lunedì 7 giugno 2010

Delusioni e pericoli scampati: The Losers di Sylvain White (US/2010)




Leggendo la serie The Losers pareva (almeno fino allo story arc conclusivo, decisamente TROPPO per trovare parallelismi extrafumetto) di avere a che fare con una versione dell’A-Team filtrata attraverso la poetica del Michael Mann di Miami Vice. Un utilizzo dell’esagerazione capace di insinuarsi a livello sottocutaneo, lontano dalla pornografia di un Michael Bay o di qualsiasi altro esegeta del nuovo cinema sintetico. Se il regista di Transformers riesce a trasmettere un senso di sproporzione solo attraverso eccessi da videogioco, la mente dietro a Rico e Sonny può contare su mezzi ben più efficaci ed eleganti. Nella trasposizione cinematografica della sua creatura televisiva non si assiste a nulla di impossibile, eppure si ha l’impressione è che tutto sia tarato su di un piano della realtà fino a quel punto rimasto escluso dall’immaginario di celluloide. Se in un film qualsiasi le vicende girano attorno a una valigetta di cocaina, a Miami l’unità di misura minima è la tonnellata. Non ci si muove con macchine più modeste di una Ferrari, l’orologio medio è un Daytona ed è normale macinare centinaia di miglia in offshore solo per bersi un cocktail con la donna del boss. Che, naturalmente, vive in una mega villa (vera!) dispersa nella giungla colombiana e si muove con un‘ intelligence da mossad. Anche al di là degli aspetti più folkloristici si è dalle parti di un cinema estremo. Protagonisti in eterno movimento con mezzi sempre diversi, sentimenti degni di un feuilleton melodrammatico, fotografia da Vogue che andava a scivolare con naturalezza in sparatorie ultrarealistiche. Una volta usciti dalla sala cinematografica si sapeva di aver assistito a qualcosa di enorme e stratosferico, nonostante i reali eccessi del cinema statunitense non avessero macchiato il metraggio di questo capolavoro. Come tornare ai tempi dello Scarface di Brian De Palma, con la camera a mano invece delle gru sbrodolanti. Con i The Losers di Andy Diggle e Jock si prova lo stesso spettro di sensazioni. Tutto verte su di una squadra di fenomeni (come lo sono Rico e Sonny) sbattuti da una location all’altra in un vortice frenetico di piombo e testosterone (come Rico e Sonny). Il fatto poi che la vicenda si innesti tra le pieghe della vera storia statunitense compensa in drammaticità le acrobazie puramente action dei protagonisti. A tutto questo aggiungeteci container pieni di dollari, rapine in cui si vola via direttamente con il furgone blindato, trame cospirazionistiche che vorrebbero riscrivere gli ultimi 80 anni di storia mondiale e una ricerca smodata da parte di Jock per l’inquadratura a effetto e lo stupore del lettore. Adesso si provi a pensare alla trasposizione cinematografica di tutto questo scritta e diretta da Peter Berg, pupillo di Michael Mann e uomo di cinema a cui siamo ancora grati per il gioiello The Kingdom. Sarebbe stato bellissimo, ma non è andata così. E di Berg non rimane che uno script.



Mettiamo le cose in chiaro: Sylvain White non è il cane mediocre che si dice in giro. Il problema sta altrove, non certo nella sua performance di shooter tappabuchi. Il ritmo è elevatissimo, le inquadrature sono sempre piene zeppe di roba, le invenzioni visive si sprecano (e ce ne sono almeno un paio eccezionali) e spesso ci si sorprende a ridere di gusto. Avvio e finalissimo da applausi, parte centrale che equivale più o meno a una scena figa dietro l’altra. I critici più arcigni potranno attaccare quanto vogliono la presenza pesante di cliché, la ricerca del dialogo brillante a ogni costo e qualche scivolone ironico di troppo (tutti punti innegabili, riconducibili a tutta una serie di prodotti a budget medio/basso che vanno da Zombieland a KickAss), ma sappiate che sarebbe potuta andare molto, molto, molto peggio. Dopo tutto dentro ai 103 minuti di questa trasposizione c’è tanta di quella ciccia che il rischio del mattone retorico da tre ore non appare così remota. Per tornare a Peter Berg, tra ciò che sarebbe potuto essere e il risultato effettivo ci passa una differenza simile a quella che divide The Kingdom e Hancock. Nonostante il lungometraggio con Smith sia molto più divertente e frizzante del film di consumo medio , una volta conclusa la visione non ne rimane nulla se non un piacevole ricordo. L’action bellico con Foxx invece, pur partendo da una serie di luoghi comuni quasi letali, rimane impresso per foga e rigore. Un’opera che non ha nulla da dire, fatta unicamente di linguaggio fine a se stesso (e protesi di Mann, qui produttore). Eppure dotata di un’identità tosta e di un carisma impossibile da ignorare. Quello che manca a The Losers.



La trasposizione della serie Vertigo è un film trasparente ma dalle potenzialità infinite, come testimoniano i numerosi picchi a cui si va incontro durante la visione. Rimane un giocattolo molto piacevole e lontano da certe volgarità da multisala, ma sapere che avremmo potuto avere a che fare con un classico non può non far rimanere con l’amaro in bocca.

Nessun commento: