Silverfish non è un capolavoro. E neppure un must have per il fumettofilo più generalista, per essere sinceri. Eppure, nonostante questo, riesce comunque a essere meglio di tutto quello che il cinema US ci ha proposto in fatto di teen slasher negli ultimi 10 anni.
Gli ingredienti ci sono tutti: adolescenti, misteri, assassini seriali e sparute tracce di conflitto generazionale. Ogni parola in più sarebbe in bilico tra lo spoiler che non ti aspetti e l’informazione già nota, in una ragnatela di riferimenti più o meno espliciti che David Lapham tesse con consumata abilità (dopo tutto è l’uomo che ci ha donato Stray Bullets!).
Silverfish rimane a tutti gli effetti un'opera di forma, dimenticandosi di approfondire il contenuto a favore di uno studio maniacale del linguaggio genere. Il risultato è un So Cosa Hai Fatto su carta, ma molto più avvincente, ritmato e cattivo della controparte a 24 fotogrammi al secondo. Un’ autentica sceneggiatura disegnata che batte di gran lunga tutte quelle che hanno raggiunto la celluloide da Scream a oggi. Colpisce come ancora una volta la narrativa “bassa” (o legata a un medium “basso”) riesca dove linguaggi considerati alti, in questo caso perdenti anche sullo stesso campo da gioco (perché Silverfish non ha nessun aspetto legato in maniera esplicita al fumetto), falliscono.
La rilettura di un filone narrativo fin troppo codificato non è certo un compito alla portata di tutti, ma Lapham dimostra di saper maneggiare la materia fluida di cui è composto il nostro immaginario collettivo. Contando unicamente su dialoghi frizzanti, filosofie ben definite e un montaggio che concede al cliffhanger l’importanza che gli spetta.
Che Kevin Williamson e compagnia cerchino di fare lo stesso.
Gli ingredienti ci sono tutti: adolescenti, misteri, assassini seriali e sparute tracce di conflitto generazionale. Ogni parola in più sarebbe in bilico tra lo spoiler che non ti aspetti e l’informazione già nota, in una ragnatela di riferimenti più o meno espliciti che David Lapham tesse con consumata abilità (dopo tutto è l’uomo che ci ha donato Stray Bullets!).
Silverfish rimane a tutti gli effetti un'opera di forma, dimenticandosi di approfondire il contenuto a favore di uno studio maniacale del linguaggio genere. Il risultato è un So Cosa Hai Fatto su carta, ma molto più avvincente, ritmato e cattivo della controparte a 24 fotogrammi al secondo. Un’ autentica sceneggiatura disegnata che batte di gran lunga tutte quelle che hanno raggiunto la celluloide da Scream a oggi. Colpisce come ancora una volta la narrativa “bassa” (o legata a un medium “basso”) riesca dove linguaggi considerati alti, in questo caso perdenti anche sullo stesso campo da gioco (perché Silverfish non ha nessun aspetto legato in maniera esplicita al fumetto), falliscono.
La rilettura di un filone narrativo fin troppo codificato non è certo un compito alla portata di tutti, ma Lapham dimostra di saper maneggiare la materia fluida di cui è composto il nostro immaginario collettivo. Contando unicamente su dialoghi frizzanti, filosofie ben definite e un montaggio che concede al cliffhanger l’importanza che gli spetta.
Che Kevin Williamson e compagnia cerchino di fare lo stesso.
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