mercoledì 24 marzo 2010

Paolo Sorrentino "Hanno tutti ragione"

Una sola nomination, quella per il miglior trucco. Quando invece Il Divo avrebbe meritato statuette per miglior film, sceneggiatura, montaggio, attore protagonista e colonna sonora. Senza dimenticare quella per miglior regista. E invece si è scelto di premiare un film che non racconta nulla, tra l’altro in maniera piuttosto scialba (anche il coreano Myung Se Lee non ha mai raccontato nulla, ma lo stile a volte compensa la sostanza). Una sorpresona comunque, perché il titolo pigliatutto degli ultimi Academy Awards doveva essere il trionfo del vecchio travestito da novità. Mezzi nuovissimi per risultati più che consueti. Tipicamente statunitense.



Ci voleva un genio come Sorrentino per dimostrare che con il vecchio si può arrivare a risultati inediti. Perché quella perfetta fusione tra realtà e finzione, tra cinema, teatro, videoarte e videoclip, tra genere e autorialità, tra commedia e dramma, tra astrazione e cronaca che è Il Divo la si è saputa ottenere soltanto con movimenti di macchina, montaggio, fotografia, un parco attori da brivido e una facilità di scrittura da beatificare. Basti la magnifica citazione delle Iene tarantiniane (si metta a verbale: una delle uniche due o tre citazioni di tutto il cinema post moderno ad avere REALE significato), i titoli di testa, la messa in scena degli attentati mafiosi, il furioso monologo sulla necessità di amoralità da parte di Servillo per ricordarsi cosa significhi fare cinema. Se poi incominciassimo a parlare dei Boards of Canada e dei Lali Puna messi a punteggiare uno dei migliori noir contemplativi degli ultimi 20 anni e del grottesco Geremia a muoversi su sfondi astratti e geometrici allora non ne usciremmo più. Tutto questo preambolo per arrivare a due conclusioni: 1) Sorrentino è uno dei 5 migliori registi a livello mondiale 2) per quanto si sforzi di fare lo scrittore a me le palle sono girate: Hanno tutti ragione lo volevo vedere su pellicola. Ci si rassegni. Questo perchè, nonostante il libro in questione sia perfetto, il film lo sarebbe stato ancora di più.

Sinossi ufficiale: Tony Pagoda è un cantante melodico con tanto passato alle spalle. La sua è stata la scena di un’Italia florida e sgangheratamente felice, fra Napoli, Capri, e il mondo. È stato tutto molto facile e tutto all’insegna del successo. Ha avuto il talento, i soldi, le donne. E inoltre ha incontrato personaggi straordinari e miserabili, maestri e compagni di strada. Da tutti ha saputo imparare e ora è come se una sfrenata, esuberante saggezza si sprigionasse da lui senza fatica. Ne ha per tutti e, come un Falstaff contemporaneo, svela con comica ebbrezza di cosa è fatta la sostanza degli uomini, di quelli che vincono e di quelli che perdono. Quando la vita comincia a complicarsi, quando la scena muta, Tony Pagoda sa che è venuto il tempo di cambiare. Una sterzata netta. Andarsene. Sparire. Cercare il silenzio. Fa una breve tournée in Brasile e decide di restarci, prima a Rio, poi a Manaus, coronato da una nuova libertà e ossessionato dagli scarafaggi. Ma per Tony Pagoda, picaro senza confini, non è finita. Dopo diciotto anni di umido esilio amazzonico qualcuno è pronto a firmare un assegno stratosferico perché torni in Italia. C’è ancora una vita che lo aspetta.

Perfetto nella sua prosa da monologo teatrale, così facile da immaginarsi in bocca a un Servillo perfettamente calato nei panni del cantante Tony Pagoda. Napoletano fino al midollo, cocainomane, grottesco nel suo essere sospeso tra donne facili, camorristi e manager eroinomani. Eppure così vero. Tutta la prima, lunghissima, parte del libro è un alternarsi torrenziale di aneddoti e ricordi. Perle di filosofia spicciola sputate da uno che pensa di aver vissuto fino in fondo. Colto, infantile, volgare, saggio e stronzo da ogni lato lo si osservi. Un mare di episodi più veri della vita vera. Semplicemente grandioso.



Poi arriva il purgatorio amazzonico. La lingua si fa più carica di figure retoriche e di parentesi profonde. Viene introdotto il personaggio di Roberto Ratto, e subito vi ritroverete a sperare in un’intera collana di romanzi dedicata a lui. Picchiatore selvaggio munito di sole quattro dita, burattinaio di tutta la politica italiana quando il fango si tentava ancora di nasconderlo.



Conclusione capitolina, amara e aulica. Leggermente indigesta, si trascina stanca come il protagonista. La forma ha il sopravvento sul contenuto. La fusione tra linguaggio e contenuti è perfetta, mentre Tony si perde in una nuova Italia fatta di lustrini e volgarità. Doveva essere il paradiso, ci si commuove pensando alla vecchiaia come obbiettivo ultimo.



Si chiude il libro e si incominciano a contare le ore che ci separano da Questo deve essere il posto.

6 commenti:

Faust VIII ha detto...

D'accordissimo sulla prima parte: ho amato davvero molto Il Divo, perchè aveva (ed ha) in sè qualcosa di davvero rivoluzionario per il cinema italiano (e non solo, come giustamente fai notare). La colonna sonora era un contrappunto perfetto alla tragedia degli attentati e dei fatti di sangue e rendeva palese il grottesco della politica italiana e del personaggio Andreotti, uomo potente, ma misero, nella sua solitudine.

Paolo Sorrentino è davvero da seguire. Cercherò di recuperare il libro e aspetterò il film.

Vedi, per questo è un piacere leggerti.

Faust VIII ha detto...

P.S. Com'è andata, poi, a Berlino?

MA! ha detto...

Voilà, aggiunta la sinossi perchè altrimenti non ci si capiva nulla. A Berlino tutto bello, però nessun concerto. Quello ad aprile. Comunque grande città, anche solo per la street art.

Faust VIII ha detto...

Forse avevo capito male io...
Comunque, mi fa piacere che tu ti sia divertito!

Officina Infernale ha detto...

gia leggendo la trama in libreria sembrava una figata sara' uno dei miei prossimi acquisti...

MA! ha detto...

Moz, fidati, è una figata. Poi c'è tutta una parte sugli scarafaggi che ti manderà fuori di testa.