Barcazza è un fumetto praticamente privo di trama. In maniera gelida (e un po’ sgradevole) offre al lettore squarci di vita quotidiana, concentrandosi su di un gruppo di villeggianti impegnati a oziare. Tutta l’attrattiva dell’opera sta nella profondità dei personaggi e nei loro rapporti interpersonali. In altre parole Barcazza funziona solo se i suoi attori prendono vita. Se, prima dell’ultima pagina, si finisce per conoscerli un po’ di più. Francesco Cattani infila tra i suoi spazi bianchi una continua tensione erotica, sudaticcia e pruriginosa come ci ricordiamo tutti certe vacanze al mare. Le dinamiche che si vengono a creare lasciano dietro di loro una sensazione di leggero disagio, come se da un momento all’altro i meccanismi di potere sotterrati dalla spessa coltre della routine fossero destinati a essere scoperchiati.
Insomma, un sacco di carne al fuoco. Peccato che non si vada a parare da nessuna parte. I personaggi rimangono sconosciuti, non si ha progressione e alla fine del volume ci si sente come alla prima pagina.
Sono i rischi del racconto minimale.
Dopo tutto anche un maestro come Michael Haneke ha ceduto alla tentazione degli innesti mistery nell’incedere statico del capolavoro Il Nastro Bianco, forse la migliore rappresentazione di sempre sulla nascita del male. Lo scorrere sempre uguale delle giornate in un villaggio tedesco del 1913 viene scosso da alcuni strani fatti (incendi, sevizie,…). Non ci saranno indagini, climax, colpi di scena o conclusioni. Semplicemente lo spettatore sarà sempre più immerso in un’atmosfera malsana e ributtante. La vicenda risulta ferma, è lo spettatore a muoversi tra le righe. Quando le luci in sala si riaccendono nella comunità descritta non è cambiato nulla, abbiamo vissuto con loro solo per 144 minuti. Però il cervello dello spettatore ha subito una serie sufficiente di scossoni (i fatti misteriosi) per mantenersi comunque in movimento. E continuare a farlo anche nei giorni successivi alla visione (effetto Haneke garantito).
La conclusione di questo ragionamento è piuttosto semplice: se in una storia succede qualcosa, anche minima o sullo sfondo, avremo una sovrastruttura su cui basare le nostre valutazioni circa l’emotività dei personaggi. Altrimenti tanto vale andare al bar e sorbirsi qualche ora di chiacchiere stanche e ottuse.
Tracciamo adesso una linea agli antipodi del fumetto alla Barcazza. Ci troverete il supereroismo statunitense. Anche qui regna la stasi, ma ci si arriva dalla direzione opposta. Sceneggiature iper dinamiche che non portano a nulla, psicologie ferme e il bisogno di dare ogni mese qualcosa in pasto alla macchina industriale. Nel suo passare da evento epocale in evento epocale il fumetto di supereroi è costretto in maglie strettissime e inamovibili. Un po’ come correre sul posto.
All’interno di questo scenario (non esattamente esaltante) troviamo uno scrittore come Kirkman, interessato più ai personaggi (e al loro mondo interiore) che ai plot. Robert è capace di scrivere una serie sugli zombie includendo interi cicli narrativi senza che si veda un non-morto. O una di supereroi adolescenti dove terribili minacce per la Terra hanno la stessa importanza narrativa della scelta del college. Si parla naturalmente di Walking Dead e Invincible.
In uno dei primi cicli narrativi della seconda serie citata il protagonista si trova a fronteggiare un alieno potentissimo che, di tanto in tanto (a intervalli regolari), attacca il nostro pianeta. A differenza delle solite scazzottate ipertrofiche del 99% delle serie statunitensi i due antagonisti si mettono a parlare. Si scopre che il ciclope è un pacifico professionista. Per lavoro attacca i pianeti che lo ingaggiano, così da testarne le difese. Causa un errore di trascrizione confonde la Terra con un altro mondo. La sua preoccupazione a questo punto è chiedere scusa a Invincible e non perdere l’appalto. Sembra una stupidata, un giochino sterile e puerile (anche se la serie è tutto tranne che infantile, alla luce sopratutto di picchi di ultraviolenza non indifferenti), ma in realtà siamo di fronte alla controparte fumettistica dei cambi di prospettiva dei vari Oldemburg o Christo. Per capire la complessità di una cosa semplice devo stravolgerne il contesto. Poi arriva il colpo di genio di Kirkman: dare un nome umano all’invasore. In un immaginario razzista e qualunquista come quello statunitense, dove l’invasore fa sempre parte di una moltitudine senza volto e senza identità (gli insettoni di Starship Troopers sono la metafora perfetta per anni di Vietcong, Arabi, Russi,..) non è una cosa da poco. Il mostro non si chiama Doomsday o Beta Ray Bill, ma semplicemente Allen. Se non fosse per tutine di lattice, mantelli e pelli squamate (e tutte le sovrastrutture culturali che si portano dietro, da quelle classiche a quelle revisionistiche) avremmo perso un passaggio di un’umanità palpabile e concreta.
Due fumetti diversissimi tra loro chiamati a confrontarsi con la nostra vita quotidiana, dunque. Uno ce la restituisce banale, nonostante il contesto dell’opera alta. Il secondo, anche se parte da pagine prive di profondità, straordinaria in ogni suo piccolo gesto. Tanto per dimostrare, una volta in più, che spesso il pacchetto è decisamente fuorviante.