mercoledì 28 aprile 2010

Mercato dell'arteeee....PRRRRRR (con tutto il cuore, dal vostro Banksy)

Che Banksy sia una personalità immensa ormai lo sanno tutti. Partendo da una street art aggressiva e militante, debitrice tanto di Blek Le Rat quanto del culture jamming di Ron English, il Nostro è arrivato al punto di poter sabotare dall’interno il sistema da lui criticato. Prima con le affissioni di finte opere all’interno del Louvre (concetto sviluppato poi nella performance Banksy vs Bristol Museum, orchestrata con la complicità dello stesso istituto), ora con il suo chiacchieratissimo esordio cinematografico. Negli scorsi mesi non c’è stato un sito/blog/forum dedicato al design (piuttosto che al coolhunting o alla creatività in genere) che non ne abbia parlato, generando un’attesa spasmodica nei confronti di quello che pare si stia svelando come ennesimo giocattolino dell’artista. Perché, a poca distanza delle varie premiere in giro per il mondo, Exit Through The Gift Shop comincia a sollevare più di qualche dubbio.



Il documentario parla dell’ascesa al successo di Mr. Brainwash, all’anagrafe Thierry Guetta, losangelino originario della Francia. Il soggetto in questione è passato in pochi anni dal filmare in maniera compulsiva i suoi artisti preferiti (Shepard Fairey, Space Invaders, lo stesso Banksy) a vendere le sue tele per 300.000 dollari l’una. Senza dimenticare mostre sold out a Los Angeles, cover artwork per Madonna (l’ultimo Celebration) e un megashow al Meatpacking District di New York. Per far capire il gigantismo della manifestazione basti sapere che si estendeva su 14.000 metri quadrati e che ai primi 300 visitatori era regalato uno schizzo originale. Sarebbe tutto meraviglioso, se non fosse che… Mr. Brainwash produce spazzatura. Banale da far schifo, tecnicamente incapace, stupido e vuoto. Perfetto per finire in un film che già dal titolo non si pone proprio come compiacente all’attuale sistema del mercato dell’arte. Un labirinto di specchi che non stupirebbe se ci rivelasse la notizia di un Banksy interprete (perché di Mr.Brainwash si conosce benissimo il volto, ma nulla sulla vita pre-L.A.) e non regista.



Una burla ben organizzata? Quasi sicuramente. Geniale? Un po’ meno. Perché i bolognesi 0100101110101101.ORG c’erano arrivati prima. Introduciamo un minimo la coppia di terroristi mediatici dietro al codice binario: balzano alle cronache per aver clonato e sostituito il sito del Vaticano. Passerà un anno prima che qualcuno si accorga che i testi sono stati modificati o sostituiti integralmente. Convincono poi il mondo che nei cinema stia per uscire il blockbuster eurocentrico United We Stand, composto unicamente da comunicati stampa, trailer e affissioni. Tramite installazioni pubbliche e una finta campagna pubblicitaria sollevano la città di Vienna contro la Nike. Bastò convincere la cittadinanza che la piazza Karlsplatz, acquistata dalla multinazionale, avrebbe cambiato il nome in Nikesplatz e avrebbe ospitato uno swoosh di dimensioni oltraggiose. Rilasciano un software attraverso cui chiunque può entrare nei loro pc personali, con la libertà di leggere mail e scartellare tra i file. Introducono il nome collettivo di Luther Blisset e diffondono il verbo dell’artista maledetto Darko Maver. Un simpatico sloveno uso a esprimersi attraverso la documentazione della vera morte, noto per aver disseminato nelle case abbandonate della ex Jugoslavia raccapriccianti manichini sfigurati dalla guerra e per i suoi feti indossabili.



Il pupillo dei due net.artists viene arrestato nel 1997 per crimini legati alla sua poetica, raccoglie subito il plauso e la solidarietà di tutti i salotti buoni. Manifestazioni, tributi, articoli. Tutto per qualcuno mai esistito. Una truffa studiata nei minimi dettagli, dove si era arrivati perfino a pubblicare finti testi di critica sul performer (compilati dalle stesse menti dietro l’intero progetto). Una grassa risata in faccia alla superficialità, alla faciloneria e al qualunquismo che genera un turbine di milioni di euro tramite il mercato dell’arte.



A conti fatti sono passati solo 13 anni da quella storica performance, eppure pare che nessuno abbia imparato nulla. Tranne Banksy, naturalmente.




lunedì 26 aprile 2010

Dalle banlieue alla Palestina: Born Free di Romain Gavras

M.I.A, Born Free from ROMAIN-GAVRAS on Vimeo.





Già il precedente Stress aveva sollevato il suo bel polverone, figuratevi cosa succederà ora con questo Born Free (arrivate agli ultimi, spietati, minuti), nuovo lavoro del francese Romain Gavras.



Jus†ice, Stress from ROMAIN-GAVRAS on Vimeo.

lunedì 19 aprile 2010

Roal Tenenbaum? Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson (Us/Uk/2009)




Esattamente come quando l’anno scorso ci siamo trovati davanti a Il Paese delle Creature Selvagge il dubbio rimane. Film per bambini con vette di assoluta profondità o vicende per adulti immerse in un immaginario totalmente devoto all’infanzia (alla faccia della Pixar)? Poco importa, perché sempre di opere straordinarie si tratta. Per come sono girate, scritte, dirette e immaginate. Troppo facile additare Spike Jonze e Wes Anderson come esempi di cinema furbetto, studiato a tavolino per piacere a un certo tipo di pubblico che farebbe di tutto per stare sul pezzo. Facile oltre che scorretto, perché innegabile che la storia di questo medium passi innegabilmente dalle loro traiettorie. Sono certo che tra vent’anni staremo invocando un riconversione
della filmografia e/o videografia di questi artisti in quello che sarà il supporto più diffuso. Se poi ci metteranno anche gli spot commerciali, tanto per farvi capire di che autorialità tentacolare e malleabile si sta parlando, non potrò che essere ancora più felice.



Tornando a Mr.Fox c’è poco da dire: 100 % Anderson. Ci sono i titoli in sovraimpressione (ma non con il solito font!), il tema della famiglia in contrapposizione alle spinte interiori, la solita truppa di interpreti, un uso magistrale delle musiche, umorismo agrodolce e tante cessioni al surreale. Tutto in una stop motion rozza ma sentita, che sicuramente avrà gonfiato il cuore (o fatto girare le palle) a Gondry. Niente 3D, inserzioni in CGI, carrellate o gru impossibili. A parte un (finto) piano sequenza da antologia, il maggior indugiare della regia è quello sui primissimi piani dei protagonisti. Come se fossero persone vere. Esiste testimonianza migliore dell’amore del Nostro per i suoi personaggi? Forse nelle ficcanti righe di dialogo (quando mai vi capiterà, se non in Mr.Fox, di vedere una volpe chiedere a un opossum come ha fatto a permettersi una carta di credito platino?), nelle movenze che di cartoonesco non hanno nulla, nei comportamenti immaturi e insopportabilmente infantili degli attori di questo straordinario teatrino.



Il fattore che eleva il tutto a un livello superiore rimangono però le minuscole cattiverie gratuite disseminate per tutta la durata del lungometraggio. Proprio come le Creature Selvagge di Jonze, anche i personaggi di Anderson (come noi) scadono in comportamenti meschini e animali, che si tratti degli attacchi d’ira di Carol o della foga con cui Mr. Fox azzanna galline o ringhia contro chi lo contraddice (tipo il suo avvocato!). E poi c’è Willem Dafoe che presta la propria voce a un ratto alcolizzato e pronto a dare della sgualdrina alla moglie del protagonista. La confusione tra il mondo bambino e quello adulto è sempre più accentuata, i confini svaniscono del tutto. Rimane solo una grande storia. Tratta, guarda caso, dallo scrittore che maggiormente ha saputo giocare sulla falsa discrepanza tra i piani della crescita.

venerdì 16 aprile 2010

Il cinema come fusione: Bangkok Adrenaline di Raimund Huber (Tha/2009)

Conoscete Gabriele Roberto? Compositore italiano di caratura imbarazzante (nel senso buono), non riusciva a trovare lavori in patria. Un bel giorno decide di emigrare e adesso si trova a fare la spola tra Giappone e Hong Kong, dove vince premi su premi musicando film che si sposano perfettamente alla sua poesia. Avete visto Merantau? Scritto e diretto dall’inglese Gareth Evans, altro personaggio che probabilmente ha finito per trovare in oriente tutto quello impossibile da rintracciare nel suo paese d'origine (a livello cinematografico). E adesso veniamo a Bangkok Adrenaline. Siete quattro amici: due atleti/coreografi, un regista con velleità da attore comico e un wrestler con la passione per la sceneggiatura. Volete scrivere, dirigere e interpretare il VOSTRO film d’azione. Senza volti noti, senza cessioni al CdA dello studio che produce, totalmente devoto all’old school (senza finire nel nostalgico). Che fate? Prendete un aereo e ve ne andate in Thailandia, tanto nella terra di Tony Jaa quella roba lì va via come il pane. Risultato: 83 minuti di goduria e libertà creativa totale. Coreografie clamorose, trovate spiazzanti, personaggi surreali e siparietti da commedia meno scemi di quello che uno possa pensare. I nostri quattro eroi riescono a mimetizzare da film senza pretese (quale effettivamente è Bangkok Adrenaline) un’opera che è la perfetta fusione tra occidente e oriente, tra generi e linguaggi. Prendetelo come un Born to Fight senza tutte quelle sfumature thai che ci facevano storcere il naso. O come un film prodotto da Luc Besson che sia veramente divertente. O un video di parkour con la trama. O, ancora meglio, fondete tutte queste cose assieme. Senza scene inserite a forza tanto per poterle mettere nel trailer, senza i soliti siparietti slapstick, senza far sguazzare i personaggi nella retorica (in questo caso doppio colpo gobbo: non abbiamo ne il supermacho US ne l’eterno ingenuo tipico delle produzioni orientali). Pare che la truppa conosca benissimo il genere e sappia perfettamente come muoversi nell’ambito. Ogni qualvolta l'atmosfera si fa tosta, la regia di Raimund Huber (che all’interno del film interpreta la spalla simpatica dei tre picchiatori) si fa invisibile e si adatta perfettamente al linguaggio del corpo. Si va dalla camera a mano alle lunghe riprese sulla distanza. La tecnica cambia in base a quello che la performance richiede. Un' intuizione non da poco, indispensabile per riportare il genere alle sue coordinate primigenie (non è un caso che il principale innovatore e ratificatore del cinema marziale, Liu Chia Liang, fosse stato prima di tutto atleta, poi coreografo e solo infine regista). A questo si unisce un senso per lo spettacolo e lo sberleffo indispensabili per rendere Bangkok Adrenaline il film frizzante e disimpegnato qual è. Se la barra della tamarraggine pare avvicinarsi troppo al limite tollerato, la sceneggiatura finisce per prendersi gioco di cliché e luoghi comuni. Nessun riferimento meta testuale (a parte un richiamo a Street Fighter da applausi), semplicemente un’ottima gestione di tempi e meccaniche della commedia. Ingrediente questo mutuato direttamente dall’action comedy di scuola Hong Konghese, ma riletto in chiave occidentale. Che è una cosa ben diversa da prendere Jackie Chan e metterlo in un blockbuster statunitense. Siamo arrivati veramente a un cinema della fusione, in un ambito in cui era riuscito a fare di meglio solo il Maestro Tsui Hark. Guarda caso con il film meno compreso della sua filmografia. E’ colpa di una mentalità retrograda e ottusa se da un autore chiamato ad aprire il Festival del Cinema di Venezia ci si aspettano solo capolavori d’essai. Tsui invece di questa cosa se ne è sempre sbattuto e ha preso l’occasione di una trasferta statunitense per girare Knock Off. Una regia tecnicamente inarrivabile per una sceneggiatura ben oltre il limite dell’idiozia, cortocircuito sublime dove il maestro del cinema orientale incontra il più outsider tra gli action heroes occidentali. Cinema-cinema, dove le immagini in movimento sono motore primo per sorprendere lo spettatore. Naturalmente Bangkok Adrenaline non arriva a queste vette, ma il combattimento con la protagonista nuda (di cui non si vede nulla “grazie” alla regia), quello sul tuk tuk, l’officina gestita da nani,… sono tutte gemme imperdibili. Sospese tra occidente e oriente, con un metodo produttivo che rifugge allo strapotere degli studios e sfrutta a pieno i lati positivi della globalizzazione. Per un film di arti marziali disseminato di gag comiche non mi pare poco.



P.S. Allego il trailer solo per dovere di cronaca. Ma sappiate che è uno dei montaggi più fuorvianti di sempre. Il film è tipo 3000 volte meglio.




mercoledì 14 aprile 2010

Super Street Fighter IV: Artist Series Campaign









E con questa campagna stampa Street Fighter si guadagna definitivamente il suo posticino nell'immaginario collettivo (non strettamente nerdico).

martedì 13 aprile 2010

L'arte di Nicholas Di Genova: WunderKammer n.1



Se, come me, considerate Nicholas Di Genova (non fermatevi alle tre jpg qui sopra, fidatevi) uno dei più grandi urban artist viventi sarete felici alla notizia che il Nostro beniamino ha un nuovo volume in uscita. Koyama Press dedica infatti al canadese la minizine WunderKammer (non il primo numero, proprio TUTTA la serie). A dire il vero nulla di speciale, fatevi piuttosto un favore e procuratevi il monografico a cura di Belio Magazine. Formato inusuale, copertina in PVC, stampa a colori su carta bella spessa. E l'immensa arte di Nicholas.

lunedì 12 aprile 2010

Come Glee ma meglio (e anche prima): Waterboys di Shinobu Yaguchi (Jap/2001)




Prendo spunto dalla recente conclusione della prima serie di Glee per parlare di un film passato a torto inosservato agli occhi della platea occidentale. Cosa ancora più ingiusta se si considera il fatto che questa pluripremiata commedia a opera di Shinobu Yaguchi rappresenta in tutto e per tutto un prototipo a cui Ryan Murphy (già dietro a Nip/Tuck) pare essersi ispirato per la sua nuova produzione (anche se lui non lo ammetterà mai). Anche in questo caso abbiamo un liceo di provincia, un club scolastico non esattamente ambito (il nuoto sincronizzato) e una serie di personaggi costruiti attorno alla figura del perdente. Stessi ingredienti per un risultato che non potrebbe essere più diverso. Perché, nonostante una scrittura intelligente e una regia raffinatissima, la serie statunitense non riesce in maniera soddisfacente a costruire
empatia con il fuoricasta adolescenziale. Anche puntando su di una firma mai moralista o retorica come quella del produttore/sceneggiatore Murphy, di cui abbiamo già avuto modo di testare la capacità di giocare su limiti e luoghi comuni.



Partiamo analizzando il set: in Glee la provincia è il MALE, il posto dove andarsene a ogni costo se non si vuole rimanere limitati per tutta la vita. In Waterboys, come in una lunghissima serie di produzioni nipponiche (basti vedere cosa riesce a fare Miike in DOA2 o Miyazaki in ¾ della sua filmografia), l’ambiente rurale si tinge di tenera nostalgia. Colori caldi, il fruscio dei grilli, l’estate perenne e l’umidità ad appestare l’aria. Al dinamismo di un grande metropoli si preferisce la dolce stasi del piccolo centro. Nello spazio dei 90 minuti della pellicola si riescono a lasciare in disparte competitività e bassezze della rat race quotidiana. Non ci si sente perdenti, semplicemente si evita di gareggiare. Almeno fino a quando non riprenderà la scuola. Allora ci si dovrà iscrivere all’università e le cose cambieranno per sempre.



Le motivazioni: in Glee ci si deve impegnare per vincere le nazionali, in Waterboys si passano le giornate in acqua perché… perché… a dire il vero non viene mai spiegato. A parte un abbozzo di motivazione iniziale (riconducibile al sempiterno motore di ogni scelta legata all’adolescenza [la figa]), utile più a fini narrativi che altro, pare che l’unica spinta sia data dal divertimento. Motore che permetterà ai cinque sfigati protagonisti di conquistare il rispetto di tutto il loro istituto maschile (che passa dal deriderli a iscriversi in massa al club) e il cuore del vicino liceo femminile. Mesi di sgangherati (ed esilaranti) allenamenti sopportati in prospettiva di un’unica esibizione all’open day scolastico, ultimo stage prima dell’età adulta. Il risultato è un trionfo naif, dove alla perizia tecnica si sopperisce con umorismo e fantasia. Come premio un boato, plebiscito popolare che vale più di ogni trofeo o podio. Non si ambisce a nulla, se non alla mancanza di rimpianti.



Se nel serial statunitense il primo supporter del Glee Club è un professore bello ed appassionato, capace di sposare il capitano delle cheerleader nonostante la sua militanza nello stesso circolo che da il titolo alla fiction, in Waterboys i primi fan li si trova in un gruppo di transessuali. Empatia tra fuoricasta. Quella dei nostri ragazzi acquatici non è una guerra contro il mondo, non si punta alla rivalsa sociale. Se si volesse cercare qualcosa di simile nel cinema a stelle e strisce si dovrebbe tornare ai tempi di uno spilungone munito di moon boot, pronto a buttarsi in uno scatenato ballo sulle note di Jamiroquai solo per favorire l’elezione studentesca di un immigrato messicano. Anche in quel caso il risultato non avrà influenze sullo scorrere della vita, ma il non buttarsi sarebbe stato un boccone troppo amaro per chiunque.



La vera differenza tra i due prodotti analizzati è la presenza, massiccia e inequivocabile, di un sottofondo duro e realista nell’ apparente leggerezza di Waterboys. La spensieratezza degli ultimi anni di scuola come antidoto al grigiore della vita adulta. Elemento paradossalmente riscontrabile nell’opera proprio per assenza dello stesso, un po’ come l’artista Christo che nasconde enormi monumenti per toglierceli dalla vista e farceli riscoprire. L’opera di Yaguchi non si permetterebbe mai la presunzione di un Glee, dove il canto è l’antidoto alle durezze della vita. Piuttosto ci riporta, per poco meno di un’ora e mezza, a un periodo della nostra vita dove eravamo troppo impegnati a fare altro per pensarci.




mercoledì 7 aprile 2010

The Dillinger Escape Plan - Option Paralysis (Party Smasher Inc./2010)

All’epoca di Calculating Infinity il pubblico si divise: chi intuiva la rivoluzione che sarebbero stati i Dillinger Escape Plan e chi li etichettava come semplici virtuosi dediti al caos più gratuito, in questo caso una miscela urticante di freejazz, grind e postHC. Il tempo, neanche a dirlo, diede ragione ai primi. Dopo cinque anni di tour, cambi di lineup e sperimentazioni continue arrivò Miss Machine. Anche qui il giudizio fu agli antipodi e anche qui lo scorrere delle stagioni andò a rafforzare il partito degli entusiasti. Quelle che all’epoca sembrarono cessioni al pop ebbero bisogno di qualche anno per essere viste sotto la giusta prospettiva, così come l’abbandono di una registrazione chirurgica a favore di suoni impastatati e confusionari. Miss Machine era semplicemente troppo colto, intelligente e avanguardistico per essere capito subito. Anno di grazia 2007: arriva Ire Works. Ai primi ascolti, tanto per cambiare, il disco scontenta. L’uso dell’elettronica si fa massiccio, le intrusioni nel mainstream si fanno quasi preponderanti sul lato estremo e spesso si ha l’impressione che le reali idee si siano esaurite. Passano gli anni e le opinioni cambiano, le canzoni più belle dell’ultimo (all’epoca) lavoro dei Dillinger sono quelle più accessibili e ogni volta che lo si ascolta si scopre qualcosa di nuovo. Semplicemente Ben, Greg e soci hanno imparato a mettere le canzoni davanti al loro ego, così mentre il resto della scena estrema pare capace di giocare solo al rialzo loro stanno già pensando ad altro. Il risultato è un disco di musica elettronica suonato con gli strumenti da rock band, mentre il falsetto di Puciato sbatte in faccia a tutti quanto poco importi al quintetto del New Jersey della scena postcore. Registrazione e concept (che porta a uno degli artwork più strepitosi di sempre) ultramoderno fanno il resto. Oggi esce Option Paralysis. In mezzo sono passati un contratto stracciato con la Sony, il licenziamento del miglior batterista della storia dei DEP (mi spiace per i fanatici, ma Chris Pennie non vale la metà di Gil Sharone), una miriade di collaborazioni, la nascita dell’etichetta personale dei Nostri (la Party Smasher Inc, distribuita dalla Season of Mist per lo spazio di un solo disco). Una serie di esperienze che non hanno portato alla rivoluzione, ma alla maturazione. Quella di Option Paralysis è una band conscia di aver intrapreso una strada troppo personale per essere capita. Abbandonati i toni gelidi del precedente lavoro ci si ricomincia ad avvicinare a una concezione umana di produzione, mentre la melodia da pop band entra definitivamente a far parte dell’alchimia. Linee troppo cristalline per non entrare subito in testa, eppure impossibili da assimilare e metabolizzare. Che si tratti di un break furioso o di una ballad per pianoforte. Tutto alternato alle sezioni più fisiche e “dritte in faccia” che i Nostri abbiano mai messo più disco. E così i blast beat si fanno più comprensibili (anche se mai cosi veloci) e il riffing si riesce perfino a seguire. La contaminazione diventa fusione, eliminando del tutto la concezione di musica a blocchetti che tanto aveva minato il successo di band comunque grandiose come i Candiria. Non c’è più spazio per la schizofrenia pornografica di una 43% Burnt, i Dillinger sono diventati grandi e non hanno più bisogno di provocazioni. A distanza di qualche settimana dall’uscita il disco non ha ancora una dimensione precisa, la carne al fuoco è troppa per essere analizzata in così poco tempo. E’ certo che in Option Paralysys si trovino alcune tra le migliori CANZONI composte e suonate da questi geni, ma è presto per poterle contestualizzare in una produzione a cinque stelle come quella a cui ci siamo abituati da Under a Running Board in avanti. Il tempo darà ragione ai Nostri, capaci quattro volte su quattro di consegnarci un lavoro capace di invecchiare benissimo. Quante altre band conoscete capaci di tanto?

martedì 6 aprile 2010

[kickass movie] C'è bisogno di ignoranza: Bullets, Blood & a Fistful of Ca$h di Sam Akina (Us/2006)




Per quanto Bullets, Blood & a Fistful of Ca$h sia un film minuscolo, evitabile e poverissimo sarebbe ingiusto non riconoscerne le capacità di formidabile cartina tornasole. In un’epoca in cui siamo sospesi tra gli ultimi strascichi di un’ironia auto indulgente e giustificatoria (anche se a tratti gustosa) e una violenza del corpo come forma di intrattenimento ultimo (dalla pornografia all’action estremo di Crank o John Rambo) è sempre utile avere tra le mani un 'opera capace, anche involontariamente, di chiarirci un minimo le idee.



Partendo da un canovaccio classicissimo come può essere la vendetta dell’ex galeotto tradito dai suoi stessi compagni (sul genere consiglio lo spaghetti western Da Uomo A Uomo di Giulio Petroni) il regista/scrittore/montatore Sam Akina costruisce un bmovie a suo modo perfetto nell’alternare picchi di genialità e tonfi clamorosi. In particolare i primi 30/40 minuti sono un totale disastro: schitarrate mariachi, introduzione di un miliardo di personaggi con tanto di cartello a indicarne il nome, ricerca spasmodica dell’esagerazione e troppo metalinguaggio. Si cerca di far ridere sfruttando un armamentario che ha esaurito le sue cartucce da almeno 4/5 anni, ma di cui se ne avevano sinceramente piene le tasche fin dai tempi dell’abbuffata dei ’90. Tornando al film, dopo un avvio simile è dura non essere sfiduciati. Ed è un peccato, perché da qui in avanti si ha come l’impressione che il buon Sam, finite tutte le sue trovatine simpatiche, si sia trovato a dirigere un film serio. O meglio, talmente serio da essere divertente.



Nulla per cui strapparsi i capelli, sia chiaro, ma i restanti 60 minuti di Bullets, Blood & a Fistful of Ca$h sono costellati di frammenti di un’ignoranza talmente pura, cristallina e innocente da far guadagnare punti a tutto il lungometraggio. Linee di dialogo da troglodita, fucilate in pieno volto, un eroe impossibile da abbattere e un finale talmente delirante e ultraviolento da non crederci. Tutto immerso in una fotografia povera e smorta, in un numero minimo di ambienti (immancabile la sparatoria finale ambientata in un magazzino abbandonato) e con un cast di attori da avanspettacolo. Non è amore radical chic per il trash o per il poverismo da scimmia in gabbia, è voglia di prodotti concreti e palpabili, dove si ha l’impressione di vedere al volo tutto quello che c’è da vedere. L’essenza del kickass movie non la si può trovare nell’evoluzione digitale, nell’esagerazione da lunapark, nel montaggio o nella fotografia da videoclip. Vedere una faccia autenticamente da criminale come quella di Tom Doty sputare un elementare/scontato/inutile “I’m back, muthafukers” prima di scaricare a distanza zero il suo fucile a pompa nel ventre di uno dei suoi antagonisti riconduce a una certa concezione di genere primitiva e istintiva, dove ogni cosa è lì per suscitare un solo tipo di reazione. Talmente intensa da strappare un sorriso.



In un noto saggio/intervista di Ennio Morricone il Maestro si diceva contrario a quanti componessero musica da film cercando di amplificare l’apporto emotivo del girato attraverso l'empatia. Secondo il compositore romano a una scena dura va sovrapposta una musica dolce (vi ricorda nulla il melodioso suono di un carillon?) e così via. Ragionamento perfetto, da una leggenda vivente non mi aspetto nulla di meno. Dopotutto due quarti del fascino di Cannibal Holocaust derivano proprio dallo stridere dei contenuti con l’angelica melodia composta da Riz Ortolani. La grandezza del bmovie invece sta nell’opposto, nello sfruttare ogni mezzo per suscitare nello spettatore vampate emotive. Unica via per mistificare l’assenza di un budget decente. E se prima lo si poteva fare scherzandoci sopra, ora è tempo di annichilire lo spettatore. A calci nel culo.




giovedì 1 aprile 2010

La coercizione non è mai stata così patinata: The Housemaid di Im Sang-soo





Avevo promesso di postare di meno, ma alla notizia di un remake di The Housemaid l'eccezione è dovuta. Uno dei film più perfidi e scorretti di sempre, autentico tomo antropologico sui rapporti tra vittima e carnefice, riletto in chiave moderna. Patinatissimo, gelido, quasi plasticoso. Se avete visto il film originale non potete non capire quanto tutto questo sia perfetto.



Siccome non ho idea se il trailer si veda o meno, vi linko anche la pagna originale.