Alla fine dei conti Level Up parla di mediocrità. E lo fa nel modo più difficile possibile: raccontandola senza paternalismo. La questione è semplice: seguire i propri sogni o maturare? Vivere per le aspettative degli altri o per la propria felicità? Sono migliaia le storie scritte su questo argomento, quasi sempre indirizzate verso l’ipotesi dell’autorealizzazione a ogni costo. Gene Luen Yang decide invece di ricordarci cosa significa nascere sul pianeta Terra, nonostante si parli di una storia fatta di angioletti venuti da bigliettini d’auguri e mondi fatti di pixel. Così il suo protagonista la smette con i videogiochi e si iscrive a medicina per fare contento il padre defunto. Poi si rende conto di non aver seguito la sua vera vocazione e manda tutto all’aria per campare di tornei e beta testing. Anche in questo caso la felicità non arriva, allontanata dallo spettro della famiglia, del padre deluso dalla vita e dall’incombere del proprio futuro. E allora cosa fare?
Nonostante sia disegnato con tratto infantile e naif Level Up si rivela, leggendo tra le righe, estremamente duro e disilluso. E forse lo si apprezza per questa sua schiettezza terra terra, di quella utile a ricordarsi che di tanto in tanto è il caso di chiedersi cosa si vuole veramente. Al di la di quello di cui ti vogliono convincere gli altri. L’accettazione di una vita normale pare essere uno degli argomenti proibiti in questi anni all’insegna della super esposizione mediatica, a costo di una spasmodica ricerca dell’eccesso e della particolarità anche repellente. Così quando un protagonista viene costretto a relegare le sue passioni al tempo libero (cosa che, volenti o nolenti, succede al 99,9 % della popolazione mondiale) lo si vede come un perdente. Un sognatore che decide di farsi ingabbiare nelle grigie regole di una vita medio borghese fatta di banalità e lavoro sicuro. Non fa nulla se nel suo schifoso lavoro diventerà il migliore.
Gene Luen Yang ci fa capire che siamo tutti diversi. Impossibile tracciare una parabola in cui riconoscersi tutti. Al mondo, e in Level Up, ci possono essere mediocri videogiocatori che campano scrivendo recensioni (e sono felicissimi di quello che sono) e campioni di Mario impegnati a impiegare il loro talento nel manovrare sondini rettali alla ricerca di tumori (e sono soddisfatti della loro vita almeno quanto i primi). Siamo in tantissimi, con talenti variegati e storie agli antipodi. Che senso ha puntare tutti alla stessa cosa? Se un obbiettivo fa la felicità di molti non significa che lo farà anche per noi.
Level Up ha la sfrontatezza di ricordarci che a qualcuno piace avere una vita normale. Non importa se questo qualcuno sia un inetto o un fenomeno in un qualsiasi campo. Qui si parla di una spinta interiore che non può essere giudicata o valutata, perché troppo intima. Naturalmente tra le pagine del volumetto ci sono anche quelli che il sogno lo inseguono per anni e infine lo raggiungono. Tanto per ricordarci che farsi il culo alla fine paga sempre, basta sapere in che direzione muoversi.
Un fumetto a 8-bit che si pone come perfetta antitesi del cool a tutti i costi di Scott Pilgrim. Se la il protagonista era un perdente che non perdeva mai (curioso, no?) qui abbiamo un protagonista che vince il suo personale podio perdendo di proposito la gara a cui tutti volevano iscriverlo.
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