Prendo spunto dalla recente conclusione della prima serie di Glee per parlare di un film passato a torto inosservato agli occhi della platea occidentale. Cosa ancora più ingiusta se si considera il fatto che questa pluripremiata commedia a opera di Shinobu Yaguchi rappresenta in tutto e per tutto un prototipo a cui Ryan Murphy (già dietro a Nip/Tuck) pare essersi ispirato per la sua nuova produzione (anche se lui non lo ammetterà mai). Anche in questo caso abbiamo un liceo di provincia, un club scolastico non esattamente ambito (il nuoto sincronizzato) e una serie di personaggi costruiti attorno alla figura del perdente. Stessi ingredienti per un risultato che non potrebbe essere più diverso. Perché, nonostante una scrittura intelligente e una regia raffinatissima, la serie statunitense non riesce in maniera soddisfacente a costruire empatia con il fuoricasta adolescenziale. Anche puntando su di una firma mai moralista o retorica come quella del produttore/sceneggiatore Murphy, di cui abbiamo già avuto modo di testare la capacità di giocare su limiti e luoghi comuni.
Partiamo analizzando il set: in Glee la provincia è il MALE, il posto dove andarsene a ogni costo se non si vuole rimanere limitati per tutta la vita. In Waterboys, come in una lunghissima serie di produzioni nipponiche (basti vedere cosa riesce a fare Miike in DOA2 o Miyazaki in ¾ della sua filmografia), l’ambiente rurale si tinge di tenera nostalgia. Colori caldi, il fruscio dei grilli, l’estate perenne e l’umidità ad appestare l’aria. Al dinamismo di un grande metropoli si preferisce la dolce stasi del piccolo centro. Nello spazio dei 90 minuti della pellicola si riescono a lasciare in disparte competitività e bassezze della rat race quotidiana. Non ci si sente perdenti, semplicemente si evita di gareggiare. Almeno fino a quando non riprenderà la scuola. Allora ci si dovrà iscrivere all’università e le cose cambieranno per sempre.
Le motivazioni: in Glee ci si deve impegnare per vincere le nazionali, in Waterboys si passano le giornate in acqua perché… perché… a dire il vero non viene mai spiegato. A parte un abbozzo di motivazione iniziale (riconducibile al sempiterno motore di ogni scelta legata all’adolescenza [la figa]), utile più a fini narrativi che altro, pare che l’unica spinta sia data dal divertimento. Motore che permetterà ai cinque sfigati protagonisti di conquistare il rispetto di tutto il loro istituto maschile (che passa dal deriderli a iscriversi in massa al club) e il cuore del vicino liceo femminile. Mesi di sgangherati (ed esilaranti) allenamenti sopportati in prospettiva di un’unica esibizione all’open day scolastico, ultimo stage prima dell’età adulta. Il risultato è un trionfo naif, dove alla perizia tecnica si sopperisce con umorismo e fantasia. Come premio un boato, plebiscito popolare che vale più di ogni trofeo o podio. Non si ambisce a nulla, se non alla mancanza di rimpianti.
Se nel serial statunitense il primo supporter del Glee Club è un professore bello ed appassionato, capace di sposare il capitano delle cheerleader nonostante la sua militanza nello stesso circolo che da il titolo alla fiction, in Waterboys i primi fan li si trova in un gruppo di transessuali. Empatia tra fuoricasta. Quella dei nostri ragazzi acquatici non è una guerra contro il mondo, non si punta alla rivalsa sociale. Se si volesse cercare qualcosa di simile nel cinema a stelle e strisce si dovrebbe tornare ai tempi di uno spilungone munito di moon boot, pronto a buttarsi in uno scatenato ballo sulle note di Jamiroquai solo per favorire l’elezione studentesca di un immigrato messicano. Anche in quel caso il risultato non avrà influenze sullo scorrere della vita, ma il non buttarsi sarebbe stato un boccone troppo amaro per chiunque.
La vera differenza tra i due prodotti analizzati è la presenza, massiccia e inequivocabile, di un sottofondo duro e realista nell’ apparente leggerezza di Waterboys. La spensieratezza degli ultimi anni di scuola come antidoto al grigiore della vita adulta. Elemento paradossalmente riscontrabile nell’opera proprio per assenza dello stesso, un po’ come l’artista Christo che nasconde enormi monumenti per toglierceli dalla vista e farceli riscoprire. L’opera di Yaguchi non si permetterebbe mai la presunzione di un Glee, dove il canto è l’antidoto alle durezze della vita. Piuttosto ci riporta, per poco meno di un’ora e mezza, a un periodo della nostra vita dove eravamo troppo impegnati a fare altro per pensarci.
1 commento:
L'improbabile sensei di Waterboy è geniale, degno del maestro Myagi.
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