Non mi nascondo dietro a un dito: Machete Maiden Unleashed mi ha lasciato con po’ di amaro in bocca. Non per la qualità del lavoro quanto per l’esigua quantità con cui si presenta. Pensare a un documentario sull’exploitation filippina (intesa sia come produzioni locali che come delocalizzazioni statunitensi) e limitare il tutto a un’oretta scarsa è una mossa sporca. Sopratutto per chi, come il sottoscritto e moltissimi altri spettatori, in quei montaggi di scene sgangherate e ridicolmente populiste ci si è tuffato di testa. In 54/55 minuti non c’è tempo per un discorso coerente e approfondito, e il tutto finisce per essere limitato a qualche siparietto simpatico dedicato a chi c’era (sul set o davanti allo schermo di qualche cinema off) e a sparuti parallelismi con gli eventi storici.
Tutto da buttare, quindi? Assolutamente no, perché Machete Maiden Unleashed ha dalla sua un grandissimo pregio. Tanto importante da rendere la visione obbligatoria e sollazzante per chiunque sia vagamente interessato all’ argomento.
Il documentario di Mark Hartley è di una sincerità spietata.
Nessun tentativo di valorizzare un cinema che di prezioso non ha proprio nulla. Nessuna arrampicata sugli specchi per cercare di spiegare l’importanza cripto femminista del filone women in prison (genere che mi sono sempre immaginato a lottare per il podio dell’exploitation con l’altrettanto sguaiato nasty nuns). Perché guardarsi Sesso in gabbia? Perché c’è una 22enne Pam Grier con le sue mirabolanti tette perennemente al vento, un sacco di sangue e situazioni ben oltre il limite del ridicolo. E come giustifichiamo Terrore sull’isola dell’amore? C’è un orrido mostro di latex che violenta bonazze con addosso i vestiti meno resistenti della storia. Dynamite Jonhson? Un versione nigga badass di Rambo, dove esplode tutto e c’è comunque tempo per qualche donnina nuda. For Your Height Only? Si parla di un remake di James Bond interpretato da un nano esperto di arti marziali, cosa vi occorre di più?
Come gran sacerdoti di tutto questo turbine di follia abbiamo Roger Corman, Joe Dante, Sid Haig, gran parte delle women in prison di prima (di cui alcune ancora bellissime) e un funambolico John Landis. Che capisce al volo il senso di tutta l’operazione e ci delizia con un paio di passaggi da cabaret d’alta scuola.
Il tono di tutto il lavoro è quello. Frizzante, scanzonato, nostalgico ma non troppo. Le rapide interviste sono intervallate da un sacco di scene (rimasterizzate e ricolorate da paura) dei film in questione. Per quanto ci si senta idioti, in più di un’occasione si ride di gusto o non si crede a quello che si sta vedendo (le tette di Pam Grier rientrano in questa categoria). Cosa che puntualmente non succede con tutte quelle produzioni che oggi come oggi vorrebbero percorrere nuovamente queste gloriose strade (ma cosa è exploitation oggi? Gli stunt-movie sud-est asiatici? I rimasugli di v-cinema nipponico? I film di Seagal girati in est Europa? Gli horror ironici imbastarditi con l'action?).
Alla fine, nonostante ci si arrivi troppo presto, ci si ritrova con la mancolista delle visioni un po’ più lunga (devo recuperare il prima possibile Ebony, Ivory & Jade e Firecracker), la riconferma che non si è i soli ad avere una serie di guilty pleasures cinematografiche al limite dell’imbarazzante e un ghigno ebete stampato sul volto. Sicuramente domani ci guarderemo il nuovo film di Sokurov, ma per oggi mi rispolvero la vhs di Lady Terminator. Colpa di Mark Hartley che mi tronca il divertimento sul più bello.
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