Il secondo volume dedicato a DMZ è, per usare un eufemismo, un calcio dritto nei coglioni dei suoi detrattori. Una bomba tubo caricata a schegge di realtà, un colpo di manganello proprio dietro la nuca dell’ignoranza. Se il primo tomo era caratterizzato da una forte carica metaforica, con Brian Wood che evitava di perdere tempo spiegando il come e il perché di una guerra che puzza di McGuffin lontano un miglio, puntando invece i piedi quando si tratta di smascherare le meccaniche perverse dietro al fenomeno vergognoso del giornalismo embedded e sull’insicurezza che da circa sette anni regna nel cuore di ogni americano, in questa nuova uscita lo scrittore accontenta tutti i suoi critici e incomincia a dare una profondità nuova al suo scenario. Come certa gente riesca a godere di megaeventi che due volte all’anno rivoluzionano universi vecchi decadi, di morti e risurrezioni, di saghe galattiche tra pompinari dai poteri divini, per poi venire a fare le pulci a un opera come questa non me lo riesco proprio a spiegare. Probabilmente la risposta la troverò quando riuscirò a capire come mai alle fiere del fumetto la gente sembra sempre più interessata a gadget dozzinali e a costumi cuciti dalla mamma piuttosto che alla carta stampata.
Comunque, tornando a DMZ, Brian picchia come un boxeur professionista, mettendo sempre più alla berlina gli organi d’informazione coinvolti nelle zone calde del pianeta. E non si parla sempre della solita Fox (anche se il canale di Murdoch continua a rimanere l’esempio più ingiustificabile di questo atteggiamento) e dell’esercito statunitense: prendetevi i giornali dal ‘91 a oggi (con una puntatina nel 1982, tra Argentina e Inghilterra) e scoprirete quanto quella maledetta/benedetta notte vietnamita (Offensiva del Tet, 1968) abbia autenticamente cambiato le carte in tavola per tutti. Peccato che adesso, probabilmente proprio in virtù delle sterili critiche di cui ho parlato prima, l’autore punti a tappare tutti i buchi di sceneggiatura, spiegando per filo e per segno ogni momento della guerra civile che separa gli US: la vicenda perde moltissimo in suggestione ma ci guadagna in durezza, passando da distopia imbevuta di folle umorismo socio politico a dolorosa cronaca. La satira lascia spazio al realismo, con buona pace dei detrattori.
Burchielli ha in tutto questo un ruolo fondamentale, che lo eleva a chilometri dal bieco ruolo di mestierante: alle prese con una sceneggiatura densa e forse fin troppo intelligente, molti sarebbero caduti nella trappola del fumetto forzatamente arty. Il Nostro toscano invece no, ed è un’ autentica manna dal cielo. Le accuse di Wood prendono la forma di fantasmagorico blockbuster, la regia passa da un ipotetico Michael Moore a un ipercinetico Tsui Hark. Un tratto che risulta per forza di cose fico (vi assicuro che non esiste parola migliore per definirlo) e accattivante lavora in sinergia con una scelta delle inquadrature mai banale e fine a se stessa, andando a generare un’ alchimia carica di carattere e stile: esiste forse un modo migliore per rendere accattivante e avvincente una sceneggiatura che ci parla di quanto i nostri governi ci prendano per il culo? La mia mail la trovate nell’angolo in alto a destra.
Considerazioni politiche a parte, una grande pagina di fumetto. Una dimostrazione di quanto poco spesso l'eroismo passi dal machismo forzato o dall'ipervirilità. E l'ultima parte del volume, quella che sicuramente verrà snobbata dai più, ci dimostra di quanti eroi sia pieno il mondo.
Due consigli per chi abbia voglia di approfondire l'argomento: Reporter di Guerra di Mimmo Candido e Televisoni di guerra di Antonio Scurati.
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