Vista la densità della settimana appena passata, che si traduce con una totale assenza di tempo da dedicare a primizie di vario genere, prendo l’occasione per parlare di un’opera datata ma su cui poggia più cinema moderno di quello che pensiamo. A Touch of Zen è il primo film cinese (di Taiwan per la precisione) a concorrere per la Palma D’Oro a Cannes e uno dei pochissimi lungometraggi marziali a poter puntare a un risultato così alto, scardinando un sacco di convenzioni sulla divisione tra presunto alto e altrettanto presunto basso. La pellicola arriva nelle sale nel 1971, dopo due anni di lavorazione, e ancora oggi risulta di un modernismo abbagliante e francamente imbarazzante per buona parte delle produzioni contemporanee.
Si prenda a esempio il protagonista, agli antipodi di qualsiasi stereotipo diffuso all’epoca. Ku, un ragazzo colto ed educato, ancora in casa della madre seppur ben oltre la trentina. Nonostante la famiglia lo sproni alla carriera militare lui sogna di aprire una scuola e diffondere il sapere tra le nuove generazioni. King Hu ama le scelte difficili e ci sguazza, costruendo la prima ora del film come una sorta di commedia - penso si sia capito anche dalla caratterizzazione della figura centrale di tutta l’opera - e rimandando il più possibile gli scontri fisici. La violenza e l’azione arriveranno infatti con l’introduzione della protagonista femminile, anche perché il Nostro Ku non toccherà una lama per tutti i 169 minuti di durata. Continuando sul percorso aperto con l’intramontabile Come Drink With Me il regista tratteggia una donna/guerriero dalle fattezze inconfondibili. Orgogliosa, letale, femminile senza essere la caricatura di una femme fatale (un po’ quello che è stata la bellissima Meiko Kaji per il cinema giapponese). In fuga da una condanna a morte ingiusta e del tutto arbitraria. Assieme a Yang arriveranno nella vita del giovane studioso un sacco di altri personaggi, scandendo mano a mano un melange di generi che spazia dal battibecco romantico alla deriva spaghetti-western, fino alle capatine nell’horror e nel grottesco. Con culmine massimo nella celeberrima conclusione metafisica.
Alla stessa maniera della sceneggiatura anche la regia alterna un ritmo pacato e rilassato, totalmente costruito su esterni e campi profondissimi, con un montaggio di deriva costruttivista. La grandezza di King Hu sta tutta nello sfruttare tagli supersonici senza che lo spettatore perda nulla. Nell’arco di due-tre secondi succede il finimondo, con almeno una decina di raccordi ben marcati, e noi siamo riusciti a goderci ogni singola inquadratura. Il risultato di una simile padronanza della percezione è un vortice di scene action che trascinano lo spettatore senza stordirlo. Siamo ancora lontani dagli astrattismi di un The Valiant Ones, eppure stiamo assistendo alla posa delle fondamenta su cui si baserà tutto il cinema di HK degli anni ’80. Tsui Hark e, soprattutto, Ching Siu-Tung costruiranno molto del loro linguaggio sulla grammatica delle micro ellissi di King Hu, portando tutta l’industria cinematografica verso velocità d’esecuzione prima impensabili.
E se la forma raggiunge vette mai viste prima, alla stessa maniera la profondità dell’opera esplora territori quasi del tutto inediti. A Touch of Zen è prima di tutto un saggio sulla ricerca spirituale, sull’inutilità della violenza e sull’analisi interiore. La natura rigogliosa e preponderante, la presenza di un manipolo di monaci a fungere in diverse occasioni da pacifici deus ex machina, la scoperta da parte del protagonista di come la difesa della sua amata abbia comunque generato un numero intollerabile di morti. Nel 1978 Liu Chia-Liang stravolgerà il canone del cinema d’arti marziali, dilatando la classica sequenza di addestramento da un paio di minuti a oltre un’ora. Parlo naturalmente della 36ma Camera di Shaolin, più manifesto di filosofia che film di calci e pugni. Il protagonista entra nel monastero shaolin assetato di giustizia violenta e ne esce saggio e riflessivo. Ben poco desideroso di utilizzare le sue abilità per diffondere dolore. A Touch of Zen si basa sullo stesso meccanismo, evitando però di focalizzarsi troppo sul percorso spirituale quanto mostrandone subito frutti e conseguenze. La stupida inutilità della violenza, appunto.
Stare a discutere se un’idea sia condivisibile o meno è quanto mai gratuito in questo contesto, dove lo sforzo e la grazia con cui viene promulgata passano decisamente in primo piano. Prendere un cinema ultrapopolare come il wuxia, elevarlo stilisticamente ad avanguardia e costruirlo attorno a un’idea non certo semplice come la spiritualità, tutto senza scadere in facilonerie o paternalismo, è un’impresa da Maestri. Il “basso” diventa altissimo e lo fa con la semplicità che appartiene solamente a chi maneggia con estrema sicurezza materiale altrimenti troppo complesso. E se oggi riusciamo a concepire film di genere capaci di veicolare “altro” lo dobbiamo anche a questa pellicola.
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