Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.
Finalmente, dopo 22 anni, ci siamo. Mettere le mani sul mitologico Slinger è qualcosa di favoloso. Mentre si è ancora in attesa del post-atomico definitivo, annunciato anni fa dal nostro Hawaiano preferito e in perenne pre-produzione, niente di meglio che fare chiarezza sul suo primo (e unico) successo al botteghino. Perché, per chi non lo avesse ancora capito, Slinger non è altro che Cyborg (quello con Van Damme) nella sua versione director’s cut. A leggere in giro e sbizzarrendosi fra tutte le supposizioni venutesi a creare nel corso degli anni (storica le leggenda per cui Slinger doveva essere originariamente un film muto) l’acquolina in bocca era ormai ben oltre il limite di guardia. Ecco quindi spiegato tutto il polverone sollevato attorno alla notizia dello storico ritrovamento.
Rispetto al suo gemello buono Slinger è un film estremamente cupo e violento. Stilisticamente al limite dell’astrazione. Ironicamente Albert Pyun deve ringraziare che il film sia venuto fuori solo adesso e non all’epoca. La beffa starebbe proprio nel fatto che, per quanto lui sia ostile ad ammetterlo, tutto il successo guadagnato da Cyborg è dovuto proprio ai tanto odiati rimaneggiamenti dei produttori di casa Cannon. Interessati più a fare soldi sfruttando gli scarti di altri film (perché tutto – costumi, scenografie, … - in Cyborg è recuperato da altri set) rispetto a mettere in luce il valore artistico dell’opera. Se non fosse stato per questo fattore determinante gli incassi record (rispetto al costo reale) della pellicola originale non sarebbero stati che un miraggio evanescente.
Ma torniamo alla ricca abbuffata garantita dalla miracolosa riscoperta. Come portata principale abbiamo una deliziosa metafora cristologica, praticamente assente nella versione uscita nei cinema. A differenza dell’altra grande Passione del cinema sci-fi anni ‘80, il Robocop (sempre versione director’s cut) di Verhoeven, qui non siamo dalle parti della feroce satira anti-Reaganiana. Van Damme non è altro che un Messia venuto a salvare il genere umano. Inutile a dirsi che per arrivarci dovrà passare attraverso ogni sorta di martirio. Largo all’eroe come ricettacolo di dolore quindi, passaggio obbligato per l’immortalità. I riferimenti religiosi sono presenti in ogni scena, dai più crassi e banali (l’orecchino a croce rovesciata del cattivo, visibile solo nei flashback) fino alla raffinata presenza delle tre co-protagoniste femminili (che come le 3 Marie seguiranno il nostro Gesù belga anche dopo la crocifissione). Nella versione DC appaiono anche visioni ben più esplicite (un uomo nudo, circondato da teste impalate, abbandonato sul terreno nella tipica posa del Crocefisso), particolari sullo sfondo (graffiti a tema sulle rovine abbandonate) e una funerea voce off a ricordarci ogni tre per due della fede e del destino della razza umana. Ogni traccia di goffa ironia presente in Cyborg scompare. L’atmosfera è plumbea, tanto gratuita (praticamente non esiste storia al di fuori dei silenzi, degli scontri fisici e dei crudelissimi flashback) da sfiorare il metafisico.
A questo punto si unisce una gestione del montaggio frammentata e claustrofobia, spesso tanto rozza da farci sospettare che qualche giornata in più in cabina di regia non sarebbe stata male. Nei momenti più inspirati, tra inserti subliminali, tagli netti, scenari desertici e maestosi rallenty (questi gestiti in maniera divina, una roba a metà tra Walter Hill e Tsui Hark) pare invece di essere quasi (quasi, eh) dalle parti di un Ashes of Time di Wong Kar-wai. La speculazione del cinema d’azione e del post-atomico tanto agognata (e ottenuta) dalla Cannon non era neppure contemplata dal giovane Albert Pyun, qui autore più che mai. Inutile meravigliarsi quindi del suo allontanamento forzato dalla cabina di regia.
Ma oggi, a distanza di quasi un quarto di secolo, cosa ci rimane? Un abbozzo di capolavoro (perché i germi di qualcosa di enorme ci sono, eccome se ci sono), troppo povero e limitato dai paletti di ottuse eminenze grigie per spiccare realmente il volo. Magari è meglio così. Potersi perdere nelle ipotesi di cosa ci avrebbe potuto portare Pyun se adeguatamente supportato (e non intendo con completa libertà creativa e 200 mln. di dollari da buttare come meglio credeva, sarebbe bastato qualcosa di più del budget necessario al catering della troupe) è un gioco a cui non saprei rinunciare. E adesso rimaniamo in attesa delle renegade cut di Captain America e Ticker.
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