lunedì 5 marzo 2012

Poteva andare meglio: Venom di Remender e Moore



Che Rick Remender non sia l’erede di Grant Morrison lo sappiamo tutti. Eppure sono in moltissimi (me compreso) ad amare questo scrittore in costante ascesa (si parla di uno che ha esordito disegnando le copertine per i Lagwagon). Magari non dotato di uno spessore da autore impegnato (appunto) eppure stoico nel suo stile energico, vivace e asciutto fino al midollo. Quando poi lo si mette a lavorare con il collega di lunga data Tony Moore non possiamo che aspettarci il meglio. Basti pensare a quei due piccoli gioielli di Fear Agent e Franken-Castle. Di sicuro non i titoli più culturalmente stimolanti a cui ci si possa riferire, eppure capaci di intrattenere mantenendo uno standard creativo altissimo. Fumetto che esiste solo per se stesso, sia chiaro, senza nessun legame con noi o il nostro momento storico. Quella che una volta si sarebbe definita evasione pura. Ed evidentemente la cosa non deve essere proprio così sgradita ai lettori, tanto da convincere gli editor della grande M ad affidare ai due il rilancio di Venom. Uno dei tanti personaggi Marvel a non aver mai vissuto il successo che merita (nonostante lo infilino ovunque).


Con un look da guerriglia urbana (bomba) e un nuovo ospite (lo sapete tutti chi è, un Flash Thompson reduce di guerra e costretto su una sedia a rotelle) la serie parte con il turbo. Scenari realistici, cospirazioni, vecchi antagonisti rimessi a lucido (con un Jack’O’Lantern da urlo, una delle cose migliori di Moore). Tutto sembra mettersi per il meglio. E invece no, perché Rick si concentra troppo sui particolari e perde di vista la direzione principale.


Alla base della serie abbiamo un’idea magnifica, la stessa della giustamente incensata Uncanny X-Force: occorrono eroi anche per i lavori sporchi (che è sottilmente diverso da quanto fatto invece con i Thuderbolts). Da qui le origini paramilitari del nuovo Venom, praticamente un one-man-army con abbonamento vitalizio per le black-ops più pericolose, con tanto di infarinatura da spy-story ad alto budget. Grandioso il parallelismo tra l’alcolismo di Flash e la sua dipendenza dall’alieno, il rapporto tormentato con il padre e la vagonata di sensi di colpa che questo antieroe pare destinato  a portarsi addosso per un sacco di tempo a venire. Remender si rende conto di avere a che fare con l’opera più stratificata tra quelle da lui gestite sotto major e ce la mette tutta per affastellare livelli su livelli, infilando una finezza dietro l’altra. Tra montaggi paralleli dal taglio decisamente melodrammatico e richiami impensabili (tra cui uno, clamoroso, all’attentato del Papa nel 1981). Insomma, se si guarda il particolare queste pagine valgono oro. Peccato che nell’insieme pare di essere su di una fuoriserie in folle. Tante finiture di pregio per rimanere fermi al primo stop.

Complice in questa brusca frenata qualitativa anche un Tony Moore neppure paragonabile al funambolo di Franken-Castle. Il suo tratto risulta più grossolano e meno pop rispetto al solito (con l’eccezione del già citato Jack e pochi altri guizzi), forse proprio anche per esigenze di sceneggiatura. A intervallarsi alle matite interviene Tom Fowler, perfetto nel dare continuità artistica e in alcuni casi (le fisionomie) anche meglio del disegnatore principale.


Forse è ancora troppo presto per rimanere delusi e, come ogni buona serie, anche questa potrebbe richiedere tempo per ingranare. Però i ponti gettati verso il domani sembrano troppo esili. I plot a lunga gittata latitano mentre ci si perde reiteratamente in numeri composti unicamente da risse e monologhi interiori. Così le intuizioni che potrebbero rendere questo fumetto qualcosa di grande finiscono per disperdersi tra tutto il resto della fuffa che esce ogni mese. Peccato.

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