Ci leggiamo tra una decina di giorni. Intanto vedete di godervi abbuffate e pomeriggi svaccati in casa con amici e/o famiglia. O perlomeno questo è il mio programma fino a gennaio. Buone feste!
venerdì 23 dicembre 2011
Vecchia scuola avanti tutta!: Neid - Il Cuore della Bestia
La sbornia di trigger e suoni iper processati degli scorsi anni è stata grandiosa, ma doveva avere fine. Dopo aver portato alla ribalta una miriade di band talentuose e super preparate (anche se, onestamente, tutte identiche) lo scoppio della bolla non ha risparmiato nessuno, tranne forse Entity degli Origin. Che comunque non porta chissà quali innovazioni a un copione già rimesso in scena migliaia di volte. Per fortuna esiste la vecchia scuola, che puntualmente se ne esce dal suo letargo solo quando se ne ha veramente bisogno. Provate ad ascoltare lo strepitoso death slow-tempo dei Disma o il folle thrash-black alla velocità della luce dei Vektor (e se vi piace il genere anche l’ultimo Skeletonwitch è una discreta mazzata sui denti, seppur maggiormente improntato su ritmiche umane) per avere due splendidi esempi di come la musica pesante possa tornare a essere basata sulla potenza del riff e non sui ricamini. Non parliamo poi, finiremmo fuori tema, del totale culto settantiano di eccellenti combo come Graveyard o In Solitude. Dopo una manciata di anni tutti dissonanze e destrutturazione ci toccherà, ancora una volta, lasciare il passo a quelli del “non ci sono più le band di una volta”. Poco male, perché in un modo o nell’altro abbiamo la possibilità di accedere a un sacco di musica interessante. In cui inscriverei, senza alcun dubbio, gli italiani Neid.
Pensate al crustHC di matrice italica, dai Wretched ai primi Cripple Bastards, poi imbastarditelo con robuste dosi di grind e death melmosi e mai troppo decifrabili. Otterrete l’esatto contrario di quanto ricercato da band di ragazzini come The Faceless o Whitechapel. Un’insieme estremamente aggressivo e dinamico, eppure sfuggente e ruvido nel suo evitare ogni forma di barocchismo modernista. L’insieme sarebbe già abbondantemente originale e geograficamente localizzabile, eppure i nostri hanno voluto fare ancora di più. Intraprendendo la via del cantato in italiano, scelta che in territori estremi rischia sempre di giocare brutti scherzi. Ancora di più quando i testi non sono farciti delle solite cazzate metallare.
A tratti pare di trovarsi in un turbine dove convivono i torinesi Woptime e i Brutal Truth di Need to Control. Una cosa che personalmente non sentivo dai tempi dei mai dimenticati Corey. E, per quanto mi riguarda, ne sentivo la mancanza. Se da un parte sono felice che band italiane estremamente ricercate come i Fleshgod Apocalypse siano idolatrate dai mercati esteri, dall’altra la presenza di una scena “ignorante” e indirizzata a sbarazzarsi da ogni forma di orpello mi soddisfa a un livello più profondo. Ed è il motivo per cui un album come Il Cuore della Bestia riesce a essere apprezzato in pieno . O magari sarà per la sincera volontà di non nascondere le proprie origini (culturali e geografiche), per la pancia o per la semplice percezione che a questi ragazzi piaccia prima di tutto andare veloce e suonare a volumi esorbitanti. Se cercate un disco perfett(in)o siete fuori strada. In caso vogliate qualcosa di autentico, scritto con foga, lacrime e sudore allora la strada è quella giusta.
Ultima nota per l’artwork, a opera del combo Giorgio Santucci + Carlo Bocchio. Dritto ed eficace come tante photoshoppate non potranno neppure mai provare a essere.
mercoledì 21 dicembre 2011
Risposte bizzarre per domande frizzanti
A dimostrazione che il metal porta tanto amore (sempre in riferimento al famigerato post Darker Than Black) da oggi su FrizziFrizzi una simpatica intervista al sottoscritto circa concezione e gestazione di Bizzarro Magazine.
[Amo la mia vita di merda] Fuck This Life 16 di Weirdo Dave (And Press)
Cosa è Fuck This Life? Riducendolo ai minimi termini non abbiamo tra le mani che 28 pagine fotocopiate in b/n, riempite con ritagli di giornale incollati con diligenza da scolaretto. Articoletti di cronaca nera, frammenti di pornografia, pubblicità, cartoni animati e un sacco di altra roba. Tutti ritagliati con cura e disposti in ordine, come in un album fotografico di famiglia. Apparentemente non esiste una vera logica, se non qualche richiamo tematico piuttosto labile. Ci fosse stato in mezzo un Harmony Korine qualsiasi probabilmente avrebbe arricchito il tutto con qualche innocua uscita inscrivibile nel tremendo calderone dell’artsy fartsy. Sapete di cosa si tratta, no? Disegnini tremolanti, macchie finto casuali, scritte prive di senso. Magari avrebbe reso il tutto un po’ più commestibile, ma il senso finale ne sarebbe uscito stravolto. Un bel manifesto anti-consumista a misura di radical chic, disturbante il giusto. Quindi perfetto per i salotti buoni della cultura. Esattamente agli antipodi di dove mi vogliono portare queste pagine stampate e distribuite con ammirevole coraggio dalla And Press.
Tanto per essere chiari: nella testa di Weirdo Dave l’idea di criticare la produzione di bassa macelleria culturale composta da pornografia, rotocalchi e pubblicità non esiste proprio. Anzi, Dave adora tutto questo. Fuck This Life è il suo album di nozze. Lo scrigno dei tesori di un bambino che ha passato troppo tempo solo davanti alla TV. Non parliamo del nobile rapporto d’amore tra Warhol e Brillo, qui si tratta proprio di un amplesso lercio e puzzolente consumato nei bagni della stazione.
Logico che al fruitore medio questi collage sospesi tra autismo e serial killer in potenza appaiano come gratuiti e dozzinali. Il punto sta tutto nel fatto che lo sono, senza tante ipocrisie. Fuck This Life è brutale e trasparente (con un titolo così cosa ti aspetti?). Non c’è malizia, ironia o, tanto meno, sovrastrutture. Tra le sua pagine troverete solo accumulo di sesso e mercanzia a basso costo, disposti bene ordinati come la casalinga di Voghera ripone la spesa del sabato mattina. E, per quanto l’orgoglio ci impedisca di riconoscerlo, in questa metodica religione da hard discount bene o male ci siamo caduti tutti almeno una volta. Non fa nulla se leggiamo tanti libri difficili e ci riempiamo la bocca con parole altisonanti. Arriverà il giorno in cui ci sorprenderanno a razzolare (metaforicamente) nella spazzatura.
Weirdo Dave invece lo fa con un bel sorriso stampato sul volto. Prende i suoi tesori e li riproduce nel modo più dozzinale possibile (la fotocopia). L’assenza di freni nell’amare questa massa informe di rumore (nel senso di fastidio, distrazione) lo ha spinto poi a creare un modo per diffondere queste sue composizioni a più ampio raggio possibile (riuscendoci, visto che siamo arrivati al numero 16. Senza contare che i primi numeri sono raccolti in volumi sponsorizzati da gallerie d'arte e da brand come Supreme). Marshall McLuhan ci sarebbe andato a nozze, Walter Benjamin forse un po’ meno (eufemisticamente).
Fuck This Life è una di quelle idee che potrebbero esistere anche solo come astrazione. Perché, nel suo ipermaterialismo, è il concetto che ci sta dietro ad avere (un immenso) valore. La possiamo acquistare o meno, ma il fatto che qualcuno abbia pensato di realizzare e pubblicare una fanzina di questo tipo rimarrà comunque. E non esiste modo migliore per farci capire che nella spazzatura ci stiamo affogando.
martedì 20 dicembre 2011
Vacanze romane con Passenger Press e 55DSL
Fuori giusto in tempo per Natale la nuova tshirt Passenger Press x 55DSL, questa volta realizzata solo a quattro mani (mie e di Christian). Per godervela vi invito a farvi un giro su FrizziFrizzi, dove Simone si è perfino sbattuto a confrontare materiale originale con prodotto finito. Direi che gli dei del metallo (parlo proprio di te, Ronnie James) ora possono perdonarlo.
lunedì 19 dicembre 2011
Topi, metallari e orfani: Hesher di Spencer Susser (US/2011)
L’elaborazione del lutto rimarrà sempre uno dei temi più affascinanti e complessi da trattare attraverso la narrazione. Tra i numerosi esempi di opere tangenti a questo spunto Hesher rischia di rimanere nella memoria come uno dei casi più originali e sentiti. Mi spiace dover anticipare ampie porzioni della pellicola, ma è inevitabile per poterne analizzare i tratti principali.
Fulcro di tutta la vicenda è T.J., un ragazzino rimasto orfano di madre da un paio di mesi. La sua vita si consuma tra la scuola (dove viene vessato da un bullo), la casa della nonna malata (dove vive assieme al padre depresso) e lo sfasciacarrozze (dove giace la carcassa della macchina in cui è morta la madre). In poche parole, un disastro totale.
Con l’incontro di Hesher, un metallaro vagabondo dedito a bong e pornografia, le cose non fanno che peggiorare. Trasferitosi senza motivo a casa del ragazzino, spingerà il suo malessere al limite. Mettendolo nei guai con la legge, facendolo pestare da altri ragazzini, minacciandolo di morte. E qui le cose incominciano a farsi complicate.
Si prenda il rapporto che hanno i componenti della famiglia del protagonista con l’intruso: T.J. lo odia e non sono rare le esplosioni di rabbia inconsulta nei suoi confronti, il padre si comporta come se ci fosse sempre stato e come se fosse destinato a rimanere per sempre, la nonna ci va d’accordo. Anche Hesher pare trovarsi piuttosto bene con l’anziana signora, trattandola con rispetto e stringendo un’amicizia sincera.
E proprio alla sua nuova confidente lo scapestrato ospite racconta di come sia morto il suo serpente domestico. Messo alla berlina da un piccolo topo destinato a diventare il suo pranzo e reso nudo nella sua imbattibilità solo apparente. Una volta svelato l’inganno il predatore è destinato a morire di fame.
A questo punto la metafora si fa un po’ più chiara. Hesher non è la spalla che riuscirà a far superare a T.J. le sue paure. Hesher è la morte, il lutto, il serpente.
Siamo agli antipodi dello spiegone alla Il Sesto Senso, sia ben chiaro. Anzi, probabilmente questa è solo una delle diverse interpretazioni possibili. Anche se il personaggio di Natalie Portman sembra avvalorare questa tesi (una ragazza disperata e senza futuro, finisce per flirtare con Hesher dopo aver urlato ai quattro venti quanto la sua morte non sarebbe notata da nessuno).
Ben presto il giovane protagonista si rende conto che la sua vita non può essere condizionata per sempre da un fattone ributtante. L’unico modo per scacciare il molesto visitatore da casa propria è imparare a conviverci. Trovarci lati positivi. E ce lo spiega lui stesso al funerale della nonna (l’avevo detto che si trovava fin troppo bene in compagnia del suo nuovo amico…) in un epico monologo a base di testicoli persi, poco prima del catartico finale.
Il tutto incorniciato una messa in scena sommessa, sotto un cielo perennemente grigio da suburbia votata al non luogo. Rainn Wilson si conferma un attore di primissimo livello, straziante nel ruolo del padre depresso. Ed è merito suo se la scena chiave di tutta l’opera, quella che la chiude prima dell’inevitabile epilogo, risulta di una potenza devastante (un po’ come era stato per Super, che qualcuno ha avuto il coraggio di definire come conciliante e buonista).
Hesher è un film minuscolo, scritto benissimo e girato anche meglio. Ogni scelta facile è bandita senza mezze misure, facendolo risultare in più casi ostico e quasi sgradevole. Ma si sta pur sempre parlando di un dodicenne rimasto senza mamma, cosa vi aspettavate?
giovedì 15 dicembre 2011
AdWeek e gli spot più bizzarri del 2011
Con l'avvicinarsi di gennaio scatta inevitabilmente la corsa alla classifica di fine anno. AdWeek ci mette del suo e consegna ai posteri le peggio stranezze della comunicazione 2011. Dentro ci trovate di tutto, compresi lavori di David Lynch, Harmony Korine e Darren Aronofsky. Trovate tutto qui. E ora il mio personale podio (caricati belli grossi così non vi perdete neppure una briciola di nonsenso gratuito):
mercoledì 14 dicembre 2011
Altro che 3D, con Murakami il cinema è superflat!
A parte la triste battuta nel titolo, che avremo capito in tre, la segnalazione è davvero, davvero succosa.
Apprendo infatti solo ora, grazie ai ragazzi di Asian Feast, che il grande Takashi Murakami è al lavoro sul suo primo film lungo da regista (al suo attivo per ora ha solo un corto per Louis Vuitton, tra l'altro bellissimo). Genere? Commedia. Coinvolte praticamente tutte le menti dietro alla Sushi Thypoon (sì, proprio quelli che a colpi di splatter demenziali hanno rovinato la percezione del cinema nipponico all'estero). La cosa mi inquieta parecchio. Tra gli artisti convertiti al cinema mi sovvengono il premio Turner Steve McQueen e il grande Robert Longo. Il primo ha diretto un paio di capolavori, il secondo Johnny Mnemonic. Da che parte starà l'asessuato (parole sue) Murakami?
lunedì 12 dicembre 2011
Gabriele Arruzzo, mash-up culture e l'appropriazionismo di Richard Prince
Avevo già parlato di Gabriele Arruzzo qui. Dopo aver dato una lettura al suo catalogo e aver osservato attentamente le suo opere mi pare doveroso dedicargli un articolo un pò più approfondito.
La mash-up culture non ha mai avuto vita facile. Percepita dai più come un mero furto ai danni di artisti “veri” da parte di furbi DJ incapaci di produrre musica loro, ci ha regalato invece diversi lavori di livello eccellente. Parliamo per esempio delle uscite dell’americano Girl Talk (i cui dischi sono in download gratuito), Danger Mouse (quello del Grey Album, geniale fusione tra il Black Album di Jay-Z e il White Album Beatlesiano) o dei The Kleptones.
Per quanto un Simon Reynolds (autore di Retromania per Isbn) possa odiare questa recente branca della cultura pop è innegabile come in realtà si stia assistendo a un’appropriazione della produzione di massa da parte della massa stessa. Se i tre esempi citati sopra sono da considerarsi a un livello assolutamente non raggiungibile dal principiante, da parte sua l’esplosione di trailer fan-made, parodie, ri doppiaggi su Youtube ci ha dimostrato come tutti possano fagocitare l’immenso mare di dati che ogni giorno ci arriva addosso. Per poi risputarlo sminuzzato e ridotto a una poltiglia che ne rivela il valore effettivo.
Se è vero che l’eccesso di utilizzo di Google e Wikipedia ci sta rendendo tutti un po’ più stupidi (parole del giornalista americano Nicholas Carr), incapaci di ricordare più di due nomi e tre date, è altresì corretto il fatto secondo cui siamo più coscienti di quanto l’industria dell’intrattenimento (tanto per dirne una) ci stia offrendo. Aprendoci gli occhi a 360 gradi e dandoci la possibilità di migliorarlo noi stessi.
Non è sempre frutto della fortuna del neofita se spesso le produzioni amatoriali caricate su YouTube siano mille volte meglio di quelle prodotte dalle major (dal caso Italian Spiderman alla nostrana Freaks!). Rimanendo nell’ ambito mash-up i vari rimontaggi di materiale edito creano spesso trailer capaci di evocare emozioni ben più forti di quelli ufficiali (ormai realizzati con lo stampino).
Per esperienza personale posso dire che ho consumato l’ultimo disco di Girl Talk, pur detestando la gran parte delle canzoni utilizzate al suo interno. Dura sostenere che l’accoppiata Missy Ellitot + Ramones non sia una bomba.
E non è un neppure un caso che YouTube venga indicato da Gabriele Arruzzo, abile nel traslare i fondamenti del mash-up nella pittura su tela, come una delle sua principali fonti di ispirazione.
Una foto del computer dell’artista con accanto la dicitura “G.A.’s images archive, work in progress, 2011 to present” (dal catalogo Essere un’isola) ci fa capire come l’atto performativo del raccogliere in maniera compulsiva materiale iconografico sia in realtà parte integrante dell’iter che lo porterà alla tela conclusa. Prendere frammenti di stampe di 50 anni fa, fonderli e riprodurli in dimensioni esagerate (si arriva al 2,50 x 2 m di Something about me and you) significa caricare di significato nuovo e importante segni altrimenti destinati a essere dimenticati. Si prende il passato e lo si rende futuro. Migliorandolo, limandolo, immergendolo in un nuovo contesto.
Nel suo catalogo Arruzzo definisce le figurine della gioventù Hitleriana meravigliose. Una volta osservato come queste finiscano inglobate nella sua poetica è impossibile non dargli ragione. Così mille schegge di cultura bassa passano per le lenti decontestualizzanti della bottega d’artista e diventano completamente nuove. Nonostante siano state riprodotte in maniera identica (non esiste compenetrazione tra i vari livelli del quadro, che vanno a lavorare esattamente come quelli di Photoshop). Proprio come nei dischi di Girl Talk e nei quadri di Richard Prince (con le dovute proporzioni, eh. Che il Maestro non si tocca) l’appropriazione non è nascosta o mascherata. Il dj americano pubblica la lista di dischi da cui ha estrapolato i sample mentre il pittore espone il romanzetto pulp da cui ha “copiato” (migliorandola) la copertina. Allo stesso modo il Nostro pubblica un volume dove lo si vede catalogare immagini scannerizzate e rielaborarle con gli strumenti Adobe prima di passare alla fisicità di acrilico e pennelli. Nulla è nascosto. Proprio come Jake e Dinos Chapman quando esponevano stampe di Goya arricchite con particola ancora più raccapriccianti.
Così il risultato rende inoffensive immagini terribili o, viceversa, perturbanti frammenti innocenti. Saranno copiati, ma nulla è più come prima.
venerdì 9 dicembre 2011
Astron-6 finalmente in DVD!
I ragazzi di Astron-6 hanno sempre saputo come farsi voler bene: scorretti, talentuosi, pieni di idee grandiose nonostante i budget inesistenti. Dopo aver vinto praticamente ogni premio per il cinema indipendente sulla faccia della Terra (compresi 6 awards al Toronto After Dark 2011, per un lungo costato 10000 dollari e finanziato da Lloyd Kaufman) era ora che qualcuno si decidesse a raccogliere la loro opera omnia su supporto fisico. Siccome siamo ragazzi fortunati esiste la Troma. Dove hanno pensato bene di prendere oltre 4 ore di corti, medi, finti trailer e un sacco di altra robaccia e di spalmarla su 2 dvd. Come un saggio ha disse su Twitchfilm "se non ci trovate nulla che vi diverte probabilmente siete un pò morti dentro". Amen.
mercoledì 7 dicembre 2011
Pagine serie: Il Memoriale della Repubblica di Miguel Gotor (Einaudi/2011)
Poche righe per consigliare un titolo che poco c’entra con gli argomenti solitamente trattati su queste pagine, incapaci di essere tanto neri e terribili quanto le pagine di cui vado a parlare. Il Memoriale della Repubblica di Miguel Gotor cerca di ricostruire, attraverso una ricerca che tira in ballo una mole immensa di riferimenti, l'iter delle pagine scritte a mano (e successivamente fotocopiate e battute a macchina) da Aldo Moro nel corso della sua prigionia. Un documento su cui si sono fatte tutte le supposizioni possibili, cercando in ogni modo di capire quante possano essere le pagine mancanti e (soprattutto) cosa ci potesse essere scritto di così sconvolgente. Uno dei grandi misteri d’Italia.
La triste vicenda è così incredibile da sembrare in più frangenti la trasposizione in prosa di un film spionistico, con tanto di organizzazioni sempre più sotterranee, cattivi amorali e macchinazioni internazionali. Peccato che sia tutto vero e riguardi la storia della nostra nazione. Dal 1978 a oggi sono passati più di 30 anni, eppure in quel dedalo di insabbiamenti e decisioni Machiavelliche ci si può leggere un ritratto del nostro paese perfetto anche per i nostri giorni. Tanto per dire quanto lo sviluppo della nostra società si sia bloccato in un frangente che pare dilatarsi all'infinito.
Miguel Gotor fa l’impossibile rendendo appassionante e scorrevole un tomo di oltre 600 pagine composto per lo più da nomi, date, stralci di documenti giuridici e riferimenti alla politica del periodo. Il ritmo di lettura è appesantito solo dalla sua maniacale precisione nel voler far quadrare ogni osservazione e nel contestualizzarla nella maniera più oggettiva possibile. In questo senso il lavoro dell’autore è straordinario, raccogliendo in una forma fluida e godibile anni e anni di ricerche su argomenti non proprio appetibili per il grande pubblico (me compreso).
Il Memoriale della Repubblica può essere letto in vari modi. Indignandosi per la gesta infami e vigliacche della nostra classe politica oppure lasciandosi affascinare da quanto ci sia ancora da scoprire sulla nostra storia recente. In qualsiasi caso una lettura importante e un bel saggio su come liberare un tomo impossibile su di un pubblico più vasto di quello a cui sarebbe solitamente indirizzato. Senza scadere nel Lucarellismo spicciolo (cosa più importante).
venerdì 2 dicembre 2011
Non tutto lo straight-to-video viene per nuocere: Slave Girls From Beyond Infinity di Ken Dixon (US/1987)
Slave Girls From Beyond Infinity è una di quelle sorprese che ti migliorano tutto d’un colpo la giornata. Scoperto per puro caso cercando informazioni su vari filmetti intravisti in Machete Maidens Unleashed, l’ho affrontato con tutta la diffidenza del caso. Leggendo la sinossi e guardando il trailer si ha l’impressione di avere a che fare con qualcosa di fin troppo sgangherato , pericolosamente vicino al truffaldino concetto di “tanto brutto da essere bello”. Si consideri poi che il film precedente del regista Ken Dixon è una compilation di trailer a tema zombesco. Per usare un eufemismo la voglia di affrontare questo oggetto non identificato era veramente al minimo. E mi sarei sbagliato, perché Slave Girls From Beyond Infinity è uno dei titoli più intelligentemente divertenti che mi sia trovato a visionare negli ultimi mesi.
A fronte di un’effettistica zero- budget e una trama delirante abbiamo continui contrappunti di classe cristallina, sia a livello registico che di scrittura. L’ironia profusa è brillante, fin troppo consapevole di sé per essere frutto della goffaggine di un regista trovatosi alle prese con uno straight to video da portare a casa in 3 settimane.
Slave Girls From Beyond Infinity parla delle rocambolesche avventure di Daria e Tisa, due procaci schiave in fuga da misteriosi carcerieri intergalattici. Una volta conquistata la libertà saranno costrette a un atterraggio di emergenza su di un pianeta coperto da una folta giungla. Lì conosceranno il loro nuovo aguzzino, il folle Zed. Ricco annoiato con la passione per la caccia.
A partire dalla costruzione delle protagoniste tutto è giocato sulla conoscenza della materia b-movie da parte dello spettatore. In un modo o nell’altro le due ragazze sono in biancheria intima per tutta la durata del lungometraggio, eppure la loro presenza non è quella del tipico specchietto per allodole da exploitation. Intelligenti, consce della loro femminilità, coraggiose e più che disponibili a sporcarsi le mani sovvertono il solito ordine di valori tipico del filone. E non è finita qui, perché Dixon si dimostra tanto intelligente da evitare perfino l’errore inverso. Non c’è spazio per bad-girl traboccanti testosterone. Daria e Tisa rimangono donne per tutto il tempo, non perdendo mai la classe che gli conviene (sempre ben pettinate, sagaci e mai sboccate). Così può succedere che la loro bellezza gli permetta perfino di sedurre dei robot di guardia (giuro! E dalla scena, già abbastanza surreale di sé, derivano un paio di siparietti da applauso a scena aperta), senza dimenticare di menare le mani nel caso qualche moina non basti.
Il mondo dove le Nostre sgambettano da un’avventura all’altra è un guazzabuglio di generi e suggestioni tanto colorato da rivaleggiare ad armi pari con quello di Yor, del mai dimenticato Antonio Margheriti. Dalla fantascienza più camp al gotico stile Hammer, senza dimenticare puntatine nel cappa e spada e sfumature prese in prestito ai monster movie di matrice tropicalista. Il resto lo fanno i fondali di cartapesta, la nebbiolina, i costumi di gomma e i modellini. Tutto in 75 minuti di puro divertimento, mai banale o ammiccante. Quando Daria e Tisa riescono a fuggire dal loro aguzzino rubandogli l’astronave ho quasi ululato dalla felicità nel notare i copri sedili zebrati e la classe con cui tale particolare viene quasi celato. Alla stessa maniera, verso la metà del film, due dei prigionieri del folle Zed si aggirano per la sua stanza dei trofei. Il commento musicale subisce una variazione ogni volta che una forma vagamente umanoide entra nell’inquadratura, come a volerci sottilmente suggerire a cosa si andava in contro. Trovate non certo tipiche delle produzioni video anni '80.
Slave Girls From Beyond Infinity non è un kolossal, e neppure un capolavoro d’autore. Ma rimane un gioiellino irrinunciabile. Proprio come le sue protagoniste ci attira con le sue promesse sguaiate per poi conquistarci con classe e intelligenza. Mantenendo sempre un ritmo frizzante, consegnandoci un cattivo più che credibile (merce rara, lo sapete bene) e ficcando in sceneggiatura robot erotomani e un rip-off di Predator da non crederci. Grandioso.
giovedì 1 dicembre 2011
Volevi fare il simpatico ma hai fatto una figura del cazzo
Radio è un progetto portato avanti da Marco Klefisch, funambolico illustratore, e Xister Project, quelli di PicNic Comics. L'idea sarebbe quella di fornire a curatori sempre diversi uno spazio espositivo sui generis, dove sperimentare nella maniera più pura. Il discorso è un pochetto più complesso e vi rimando direttamente al loro sito per chiarirvi le idee.
La prossima mostra si intitolerà Darker Than Black e si baserà su tutto l'immaginario portato avanti dal metal più oscuro, dai Black Sabbath fino al black norvegese. L'esposizione si comporrà di una serie di rifacimenti fotografici a opera di Federica Chiesa delle più importanti copertine della storia della musica del demonio. Tutto coordinato da Scarful. O almeno questo ho capito dal sito, anche se non è questo il punto della questione.
Inutile dire che l'idea è meravigliosa, sul pezzo e sopratutto di rottura. Una forma di espressione per troppo tempo considerata bassa e "ignorante" riceve finalmente la sua benedizione da un gruppo di creativi in vista e affermati. Senza contare che tutti i nomi coinvolti meriterebbero una mostra a sé stante, tanto hanno da dire.
Peccato che siamo in Italia, dove chi si fa il culo per una cosa del genere rischia di essere preso per deficiente. Leggete questa intervista, pubblicata su uno dei portali di coolhunting più noti d'Italia (e quindi, si dovrebbe pensare, più allineati a una certa mentalità globale e aperta a ogni forma di espressione). L'ironia totalmente fuori posto, la voglia di essere leggeri quando non ce n'è nessun bisogno, la mancanza di rispetto per l'interlocutore. Ma sopratutto i luoghi comuni, la chiusura mentale e i piedi ben piantati nella sana provincia italica. Se tu ti strappi i capelli per gli Arcade Fire sappi che al'estero i biglietti per un festival non proprio friendly come il Roadburn finiscono in meno di 10 minuti (quest'anno 7, per la precisione) e gente come i Wolfes in the Throne Room vengono incensati da chiunque. Tanto per fare due esempi a caso. Quindi vedi un pò cosa fa più ridere, se Darker Than Black o la tua superficialità.
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