fenomenale “Bangkok Loco”), salesman per una nota ditta di strumenti musicali. Per il Nostro gli affari (anche sentimentali) non vanno bene e la sua vita pare finita sull’orla di un baratro, con gli ingenti debiti a spingere verso il vuoto e la definitiva caduta. Fortunatamente la situazione è destinata a cambiare, ma nel modo più imprevisto. In seguito ad una misteriosa telefonata Phuchit è invitato a partecipare ad un gioco telefonico, una sorta di “Chi vuol essere milionario?” in tredici passaggi. Ad ogni step corrisponde una vincita in denaro e una prova per potersela accaparrare. Naturalmente prima si decide se accettare e solo successivamente si viene introdotti al nuovo livello del gioco, il cui rifiuto corrisponde alla perdita totale del monte premi. Si comincia con l’uccidere una mosca, ma molto presto ci si ritroverà prigionieri in gironi pasoliniani, fino al più selvaggio degli atti di violenza gratuita.



Tra interni perennemente illuminati a giorno, tagli di inquadrature sghembi, intrusioni sonore stranianti (ma una volta finito il film tutto combacia), un protagonista sempre più lercio (sia dentro che fuori) il lungometraggio viaggia come un treno verso la conclusione. Non è che ci sia molto da sezionare e analizzare in questo 13 Beloved: la critica al consumismo e all’avidità è talmente chiara e diretta da sfuggire a ogni possibile accusa di paternalismo o moralismo didascalico. E’ piuttosto la struttura da gioco a premi televisivo, dove in palio c’è pecunia e non la vita o qualcosa di altrettanto drammatico, a favorire un immedesimazione spiazzante e fin troppo immersiva. Se spesso si sceglie la totale alterità come fattore perturbante, sempre in ambito ludico si pensi all’ultraviolenza del non senso nel seminale “Funny Games” (1997) di Michael Haneke, qui è proprio la possibilità di immedesimazione a chiudere lo stomaco. Chiunque, durante la visione, si porrà almeno una volta la domanda circa cosa farebbe lui stesso in una simile situazione. Uccidere una mosca per soldi? Perché no? Proseguire o perdere tutto? Semplicemente agghiacciante, soprattutto in virtù dello strisciante senso dell’umorismo che pervade tutta la durata del lavoro. Una presa in giro che non sfocerà in nessuna risata liberatoria, ma in un amaro sorriso sempre più serrato e di circostanza. Perché alla fine è tutto un gioco, finzione. Nel mondo reale non potrebbe mai succedere qualcosa del genere. Vero?

lunedì 4 febbraio 2008

[trailer] GP506, Roborock, Chocolate

Succosa infornata di trailer dal lontano oriente.





Incominciamo con GP506, secondo horror bellico del sud coreano Su Chang Kong. Il trailer non mi dice molto, ma il precedente RPoint (Ring meets Platoon) raggiungeva livelli di tensione ingestibili.





Chocolate, ovvero legnate thai in salsa femminile. Che il meglio action fosse sempre stato di casa in oriente è risaputo, ma adesso pare aver preso residenza fissa in Thailandia. Il trailer è gasantissimo e Prachya Pinkaew alla regia è sinonimo di dolore e distruzione. Chi ha orecchie...



Si chiude con RoboRock, folle produzione giapponese e prima sortita in campo live action del rinnomato studio Gonzo (Full Metal panic, Burst Angel, Gantz, AfroSamurai,...). Il trailer parla da solo: rock'n'roll, follia e robottoni giganti. Che volete di più? Una storia?

domenica 3 febbraio 2008

[trailer] Thy Kingdom Come scritto da Mariano Baino





Il regista non lo conosco, il trailer non mi dice molto. Però parte dei soldi sono italiani (l'altra parte spagnoli, e chi mastica horror moderno sa che è cosa buona).

E, sopratutto, è scritto da Mariano Baino, il ventenne che nel 1994 diresse Dark Waters, frullatone pop in cui trovavano posto Fulci, Argento, i fumetti horror della EC, un mostro di gomma tra i più belli di sempre, una fotografia da illustrazione gotica e una regia ispiratissima. Grandioso. Nel doppio DVD americano di DW ci trovate pure i suoi corti adolescenziali, uno più bello e crudele dell'altro. Un piccolo genio che si era perso. Speriamo di averlo ritrovato.

Criminal vs 100 Bullets



Criminal è stato un po’ il fenomeno fumettistico statunitense dello scorso anno, parabola ascendente culminata con l’ Eisner Award come miglior serie e come miglior autore al grande Ed Brubaker. E ora, finalmente, anche gli scaffali delle fumetterie italiche si possono arricchire con il primo trade paperback della serie.


Criminal si pone come antitesi della già pregiatissima serie Vertigo 100 Bullets: se il masterpiece di Azzarello e Risso parte da una storia enorme, intrisa di fantapolitica e cospirazionismo, per trarne una narrazione ellittica e asciugata di tutto il necessario (pure troppo, potrebbero dire i detrattori), Brubaker e Phillips scelgono una storia minuscola e la narrano con un accumulo di particolari tale da rendere il tutto incredibilmente vero. Se 100B non concede nulla al lettore, Criminal lo accompagna per mano fino al tragico finale, facendolo angosciosamente intuire pagina dopo pagina.


Brubaker prende un pugno di personaggi e una rapina andata male come mc guffin per poter raccontare la piccola umanità che orbita nell’universo del crimine organizzato, Azzarello butta nel carnaio decine di personaggi, di storie, di piani temporali e, con la precisione di un orologiaio svizzero, dosa ogni parola con minuzia certosina. In Criminal i personaggi parlano tanto, ci raccontano di loro, vogliono condividere il loro passato, in 100B ci si esprime solo per oscuri slang, si mantengono i segreti fino alla bara, si apre bocca solo per offendere (e, in effetti, questa serie ruba a Preacher lo scettro di fumetto più volgare di sempre, anche in virtù di espressioni come “Tutti hanno la loro cryptonite… la mia è la merda sul cazzo!”, in una colta dissertazione sul sesso anale).


Graficamente Phillips è un mostro del fotorealismo, alternando tratto nervoso con suggestioni pittoriche, tratteggiando le emozioni sui volti dei personaggi, costruendo un background tanto solido da darci l’impressione di stare assistendo a un eccellente film noir. Anche in questo caso la serie Vertigo gioca il ruolo di nemesi della proposta Marvel: Risso astrae la narrazione, nasconde i volti dei personaggi, crea deliranti arazzi di violenza. Il mondo come teatrino del crimine, in mano a poteri molto più grandi di quelli che ci possiamo immaginare. Due magnifici esempi di personalità e stile, di come lo storytelling e l’atmosfera generale di un comic dipenda tantissimo anche dalle scelte del disegnatore, di come si possano trovare sempre nuove vie.


In ultimo il packaging delle due serie: doppia copertina pittorica per Criminal, icone oscure per 100 Bullets. Ancora agli antipodi.

venerdì 1 febbraio 2008

[trailer] Red Cliff di John Woo







Finalmente pare che il grande John si sia ricordato di cosa è capace.
Sangue, onore, polvere e lacrime. Manca solo Chow Yun Fat con le due Beretta.
Magari sarà una delusione, ma per ora basta il trailer per spazzare ogni pippone plastico di Zhang Yimou e l'epicità gusto Lego di Peter Jackson.