The Butcher, The Chef and The Swordsman è forse il miglior esempio di cinema hongkonghese dell’accumulo da almeno un lustro a questa parte. E si noti bene l’etichetta hongkonghese, mai come in questo caso indispensabile per differenziarsi dalla calma piatta delle megaproduzioni cinesi.
Quello con cui abbiamo a che fare è un prodotto completamente di superficie, ipercinetico e capace di modulare il suo umorismo da Fichi d’India a Peter Sellers (e viceversa) nel giro di due righe di dialogo. La pellicola del mongolo Wuershan rappresenta alla perfezione quel cinema umorale e puerile che ci aveva fatto innamorare di una poetica fatta di maschere popolari, montaggi vorticosi e fusione estrema di generi. Quando la mancanza di pretese era ancora in grado di generare linguaggi virtuosi e stimolanti, piuttosto che vuoto populismo auto rigenerante.
In The Butcher, The Chef and The Swordsman non esistono segmenti più lunghi di una manciata di secondi dove il regista non ci infili di forza (quasi sempre in maniera gratuita) la trovata a effetto. Allo stesso modo la trama è tanto idiota quanto arzigogolata, tra continui salti temporali e cambi di registro. Una leggendaria mannaia passa di mano in mano, acquistando ogni volta nuovo significato e missione. A questo si aggiungono vendette generazionali, Maestri d’alta cucina alla ricerca di un degno discepolo, bordelli tenuti in scacco da guerrieri spietati (e barbuti), macellai innamorati, prostituite manipolatrici e spadaccini privi di morale. Tutto abbondantemente condito da azione frastornante, sangue, urla e un montaggio tanto epilettico da ricordare una fusione tra Crank e Bangkok Loco. Non dimentichiamoci i tradizionali scippi (si legge “citazioni”) ad altre opere cinematografiche, come tradizione cantonese insegna (una volta incappai in un wuxia con Andy Lau totalmente musicato con la colonna sonora di Akira, penso in maniera non proprio legale). E se alcuni richiami al cinema occidentale sono palesi (Ratatouille) altri danno quasi l’idea di un doveroso pareggiamento di conti (Future Cops è del 1993, Scott Pilgrim del 2010. Capirete quando vedrete).
Difficile annoiarsi in una tale centrifuga di trovate e idee. Anzi, molto più facile scendere dalla giostra vagamente nauseati e rimbambiti dallo strepitio di un cast incapace di stare nelle righe. Per quanto ci si trovi alle prese con un cinema ultrapopolare è dura consigliare un film simile a chi non è pronto a una pietanza ricchissima di sapori spesso in dissonanza tra loro. Ed è un peccato per loro, perché The Butcher, The Chef and The Swordsman è (fin dal titolo) il perfetto antidoto a un certo minimalismo mumblecore/arthouse sempre più insidioso nei confronti dei generi puri. Se da una parte si cerca di valorizzare l’intrattenimento con l’utilizzo di ingredienti alti (e spesso ci si riesce, vedi il sorprendente Monsters di Gareth Edwards) qui il valore aggiunto viene dato dalla solidità con cui ci si innesta a una tradizione che rischiava di andare persa fra gli effluvi plastici di Zang Yimou. Wuershan riesce a ripartire dal dittico capolavoro A Chinese Odyssey di Jeffrey Lau. Classe, idiozia, paraculaggine e creatività. Tutto miscelato e servito bollente, fregandosene di oziose divisioni tra buono e cattivo gusto.
Nel culto della leggerezza possiamo trovare la storia di un cinema (e quindi di un popolo) che ha sempre eletto lo svolazzo estetizzante e trasversale a caposaldo irrinunciabile. Alla faccia di chi pensa che camera fissa e fotografia sgranata siano l’unica via per comunicare qualcosa di importante.
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