Romero deve essere un folle totale. Perché solo un folle sarebbe capace di dare in pasto a un pubblico di autentici rompicoglioni (come solo nerd e bloggers possono essere) un’opera che fa della mediocrità e dell’errore il suo punto di forza. Diary of the dead non è un film di zombie (ma quale dei film di Romero lo è stato?) visto dagli occhi di un videoamatore, non è un horror e non è neppure una sperimentazione sui nuovi linguaggi della comunicazione. Diary of the dead è semplicemente iperrealtà.
Secondo Jean Baudrillard sia ha l’iperrealtà dal momento in cui il non si riesce più a distinguere la rappresentazione dal rappresentato, la simulazione dall’originale. E questo è esattamente ciò che succede nel nuovo capitolo dell’opera Romeriana: per tutti i 90 minuti della visione assistiamo a immagini che dovrebbero essere spacciate per vere e grezze, ma in realtà sono fotografate, montate e musicate come un film horror di serie b. Una scelta suicida ma consapevole, come testimoniano alcune soluzioni troppo grottesche (il motivetto sudista che accompagna l’uscita di scena della ragazza texana) per essere frutto del caso. Nel contempo testimonianze di autentiche disgrazie e sciagure (materiale di repertorio, nulla è ricreato ad hoc per l’occasione) sono utilizzate per narrare il dilagare fittizio dell’epidemia. Ma se i frammenti che dovevano sembrare veri si palesano come finti e quelli indiscutibilmente veri danno l’impressione anch'essi di essere slegati dalla realtà, cosa si può definire reale all'interno di una finzione? E nel reale stesso?
Riflessione che culmina nella scena capolavoro, autentico colpo di genio che permette di assumere il giusto punto di vista e di decodificare una lunga serie di scelte a dir poco anticonvenzionali. All’inizio del lungometraggio assistiamo alle riprese di un film horror a basso budget da parte di un gruppo di studenti universitari (i protagonisti del film). Durante la lavorazione il nervosismo spinge i ragazzi ad accese discussioni su cosa possa essere credibile o meno all’interno di tale cornice, arrivando a deridere molti dei luoghi comuni rintracciabili all’interno di questo tipo di cinematografia. In chiusura di Diary of the dead abbiamo invece la stessa scena ma “reale” (reale dentro un film che si dovrebbe spacciare come finto documentario, e quindi come finta cronaca, per definizione narrazione di un fatto realmente successo), con un “vero” zombi a rimpiazzare un ragazzo travestito e “veri” fiotti di sangue. Con enorme sorpresa gli studenti realizzeranno che tutta una serie di cliché (la fanciulla che scappando dal mostro fatalmente si inciampa, la camicetta strappata,…), così impossibili da riprodurre in un contesto finzionale senza apparire ridicoli, nella “realtà” funzionano invece estremamente bene. Ma a questo punto noi, spettatori di entrambi i film, a cosa stiamo assistendo?
Probabilmente ciò che vediamo è vero, perché se lo vediamo attraverso l’occhio della telecamera (e ragioniamo attraverso le riflessioni di Baudrillard) non abbiamo a che fare con una rappresentazione ma con il rappresentato stesso. Gli stessi protagonisti sembrano rendersi conto di quello che succede solamente dopo averlo visto attraverso l’obiettivo, non credendo ai loro occhi (non si rendono conto di avere investito degli zombi deambulanti) ma prendendo per oro colato tutto quello che arriva attraverso qualsiasi mezzo digitale (incominciano a credere ai morti che camminano dopo aver visto un filmato caricato su YouTube da una ragazza di Tokyo).
Diary of the dead non è un film mediocre, è una riflessione eccellente che deve travestirsi da film mediocre per essere credibile e percepibile. Dopo le didascalie di Land of the dead Romero pare essersi ricordato come fare politica.
Secondo Jean Baudrillard sia ha l’iperrealtà dal momento in cui il non si riesce più a distinguere la rappresentazione dal rappresentato, la simulazione dall’originale. E questo è esattamente ciò che succede nel nuovo capitolo dell’opera Romeriana: per tutti i 90 minuti della visione assistiamo a immagini che dovrebbero essere spacciate per vere e grezze, ma in realtà sono fotografate, montate e musicate come un film horror di serie b. Una scelta suicida ma consapevole, come testimoniano alcune soluzioni troppo grottesche (il motivetto sudista che accompagna l’uscita di scena della ragazza texana) per essere frutto del caso. Nel contempo testimonianze di autentiche disgrazie e sciagure (materiale di repertorio, nulla è ricreato ad hoc per l’occasione) sono utilizzate per narrare il dilagare fittizio dell’epidemia. Ma se i frammenti che dovevano sembrare veri si palesano come finti e quelli indiscutibilmente veri danno l’impressione anch'essi di essere slegati dalla realtà, cosa si può definire reale all'interno di una finzione? E nel reale stesso?
Riflessione che culmina nella scena capolavoro, autentico colpo di genio che permette di assumere il giusto punto di vista e di decodificare una lunga serie di scelte a dir poco anticonvenzionali. All’inizio del lungometraggio assistiamo alle riprese di un film horror a basso budget da parte di un gruppo di studenti universitari (i protagonisti del film). Durante la lavorazione il nervosismo spinge i ragazzi ad accese discussioni su cosa possa essere credibile o meno all’interno di tale cornice, arrivando a deridere molti dei luoghi comuni rintracciabili all’interno di questo tipo di cinematografia. In chiusura di Diary of the dead abbiamo invece la stessa scena ma “reale” (reale dentro un film che si dovrebbe spacciare come finto documentario, e quindi come finta cronaca, per definizione narrazione di un fatto realmente successo), con un “vero” zombi a rimpiazzare un ragazzo travestito e “veri” fiotti di sangue. Con enorme sorpresa gli studenti realizzeranno che tutta una serie di cliché (la fanciulla che scappando dal mostro fatalmente si inciampa, la camicetta strappata,…), così impossibili da riprodurre in un contesto finzionale senza apparire ridicoli, nella “realtà” funzionano invece estremamente bene. Ma a questo punto noi, spettatori di entrambi i film, a cosa stiamo assistendo?
Probabilmente ciò che vediamo è vero, perché se lo vediamo attraverso l’occhio della telecamera (e ragioniamo attraverso le riflessioni di Baudrillard) non abbiamo a che fare con una rappresentazione ma con il rappresentato stesso. Gli stessi protagonisti sembrano rendersi conto di quello che succede solamente dopo averlo visto attraverso l’obiettivo, non credendo ai loro occhi (non si rendono conto di avere investito degli zombi deambulanti) ma prendendo per oro colato tutto quello che arriva attraverso qualsiasi mezzo digitale (incominciano a credere ai morti che camminano dopo aver visto un filmato caricato su YouTube da una ragazza di Tokyo).
Diary of the dead non è un film mediocre, è una riflessione eccellente che deve travestirsi da film mediocre per essere credibile e percepibile. Dopo le didascalie di Land of the dead Romero pare essersi ricordato come fare politica.
2 commenti:
D'accordo con te (si vede dal mio avatar?:p)
A prima visione mi vien quasi da sussurrare che questo sia un film epocale, però me lo tengo per me, almeno fino alla prossima visione, magari in italiano :)
Saluti
Contentissimo che tu condivida la mia visione di questo film enorme! E lo dico da non fanatico di Romero (anzi!)...
Posta un commento