Avevo deciso di recuperare il macedone Goodbye 20th Century ai tempi del primo Bizzarro Magazine (quello dedicato al post-apocalittico), dove veniva etichettato come il film più in linea con il titolo della rivista fra tutti i 100 recensiti nel dizionario fondamentale. Concedetemi una piccola variante autobiografica, indispensabile a chiarire la prospettiva in cui ho scritto questa recensione: ho sempre adorato il post-atomico, soprattutto nelle sue varianti più povere. Quelle dove solitamente si cerca di distrarre lo spettatore dalla palese insufficienza dei mezzi infilandoci – paradossalmente – più roba possibile. Per capire come questo stratagemma funzioni alla perfezione basterebbe vedersi, senza i paraocchi imposti dall’offensivo paradigma “tanto brutto da essere bello”, 2019 Dopo la caduta di New York di Sergio Martino. Prodotto con un budget irrisorio, riesce comunque a guadagnarsi un posticino nella storia della sci-fi grazie al ritmo folle e alla densità di trovate sghembe e fuori posto (oltre per i furti ai grandi titoli di questa bistrattata cinematografia) che ne caratterizzano tutto il metraggio. Chiarito il mio approccio alla materia, passiamo all’analisi di questo tesoro nascosto.
A grandi linee esistono due tipi di “bizzarro” consapevole. Una variante più divertita, che potrebbe essere quella dello strepitoso Slave Girls from Beyond Infinity o del mio adorato Radioactive Dreams, e una più seria, con mire più alte rispetto al puro disimpegno. Nume tutelare e autentica star di questo filone è l’arcinoto David Lynch, ormai ridotto più ad aggettivo da usare a sproposito che a cineasta. Naturalmente si potrebbero tirare in ballo anche i vari Kenneth Anger o Guy Maddin, però chissà perché si finisce sempre a parlare dell’uomo dietro Eraserhead e Velluto Blu. In qualunque caso Goodbye 20th Century fa assolutamente parte di questa seconda categoria, nonostante i (o forse proprio grazie ai) numerosi siparietti grottescamente umoristici che lo punteggiano. Diviso in due sezioni (una post-apocalittica e una immediatamente pre-) quello di Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski è un tour de force lisergico che lascerà a terra (pur nella sua breve durata) un sacco di vittime. Tra personaggi apparentemente immortali (il barbiere – presente in entrambi i segmenti oltre che in un flashback di inizio secolo) e altri che lo sono veramente, geniali trovate registiche (vedi una sorta di Joker che si muove generando una serie di suoni da cartone animato), attacchi sensoriali stordenti, una trama praticamente incomprensibile, furti alle colonne sonore di film più noti (il tema di Ghost in the Shell, ma sono sicuro di aver sentito anche qualcosa di Akira) e un’innegabile eleganza formale, abbiamo tra le mani un film meritevole di una visione da parte di chiunque sia alla ricerca delle deviazioni più folli della cultura pop (perché sempre di quello si parla).
Se si fosse limitato a portare avanti il discorso iniziato nel primo tempo Goodbye 20th Century non sarebbe così lontano dal concetto di capolavoro come ci si aspetterebbe. Dotato di un’iconografia potente e immortalato con un linguaggio che pare rifarsi direttamente ai primissimi wuxia di Wong Kar Wai (regia sinuosa, scenari desertici e polverosi, un sacco di fumo blu durante le riprese notturne), costruisce nel giro di una quarantina di minuti un universo credibile e capace di contenere un sacco di storie. I registi si concentrano sul dramma di un uomo che non può più morire in seguito a un rapporto carnale con un'entità metafisica (resa da un’icona ortodossa lacrimante sangue). A un punto di partenza così alto si decide poi di innestare uno sviluppo più in linea con il genere – sparatorie in capannoni abbandonati – con sviluppi strappati di peso dal western crepuscolare. Insomma, una bomba. Peccato che con il secondo tempo, nel descrivere la nostra società nella follia dell’immediata pre-apocalisse, si decida di spingere troppo sul farsesco andando parzialmente fuori tema. Si rimane comunque basiti per quello che si vede – una surreale veglia funebre – ma è più una visione dall’esterno rispetto all'immersione dei primi minuti dell'opera. Si è più che altro curiosi di vedere dove andranno a parare i registi. Se siete amanti dell'assurdo più spinto qui troverete pane per i vostri denti, mentre tutti gli altri non potranno che rimane perplessi.
In conclusione vale la pena di vedersi gli 82 minuti di delirio partoriti da Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski? La risposta è assolutamente sì. In primis per potervi vantare di aver visto un post-atomico macedone a budget zero con mire altissime (importantissimo, non c’è la minima traccia di ironia autoreferenziale. E le risate strappate allo spettatore hanno tutte un sapore grottesco e spesso sgradevole), in secondo luogo perché abbiamo a che fare con qualcosa di assolutamente diverso e fuori dai canoni. In un’epoca di omologazione e riciclo infinito del passato ogni tentativo di diversificazione andrebbe premiato a prescindere, soprattutto se realizzato con l'ambizione di questo stortissimo lungometraggio. G20C potrà non piacervi – nulla di più facile – ma perlomeno vi farà provare la sensazione di aver visto qualcosa di unico.
1 commento:
Io ho adorato da morire anche la seconda parte, un "Ultimo Capodanno" in acido, ipergrottesco e iperdeformante. GB20C è una sorta di grindhouse dei pazzi: con un biglietto vedi due "mezzi" film improponibili. Ed è anche questo a rendere il tutto ancora più sbilenco e "a parte". A fine visione mi è rimasto in testa tanto il deserto apocalittico in salsa jodorowskyana che il faccione sfatto del babbo natale con la sua claustrofobica casetta stipata di gente fuori di testa.
Una prelibatezza!
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