Leggo i titoli delle canzoni reinterpretate e penso che non ci possa essere nulla di più lontano dai miei gusti (a parte il pezzo tratto dalla colonna sonora di Diabolik). Poi infilo il cd nel lettore. Perdere l'occasione di godersi un disco arrangiato superbamente, suonato meglio e intepretato da un genio cialtrone come Mike Patton sarebbe da pazzi (o da fessi). Dopo averlo riascoltato ininterrottamente per tutta l'ultima settimana mi bastano due parole per darne una definizione esaustiva e inequivocabile: pura classe. Guai a voi se ve lo perdete.
mercoledì 30 giugno 2010
lunedì 28 giugno 2010
Ma quanto è nerd quel genio di Patrick Boivin?
Che fosse un maestro della stop motion lo si sapeva (vedi il suo canale di YouTube). Che fosse un nerd da paura anche (vedi soprattutto questo). Ma un tenerone? Questo Patrick Boivin non smette mai di stupire! E mi fa venir voglia di postare il trailer di questo capolavoro qui sotto (e del suo seguito).
Che dopo è proprio Robot Chicken a essere un capolavoro in toto. Non per i contenuti, ma per lo stile con cui vengono restituiti allo spettatore. Un umorismo supercodificato, che nasconde dietro al cinismo becero e al nerdismo HC un impegno non indifferente da parte di chi ne fruisce. Spesso le gag più fulminanti (si parla di 1, 2 secondi di siparietto) si basano in toto su informazioni che chi guarda deve recuperare per fatti suoi scandagliando il proprio bagaglio culturale, decifrando ciò che vede in un pugno di secondi. Oppure si punta su di un meccanismo ironico per cui personagi di fantasia si comportano come persone reali, in situazioni del tutto plausibili. In questo caso il gioco è ancora più ricercato, visto che di per sè le linee di dialogo hanno ben poco di divertente. Qui si parla di un raffinato detournement, studiato alla perfezione e interpetrato altrettanto bene. Tutto per dire che Seth Green probabilmente di idiota ha solo la faccia.
giovedì 24 giugno 2010
Il gigante cinese: Special Comix vol. 3
Volete farvi un'idea di cosa possa proporre il fumetto indie cinese? Comprando un solo volume? Allora non fatevi sfuggire Special Comix vol.3. 64o pagine di grosso formato (quasi un A4) su carta bella grammata, sovracoperta a colori più due poster in omaggio. A vedersi è una bomba. In più se lo sfogli ci guadagna e basta. Decine e decine di storie (in mandarino con traduzione in inglese), tutte dal taglio tendenzialmente underground. Da quella pesa e dritta in faccia a quella minimal e/o naif. Arrivati alla fine del volume le considerazioni sono due: primo, la Cina non deve essere esattamente il posto più felice del mondo (e contate che il tema del tomo è il futuro. Quando si dice "un domani migliore"). Secondo, entro pochi anni questa nazione sarà un gigante anche a livello di creatività. Non avete idea di quanta roba incredibile ci sia in questo colosso. Qui trovate un' intervista a Storyof (editor dell'antologia) più qualche estratto. Qui ancora qualche paginetta.
mercoledì 23 giugno 2010
Saper giocare con il fuoco: Chronicles of Wormwood di Garth Ennis e Jacen Burrows
Di tutta la prima ondata dell’invasione Avatar targata Edizioni BD Chronicles of Wormwood era sicuramente l’uscita più attesa. Dopotutto è innegabile che Garth Ennis continui a rimanere uno degli scrittori più amati, nonostante il passare degli anni. Un gran furbone capace di farsi perdonare qualche scivolone (e una limitazione imbarazzante di argomentazioni) assestando a intervalli più o meno regolari colpi da maestro. A esempio di questo bastino quei due macigni inamovibili di Hitman e The Punisher Max, forse i suoi capolavori assoluti. Autentici antidoti alle marchette del caso. Chiarito questo va detto che, in un’ipotetica scala di valori tarata sulla produzione dell’irlandese, CoW si porrebbe più o meno a metà. Non grazie alla trama, al ritmo o all’umorismo (che ne avrebbero garantito lo sprofondamento nella parte bassa della classifica), ma facendo perno sulla sensibilità con cui vengono tratteggiate le due figure centrali, Gesù e l’Anticristo. Spiazzante, vero?
La satira e l’ironia verso la Chiesa Cattolica sono argomenti molto più delicati e complessi di quello che si pensi. Se si considera quanto è indifendibile e povero di argomenti il bersaglio in questione è fin troppo facile scivolare nel luogo comune o nell’attacco da osteria. Non è un caso se, messi di fronte per l’ennesima volta a preti pedofili, nazisti o avvezzi a ogni altro tipo di corruzione, la ferocia scivoli via lasciando indifferenti o, al limite, strappando un sorriso di languida approvazione. Fortunatamente Ennis è ben conscio di come si possa giocare col fuoco senza scottarsi. Finisce così col regalarci due personaggi indimenticabili cercando, a differenza di quello che tutti ci aspettavamo, la provocazione sussurrata.
Danny Wormwood non è l’anticristo da operetta che chiunque avrebbe tratteggiato. Abbiamo piuttosto a che fare con un mediocre, un produttore di paccottiglia televisiva (che sforza di promuovere con argomentazioni ridicole e inconsistenti) fidanzato con una donna molto più in gamba di lui. Che tra l’altro tradisce, pentendosi puntualmente dopo l’amplesso. Nulla di incredibile o di maledetto, piuttosto una brava persona senza nessun interesse nel fare del male agli altri (tradimenti sentimentali a parte). A sua volta Gesù è visto come la vittima delle circostanze, un uomo incredibilmente buono e pieno d’amore. Destinato a soffrire per questa sua condizione. Nessuna traccia del mongoloide, spastico, pervertito, cocainomane che ci avrebbero propinato tanti provocatori da due soldi. L’unico aspetto “negativo” che troviamo nel personaggio è una caratterizzazione da amabile sempliciotto. Sfaccettatura che si riallaccia a tutta una serie di apparizioni del Messia nell’immaginario popolare moderno. Sia che si tratti dei Simpson, piuttosto che di South Park, Family Guy o qualsiasi altra serie dal taglio iconoclasta, la figura del figlio di Cristo viene quasi sempre rappresentata come il fessacchiotto di cui tutti si approfittano. Un leitmotiv che ne fa un personaggio più codificato e amato (come si ama un personaggio di fantasia, nessun riferimento religioso) di quello che si potrebbe pensare. Provate a non ridere quando, in un puntata dei Griffin, trasforma una brocca di acqua in puro funky. O quando finisce per festeggiare in solitaria il suo compleanno in South Park. Io sarò anche anticattolico, ma Gesù rimane un personaggio fantastico. Sopratutto quando guida il gruppo dei SuperAmici (sempre in SP).
Garth Ennis cesella tutta la miniserie su questi due antieroi atipici, riuscendo così ad alternare banalità mostruose ad aperture delicate e, soprattutto, dalla fortissima carica umana. Motore primo di ogni storia narrata dalla mente dietro a Preacher. Per quanto lui si impegni a tratteggiarci come un gregge privo di qualità rimane il fatto che tutte le sue sceneggiature si fondano su azioni impossibili da portare avanti se non spinte da orgoglio e dignità. Caratteristiche inevitabilmente e indiscutibilmente umane. Ed è proprio qui che troviamo la più grande provocazione: secondo Ennis l’uomo è (e deve essere) perfettamente capace di risolvere i suoi problemi contando unicamente su se stesso. In un simile scenario che utilità avrebbero religioni e ideologie? E per ricordarcelo non occorre un Dio segaiolo (che comunque trovate nel fumetto) ma gli eredi dei due poli della cristianità che decidono di bersi una pinta piuttosto che dare il via all’Armageddon. Umani, troppo umani.
martedì 22 giugno 2010
Come suona il pig squeal a 8 bit?
Ho conosciuto le prodezze di A Rotten Bit grazie al MiOdi appena passato. Visto che per essere goduti come si deve gli Ufomammut necessitano di volumi esagerati (un pò come tutto lo sludge/drone) la mia serata presso il Magnolia si è conclusa nel palco secondario, sotto una tempesta di note sintetizzate.
Che la scena chiptune fosse una gran figata lo si sapeva, ma un'uscita come The 8Bit Metal Comp, dove il Nostro partecipa con due strepitose cover, è veramente una gemma. Undici brani di altrettante band simbolo dell'ultima ondata deathcore, rivise e rilette in chiave retrogame. La cosa più significativa è che la maggior parte delle composizioni guadagnano di credibilità quando sono suonate con due Gameboy. Capito Atreyu?
Trovate tutto (e gratis) direttamente sul MySpace di A Rotten Bit.
giovedì 17 giugno 2010
Think different, magari un'altra volta
Freedom From Porn from Freedom From Porn on Vimeo.
Finalmente pare che tutti si stiano rendendo conto di che strumento di propaganda sia l'iPad. Se 15 anni fa un terminale adatto ai non iniziati poteva essere una rivoluzione, oggi è uno strumenti per mantenere il popolino nell'ignoranza. Un cinquantenne odierno 15 anni fa (periodo dell'esplosione di Internet) aveva 35 anni. Un'età dove non si è ancora impermeabli alle innovazioni. Motivo per cui uno oggi non dovrebbe essere imboccato, ma dovrebbe possedere le abilità per muoversi nell'oceano della rete come gli pare e piace. Senza che nessuno censuri nulla. In circostanze simili perfino il porno può diventare politico (come non succedeva dai tempi del mitico Forced Entry).
mercoledì 16 giugno 2010
Venerdì a Bologna
Se non venite per noi, almeno fate un giro per la quantità di roba figa che potete trovare da Modo Infoshop.
lunedì 14 giugno 2010
La violenza nello sguardo: Rampage di Uwe Boll (2009/Can)
Rampage sarebbe dovuto essere una sorta di Elephant in chiave hardcore. Invece è finito per essere Un Giorno di Ordinaria Follia (di cui riprende alla lettera alcune scene) rivisto in ottica tardo adolescenziale. La storia di un ventenne che si costruisce una tuta in kevlar e decide di mettere a ferro e fuoco il centro abitato dove vive con i genitori. La vera trasposizione su celluloide di Postal, quella che andava dritta al succo del discorso. Usare gatti come silenziatori e sparare a megascroti idoli dei bambini era solo un bel pacchetto per distrarre dal vero nucleo del gioco. Un po’ come il linguaggio scurrile e le gag scatologiche in South Park. Una volta scartati gli specchietti per allodole (perfetti per attrarre le ire di quei ritardati del Moige, così hanno qualcosa contro cui sbraitare) rimane la vera cattiveria, quella che ti fa dubitare se sia il caso di ridere o meno. In Postal 2 succedevano un bel po’ di cose assurde, ma chissà perché finivi sempre a cospargere di benzina la fila di clienti in banca. In GTA ti piazzavi in cima a un palazzo ed entravi immediatamente in modalità Charles Whitman. Tutti i tester di Modern Warfare 2 si sono sorpresi a massacrare innocenti durante la missione No Russian, nonostante si vestano i panni di un infiltrato CIA (quindi un personaggio positivo) in un gruppo di terroristi ultranazionalisti sovietici. E’ una passione innata per la violenza gratuita e il massacro. Evitando stoppose riflessioni sulla sovrapposizione catarsi/desensibilizzazione rimane il fatto che ne siamo inevitabilmente attratti. Lascio la questione della vita reale a gente come William T. Vollmann, uno che ha scritto le 3300 pagine di Come un’onda che sale e che scende (la versione Mondadori è il riassunto) cercando di chiarire se una madre che uccide il figlioletto per evitargli gli orrori della prigionia di guerra sia definibile come omicida o meno. Concentrandosi sulla questione mediata e finzionale non ci si può nascondere dietro a un dito: Rampage delude perché non abbastanza estremo. Non abbastanza gratuito, folle e insensato. E questo dovrebbe far riflettere.
Il film parte benissimo, tratteggiando un protagonista molto meno scontato di quello che ci si aspetterebbe. Bill vive in una bella casa con due genitori in gamba (apparentemente professionisti affermati, innamorati come adolescenti e in continuo dialogo con il figlio). E’ un gran lavoratore, solo non ha prospettive. Potrebbe avere università e alloggio pagati dalla famiglia, ma continua a procrastinare. Per una volta niente white trash da opuscolo sociologico. Poi, sorvolando sulle voci off che ripetono per 400 volte le stesse cose, arriva il tonfo: il Nostro omicida di massa ha motivazioni e un machiavellico piano per imboccare la via d’uscita. Come spettatore medio di un certo tipo di prodotti mi sono sentito tradito: il film cerca di avere un’anima, errore imperdonabile.
C’è chi dice che la motivazione del successo della nuova pornografia estrema sia la ricerca di emozioni vere. Visto che le attrici sono diventate bravissime a simulare il piacere, cerchiamo almeno di percepire il dolore e il disgusto. Anche solo per una frazione di secondo. Siamo talmente alla canna del gas che non è più l’atto a eccitare, ma la sicurezza di trovarci di fronte a uno spicchio di realtà. Perché tanto ormai è tutta finzione, iperealtà o realtà aumentata. Il mondo lo vediamo solo attraverso gli LCD dei nostri smartphone (prospettiva dotata di tutte le indicazioni che prima potevi avere semplicemente chiedendo a un passante) e le nostre riflessioni sulla vita vera sono stereotipi di stereotipi. Basta aver letto più di due romanzi di formazione per poter capire dove vanno a parare il 99% dei diari online. C’è il tizio che si sente libero perché arriva a 40 anni vivendo ancora come un adolescente, quello che si sente meglio degli altri perché ha una mensola piena di libri e un manoscritto nel cassetto, quello che monta un sorriso cristallizzato e compiaciuto davanti alle cose semplici, invisibili al brutto mondo cattivo dei nostri giorni.
Uwe Boll, all’ennesimo tentativo toppato di girare un bel film, ci ricorda inavvertitamente che esiste anche un punto di vista agli antipodi di questo. Annoiato dalle coreografie dei torture porn alla Hostel ti approcci a Rampage nella speranza di vedere tonnellate di morti finte e inutili. Vuoi l’effetto della camera a mano perché sai che è fiction come simulazione della realtà. Vuoi l’audio in presa diretta e in contemporanea la colonna sonora extradiegetica fatta di percussioni distorte. Vuoi che qualcuno si sia impegnato a fare di tutto per simulare nel modo più realistico possibile l’insensatezza dell’ecatombe. Però privando tutto di senso ed empatia. Non vuoi sapere il perché, non vuoi conoscere le vittime, non vuoi la ripresa che indugia sulla spettacolarità della morte. Gus Van Sant sotto anfetamina, Modern Warfare senza joypad in mano. La semplice e gratuita saturazione dello sguardo per accumulo. La privazione totale di emozioni di fronte al più tragico degli eventi ti da la scossa , senza capirne il perché. Se la sofferenza di un altro essere umano come richiamo alla realtà è deprecabile, l’immersione totale e volontaria nella finzione lo è altrettanto. Come capita sempre nella vita mi sono ritrovato al livello di chi criticavo. E non occorre essere sociopatici da articolo sensazionalistico per provare sulla propria pelle questo bisogno di distacco. Continuando a prendermi come campione assolutamente medio non riconosco in me nessun tipo di segnale allarmante: convivo da anni, sono in attesa di diventare padre, ho lavoro, amici e interessi. Nessuna propensione alle armi da fuoco o simpatia per frange politiche di tipo estremista. Un tizio qualunque.
In questo filmetto scialbo e inutile c’è una scena che farà un male atroce a chiunque si trovi nella mia situazione. Un autentico capolavoro di cattiveria. Dopo aver totalizzato un bodycount da record Bill entra in una sala da Bingo. E’ in tenuta da guerra, brandisce due mitra ancora fumanti. Disturba i giocatori. Nessuno fa nulla, tutti continuano nella loro attività alienante. Dopo poco se ne va senza ammazzare nessuno. La sua battuta di uscita è “Voi non avete neppure bisogno del mio aiuto”. Più che dalle parti della stilettata siamo vicini alla fucilata (metaforica) in pieno volto.
Il film parte benissimo, tratteggiando un protagonista molto meno scontato di quello che ci si aspetterebbe. Bill vive in una bella casa con due genitori in gamba (apparentemente professionisti affermati, innamorati come adolescenti e in continuo dialogo con il figlio). E’ un gran lavoratore, solo non ha prospettive. Potrebbe avere università e alloggio pagati dalla famiglia, ma continua a procrastinare. Per una volta niente white trash da opuscolo sociologico. Poi, sorvolando sulle voci off che ripetono per 400 volte le stesse cose, arriva il tonfo: il Nostro omicida di massa ha motivazioni e un machiavellico piano per imboccare la via d’uscita. Come spettatore medio di un certo tipo di prodotti mi sono sentito tradito: il film cerca di avere un’anima, errore imperdonabile.
C’è chi dice che la motivazione del successo della nuova pornografia estrema sia la ricerca di emozioni vere. Visto che le attrici sono diventate bravissime a simulare il piacere, cerchiamo almeno di percepire il dolore e il disgusto. Anche solo per una frazione di secondo. Siamo talmente alla canna del gas che non è più l’atto a eccitare, ma la sicurezza di trovarci di fronte a uno spicchio di realtà. Perché tanto ormai è tutta finzione, iperealtà o realtà aumentata. Il mondo lo vediamo solo attraverso gli LCD dei nostri smartphone (prospettiva dotata di tutte le indicazioni che prima potevi avere semplicemente chiedendo a un passante) e le nostre riflessioni sulla vita vera sono stereotipi di stereotipi. Basta aver letto più di due romanzi di formazione per poter capire dove vanno a parare il 99% dei diari online. C’è il tizio che si sente libero perché arriva a 40 anni vivendo ancora come un adolescente, quello che si sente meglio degli altri perché ha una mensola piena di libri e un manoscritto nel cassetto, quello che monta un sorriso cristallizzato e compiaciuto davanti alle cose semplici, invisibili al brutto mondo cattivo dei nostri giorni.
Uwe Boll, all’ennesimo tentativo toppato di girare un bel film, ci ricorda inavvertitamente che esiste anche un punto di vista agli antipodi di questo. Annoiato dalle coreografie dei torture porn alla Hostel ti approcci a Rampage nella speranza di vedere tonnellate di morti finte e inutili. Vuoi l’effetto della camera a mano perché sai che è fiction come simulazione della realtà. Vuoi l’audio in presa diretta e in contemporanea la colonna sonora extradiegetica fatta di percussioni distorte. Vuoi che qualcuno si sia impegnato a fare di tutto per simulare nel modo più realistico possibile l’insensatezza dell’ecatombe. Però privando tutto di senso ed empatia. Non vuoi sapere il perché, non vuoi conoscere le vittime, non vuoi la ripresa che indugia sulla spettacolarità della morte. Gus Van Sant sotto anfetamina, Modern Warfare senza joypad in mano. La semplice e gratuita saturazione dello sguardo per accumulo. La privazione totale di emozioni di fronte al più tragico degli eventi ti da la scossa , senza capirne il perché. Se la sofferenza di un altro essere umano come richiamo alla realtà è deprecabile, l’immersione totale e volontaria nella finzione lo è altrettanto. Come capita sempre nella vita mi sono ritrovato al livello di chi criticavo. E non occorre essere sociopatici da articolo sensazionalistico per provare sulla propria pelle questo bisogno di distacco. Continuando a prendermi come campione assolutamente medio non riconosco in me nessun tipo di segnale allarmante: convivo da anni, sono in attesa di diventare padre, ho lavoro, amici e interessi. Nessuna propensione alle armi da fuoco o simpatia per frange politiche di tipo estremista. Un tizio qualunque.
In questo filmetto scialbo e inutile c’è una scena che farà un male atroce a chiunque si trovi nella mia situazione. Un autentico capolavoro di cattiveria. Dopo aver totalizzato un bodycount da record Bill entra in una sala da Bingo. E’ in tenuta da guerra, brandisce due mitra ancora fumanti. Disturba i giocatori. Nessuno fa nulla, tutti continuano nella loro attività alienante. Dopo poco se ne va senza ammazzare nessuno. La sua battuta di uscita è “Voi non avete neppure bisogno del mio aiuto”. Più che dalle parti della stilettata siamo vicini alla fucilata (metaforica) in pieno volto.
venerdì 11 giugno 2010
Se martedì passate per Pitti...
...ci trovate il nuovo numero di Made With Style. E dentro MWS un mio articolone su Sruli Recht. Un pazzo islandese capace di mettere in commercio, tra le altre cose, un anello con diamante grezzo (ma dotato di confezione composta da 215 pezzi di cartone, tagliati e colorati a mano da lui stesso) e uno scialle tinto per 10 mesi in sangue d'ariete. Oltre a utilizzare esclusivamente lana prodotta con i metodi degli antichi abitanti della sua isola e gestire un negozio nascosto in una ex pescheria dispersa nei dintorni di Reykjavik. Che dire, ognuno ha le sue fisse.
mercoledì 9 giugno 2010
lunedì 7 giugno 2010
Delusioni e pericoli scampati: The Losers di Sylvain White (US/2010)
Leggendo la serie The Losers pareva (almeno fino allo story arc conclusivo, decisamente TROPPO per trovare parallelismi extrafumetto) di avere a che fare con una versione dell’A-Team filtrata attraverso la poetica del Michael Mann di Miami Vice. Un utilizzo dell’esagerazione capace di insinuarsi a livello sottocutaneo, lontano dalla pornografia di un Michael Bay o di qualsiasi altro esegeta del nuovo cinema sintetico. Se il regista di Transformers riesce a trasmettere un senso di sproporzione solo attraverso eccessi da videogioco, la mente dietro a Rico e Sonny può contare su mezzi ben più efficaci ed eleganti. Nella trasposizione cinematografica della sua creatura televisiva non si assiste a nulla di impossibile, eppure si ha l’impressione è che tutto sia tarato su di un piano della realtà fino a quel punto rimasto escluso dall’immaginario di celluloide. Se in un film qualsiasi le vicende girano attorno a una valigetta di cocaina, a Miami l’unità di misura minima è la tonnellata. Non ci si muove con macchine più modeste di una Ferrari, l’orologio medio è un Daytona ed è normale macinare centinaia di miglia in offshore solo per bersi un cocktail con la donna del boss. Che, naturalmente, vive in una mega villa (vera!) dispersa nella giungla colombiana e si muove con un‘ intelligence da mossad. Anche al di là degli aspetti più folkloristici si è dalle parti di un cinema estremo. Protagonisti in eterno movimento con mezzi sempre diversi, sentimenti degni di un feuilleton melodrammatico, fotografia da Vogue che andava a scivolare con naturalezza in sparatorie ultrarealistiche. Una volta usciti dalla sala cinematografica si sapeva di aver assistito a qualcosa di enorme e stratosferico, nonostante i reali eccessi del cinema statunitense non avessero macchiato il metraggio di questo capolavoro. Come tornare ai tempi dello Scarface di Brian De Palma, con la camera a mano invece delle gru sbrodolanti. Con i The Losers di Andy Diggle e Jock si prova lo stesso spettro di sensazioni. Tutto verte su di una squadra di fenomeni (come lo sono Rico e Sonny) sbattuti da una location all’altra in un vortice frenetico di piombo e testosterone (come Rico e Sonny). Il fatto poi che la vicenda si innesti tra le pieghe della vera storia statunitense compensa in drammaticità le acrobazie puramente action dei protagonisti. A tutto questo aggiungeteci container pieni di dollari, rapine in cui si vola via direttamente con il furgone blindato, trame cospirazionistiche che vorrebbero riscrivere gli ultimi 80 anni di storia mondiale e una ricerca smodata da parte di Jock per l’inquadratura a effetto e lo stupore del lettore. Adesso si provi a pensare alla trasposizione cinematografica di tutto questo scritta e diretta da Peter Berg, pupillo di Michael Mann e uomo di cinema a cui siamo ancora grati per il gioiello The Kingdom. Sarebbe stato bellissimo, ma non è andata così. E di Berg non rimane che uno script.
Mettiamo le cose in chiaro: Sylvain White non è il cane mediocre che si dice in giro. Il problema sta altrove, non certo nella sua performance di shooter tappabuchi. Il ritmo è elevatissimo, le inquadrature sono sempre piene zeppe di roba, le invenzioni visive si sprecano (e ce ne sono almeno un paio eccezionali) e spesso ci si sorprende a ridere di gusto. Avvio e finalissimo da applausi, parte centrale che equivale più o meno a una scena figa dietro l’altra. I critici più arcigni potranno attaccare quanto vogliono la presenza pesante di cliché, la ricerca del dialogo brillante a ogni costo e qualche scivolone ironico di troppo (tutti punti innegabili, riconducibili a tutta una serie di prodotti a budget medio/basso che vanno da Zombieland a KickAss), ma sappiate che sarebbe potuta andare molto, molto, molto peggio. Dopo tutto dentro ai 103 minuti di questa trasposizione c’è tanta di quella ciccia che il rischio del mattone retorico da tre ore non appare così remota. Per tornare a Peter Berg, tra ciò che sarebbe potuto essere e il risultato effettivo ci passa una differenza simile a quella che divide The Kingdom e Hancock. Nonostante il lungometraggio con Smith sia molto più divertente e frizzante del film di consumo medio , una volta conclusa la visione non ne rimane nulla se non un piacevole ricordo. L’action bellico con Foxx invece, pur partendo da una serie di luoghi comuni quasi letali, rimane impresso per foga e rigore. Un’opera che non ha nulla da dire, fatta unicamente di linguaggio fine a se stesso (e protesi di Mann, qui produttore). Eppure dotata di un’identità tosta e di un carisma impossibile da ignorare. Quello che manca a The Losers.
La trasposizione della serie Vertigo è un film trasparente ma dalle potenzialità infinite, come testimoniano i numerosi picchi a cui si va incontro durante la visione. Rimane un giocattolo molto piacevole e lontano da certe volgarità da multisala, ma sapere che avremmo potuto avere a che fare con un classico non può non far rimanere con l’amaro in bocca.
giovedì 3 giugno 2010
Tanto per ricordarmi che è uscito il disco nuovo...
Il Canada invade New York! (che non sappiate che i Cancer Bats siano canadesi ci può anche stare, ma se non capite di che band made in NY si sta parlando...)
Bonus: video nuovissimo (appunto) dei Cancer Bats e la mia canzone preferita dei ragazzacci dietro Aglio e Olio.
Bonus: video nuovissimo (appunto) dei Cancer Bats e la mia canzone preferita dei ragazzacci dietro Aglio e Olio.
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