
Nulla di meglio di una quintalata di politicamente scorretto per rendere appetibile un prodotto datato come un cappello demodè. Dai geni della Serviceplan di Amburgo.


Per la cronaca la locandina qua sopra non è relativa a Mad Monkey, ma al precedente lavoro dello Studio Flying: quel capolavoro pop di Aachi & Ssipak, anno di grazia 2006. Un frullatone folle di sangue, volgarità e scatologia, girato come il film d'azione più estremo della storia. Roba che al confronto John Woo pare un mestierante da straight to video: montaggio alla velocità della luce e movimenti di macchina da ricovero psichiatrco. Semplicemente grandioso.






La risposta la trovate nelle gallerie del sito Baka Gaijin, una mega raccolta di tutto il trash di stampo cosplay. Tra l'annicchilente e l'esilarante.
Prima che Wilson Yip diventasse il regista discontinuo che è ora, un personaggio capace di passare da uno Sha Po Lang a un Dragon Tiger Gate senza dimenticarsi di avere sul groppone un paio di capolavori del peso di Bullets Over Summer e Juliet In Love, prima della joint venture con l’attore/coreografo/regista Donnie Yen, prima di tutto c’era questo Bio Zombie. Non l’esordio assoluto del nostro, ma comunque il primo contatto con le sue reali potenzialità: messa in scena estremamente estetizzante, senso dell’assurdo (nell’accezione più amara del termine), una buona dose di pessimismo.
Se anche voi siete maniaci di urban toys e action figure viniliche, fatevi un giro su www.myplasticheart.com. Molto più assortito e attento ai nuovi designer del fin troppo blasonato KidRobot. E in più il dollaro è in caduta libera.
Grazie al suo magnifico Exodus Pang Ho Cheung è diventato il regista Hong Konghese da citare, quello da sciorinare come se nulla fosse nei salotti da cinefili consumati. Un po’ come succedeva con Wong Kar Wai una decina d’anni fa: giovane, colto, oltremodo talentuoso, festivaliero quel che basta per far girare il nome anche fuori dai circolini dell’esotico a tutti i costi. Peccato che siano in pochi a ricordarsi del suo primo lavoro: You Shoot, I Shoot (2001), storia della strana sinergia tra un killer professionista e un cineasta porno con la passione per il cinema d’autore. Tra finezze infinite, humor nero, romanticismo inaspettato e meta cinema, il giovane Pang esordiva con una sceneggiatura perfetta, una regia a prova di bomba e uno strano senso dell’umorismo. Più che strano, sottilmente malefico. E lui ci tiene a ricordarci di questo aspetto.
Chiariamo subito una cosa: i precedenti Art Of The Devil erano una solenne sola, unico motivo d'interesse era l'ingente quantità di emoglobina che ne riempiva il minutaggio. Per il resto pareva di trovarsi di fronte al remake tailandese del ciclo Black Magic, uno dei simboli della cinematografia Hong Konghese dei selvaggi '80s. Questo terzo capitolo non sembra nulla di meglio, ma almeno la frattaglia è rimasta. Dallo stesso team (8 registi!) del secondo Art Of The Devil, in diretta da Twitch, ecco il trailer.
Non un trailer ma un breve backstage dal nuovo film di Ching Siu Tung, uno dei maggiori virtuosi cinematografici della storia. Quando nel proprio carniere si hanno titoli come Swordsman 2, Duel To The Death oltre che la trilogia de A Chinese Ghost Story e si sono persi gli ultimi anni a coreografare polpettoni cinesi è subito spiegato il perchè dell'hype cresciuto attorno a questo An Empress and The Warriors .
Continua nel terzo trade paperback edito dalla Salda Press (che si fa attendere ma ripaga con una qualità stellare, soprattutto nei materiali) la saga horror esistenzialista creata da Robert Kirkman. Con tutti i pregi e i difetti del caso. Annullando il concetto di narrazione decompressa introdotto nel mondo dei comics da Grant Morrison, questo Walking Dead viene concepito dal suo autore come potenzialmente senza fine: nel descrivere le gesta di una piccola comunità di sopravviventi in un mondo popolato da zombie i personaggi possono essere introdotti o morire in qualsiasi momento, andando a determinare uno dei punti di forza di questa proposta. Se si ha come obiettivo la cronaca della vita quotidiana in un contesto alieno e minaccioso, la fine improvvisa del nostro personaggio preferito è un ipotesi da prendere in considerazione senza alcun problema. Per rimpiazzarlo basterà l’incontro e la fusione con altre piccole comunità. E qui incominciano i problemi: se da una parte la profondità della lettura e delle psicologie dei personaggi raggiunge in questo terzo volume vette da capolavoro, la struttura narrativa incomincia invece a mostrare la corda. Attente e amare riflessioni sulla (ri)nascita di una civiltà organizzata, ponendosi quesiti importanti come la legittimità della pena di morte in condizioni al limite, stridono se affiancate a una costruzione che sfrutta il meccanismo del cliffhanger fino allo sfinimento. Un canovaccio piuttosto schematico (ogni volta tutto sembra essersi risolto ma, improvvisamente, un evento esterno infrange l’equilibrio) e la poca attenzione (almeno per ora) al lungo periodo forniscono una base solida e semplice su cui costruire complesse architetture analitiche/sociologiche, ma se non si hanno nelle proprie mire autentici colpi di coda alla Mark Millar tutto potrebbe risultare deleterio.
Truffaut amava usare la definizione di grande film malato per tutti quelle opere circoscrivibili all’insieme dei capolavori abortiti. Per troppa sincerità, per eccesso di ambizioni o per semplice sfortuna. Southland Tales rientra perfettamente in questa categoria, andandosi a candidare come perfetto cult movie del domani. Quello di Richard Kelly è un lungometraggio dove l’eccessiva aderenza a una personalissima idea di cinema e sceneggiatura porta a un risultato esattamente sulla mediana tra pietra miliare e tonfo indifendibile.

Kenta Fukasaku è probabilmente il più subdolo tra i nuovi provocatori del cinema d’Oriente. Lontano dalla furia di un Takashi Miike o dall’elegante scaltrezza di Park Chan Wook, il figlio del Maestro riesce a fondere come pochissimi altri l’essenza kawai dell’estetica e filosofia otaku con amare riflessioni sulla sociologia e sulla comunicazione del mondo moderno. Come se si trattasse di una versione impudente e hardcore di Bauman, Kenta ci parla (malissimo) dei nostri giorni rivestendo l’amaro calice di una patina plasticosa dai tipici colori accessi e caramellosi tanto caratteristici agli anime.
La cattivissima (orari disumani, corporativismo hard core,...) multinazionale del videogioco Electronic Arts finalmente ci concede una (finta) buona azione: seguire via blog lo sviluppo del loro primo prodotto freeware, per la cronaca Battlefield Heroes. Avremo quindi l'occasione di consigliare e dare giudizi alle scelte dei game designer di casa EA, un pò come è successo nel cinema con Snakes On A Plane. Noi ci guadagnamo un giochino che pare essere una bomba d'ignoranza e l'occasione per atteggiarci a CT dell'industria videoludica, loro un treno merci di pubblicità praticamente gratis e, allo stesso prezzo, uno studio dettagliato del nerd pensiero.http://www.battlefield-heroes.com/
La Rockstar Games è la software house più figa del globo terraqueo. E lo dimostra il fatto che la loro serie Grand Theft Auto abbia almeno un paio di titoli nella top ten dei videogames più venduti di sempre, nonostante chiunque abbia mai provato GTA sia a conoscenza della sua ingiocabilità. Ma i Nostri hanno almeno un paio di frecce al loro arco che li rendono praticamente inavvicinabili: un desiderio selvaggio di andare sempre "oltre" (chi altro avrebbe messo in cantiere un simulatore di malavita? E uno di bullismo?) e la capacità di maneggiare come pongo gli ultimi trent’anni di cultura pop. Passare qualche ora con i loro prodotti significa essere bombardati da citazioni e influenze tanto puntuali da perdere quasi la loro forma originale, rischiando di passare come trovate originali degli art director di casa Rockstar. Di seguito una serie di loro capolavori, alcuni tra i migliori trailer realizzati da questi fenomeni per i loro mondi artificiali.