lunedì 3 ottobre 2011

Riavviare il blog con una lezione di vita. Impartita dai Machine Head.



Dopo settimane di impegni improrogabili (e, va detto, ricchissimi di belle soddisfazioni) finalmente riesco a rimettere mano al blog. Avrei voluto parlare del Drive di Refn, ma il pupo continua a tenermi lontano dalla sala cinematografica. Meglio qindi affidare il delicato compito di riavviare questo spazio 2.0 a quei coatti dei Machine Head. E alla lezione di vita che sono riusciti a sbattermi sul muso.


Ci sono uscite (editoriali, cinematografiche, musicali,…) che ti trasmettono un profondo senso di felicità. Questo nonostante la produzione in questione magari non sia neanche la tua tazza di tè. E’ appunto il caso dell’ultimo disco dei Machine Head, termine di una parabola umana e artistica che ha il sapore dolce e soddisfacente del riscatto personale in virtù dell’accettazione incondizionata del proprio DNA. E da questo la sincera e disinteressata gioia per una band che ha rischiato di essere dimenticata proprio per la smania di esserci a ogni costo, anche in lidi che non gli appartenevano minimamente.


L’occasione per un parallelo con una figura umana che fa parte dell’adolescenza di tutti noi è troppo ghiotta, quindi beccatevi ‘sto pippone moralistico-musicale:


1. Chiunque, a 14/15 anni, ha avuto l’amico con le cassettine più pazze del vicinato. Quello che te le metteva su a tradimento e ti bastonava con suoni di cui non avresti mai sospettato dell’esistenza. Nella sua singolare accezione quel tipetto con il gilet pieno di toppe era un’autorità, se ne sbatteva di quello che pensavano gli altri e tirava dritto per a sua strada. Naturalmente lo adoravi.


I Machine Head a inizio carriera erano proprio così. Burn My Eyes e The More Things Change... (i primi due album della band) lanciano Robert Flynn e compagnia direttamente nell’olimpo dei grandi. Passando, oltretutto, per strade che non erano ancora state battute. Inventarsi un genere più duro dei duri, vendere centinaia di migliaia di copie e ritrovarsi corteggiati dagli Slayer a 26 anni non è una cosa propriamente da tutti.


2. Lo stesso amico, una volta arrivato agli anni universitari, tende a ripulirsi. Via i capelli lunghi e le mixtape dei Cannibal Corpse. “Ma ascolti ancora quella roba?” “No, no. Adesso mi fa impazzire il post-new wave e i gruppi pompati da NME. Chiamano un sacco di figa”.


Per i Machine Head è l’epoca di The Burning Red. Album di osceno nu-metal che vende un putiferio. Il sequel Supercharger è invece un tonfo senza pari, e lascia la band praticamente in mutande. Letteralmente.


3. Dopo qualche tempo riesci a farti invitare a casa. Arrivato nella magione dell’ex-metallaro ti accorgi che i dischi post-new wave li ha solo in macchina. Accanto allo stereo, mezzi nascosti, ci sono ancora Reign in Blood e tutti i classiconi. Senza un filo di polvere sopra.


Through the Ashes of Empires è un disco un po’ così, pieno di amarezza per quello che era ma ancora troppo timoroso per staccarsi del tutto dai consigli di NME. Però la voglia di tornare a fare quello che ti piace veramente è tanta. Troppa.


4. Passa qualche anno. Quello che era il matto della compagnia è diventato un mediocre uguale a mille altre persone. Prima lo criticavi perché troppo tamarro, adesso ti accorgi di quanto ti manchi la sua ignoranza e la sua avversione ai compromessi. Sei annoiato, al baretto di sempre, quando una macchina si ferma proprio nel parcheggio di fronte. Alla guida il tuo amico, dalle casse pompa un frastuono come non ne sentivi da anni. Incominci a sorridere.


2007, arriva The Blackening. I Machine Head, sulla soglia di una rovinosa bancarotta, si ripresentano al grande pubblico con un disco di sole otto tracce, di cui quella in apertura è una suite thrash metal di oltre 10 minuti. Tutto l’album è un concentrato di rabbia, foga esecutiva e menefreghismo assoluto per quello che il mercato vuole. E’ un trionfo. L’album finisce nella Top20 di un sacco di paesi e vende in due settimane più di quello che l’album precedente ha fatto in 3 anni. La critica “seria” lo stronca (almeno fino a quando non si accorge di cosa stia smuovendo) mentre la comunità metal ulula dalla felicità. Viene accolto come l’unico sequel possibile ai classici degli anni ’80. In effetti The Blackening è colossale, ultradinamico e dalla potenza di un Caterpillar. Composto, suonato e registrato come pochi dischi si meritano di essere. Poco conta quanto possa essere telefonato e già sentito, perché dentro questo Vaso di Pandora tutto funziona da Dio. Questo è l’amico che cercavi da un sacco di tempo, con tutti i suoi pregi (tantissimi) e i suoi (adorabili) difetti. Te ne sbatti di tutto e te lo godi. I MH tornano sulla vetta, e lo fanno per la via più dritta e controversa possibile.


5. Dopo anni di latitanza eccolo lì, il tuo vecchio compagno di avventure. Scende dalla macchina e si presenta all’happy hour fighetto con una maglietta degli Iron Maiden comprata al mercato. Se ne sbatte di quello che pensano gli altri, sa di essere fuoriposto ma è raggiante. Era anni che cercava il coraggio per fare quello che voleva veramente e solo ora capisce che non era il solo a sperarci. Smetti di annoiarti e lui torna a essere quel piccolo boss di quartiere che era 15 anni fa.


Unto the Locust, fuori per Roadrunner da circa 10 giorni, è kitsch, eccessivo, sbrodolone e lontano anni luce dal concetto di modernità. Eppure è qualcosa che i Nostri non hanno mai fatto, un nuovo tassello nella loro costante evoluzione. E’ sincerità allo stato puro. Praticamente tutte le testate di settore lo indicano come disco dell’anno. Disco METAL dell’anno per la precisione, con buona pace per tutti quelli che si fanno le seghe compilando quelle top-ten in cui si cerca leziosamente di miscelare ogni genere antipopulista. E da qui il senso di felicità di cui parlavo a inizio dell’articolo. Alla faccia della retorica spicciola i Machine Head hanno rischiato di scomparire cercando di inseguire quello che non erano, ma sono tornati più forti che mai rivelandosi per quello che sono veramente. Metallari.


Coatti, privi di senso della misura, sconsiderati nell’ascoltare solo se stessi (vedi l’orrido coro di bambini in apertura di Who We Are). Il succo è che da settimana scorsa ho riascoltato questo disco allo sfinimento. Nonostante i ritornelli che cercano di unire post-thrash termonucleare e Manowar. Perché è il disco che i Machine Head meritavano di fare, rischiando di brutto ed esponendosi come non hanno mai fatto. Quando sarebbe bastato proporre una copia carbone del precedente lavoro per vendere bancali di copie. E se anche Unto the Locust non vi piace non potete non fare lo stesso i complimenti alla ciurma di Robert. Per essersi ricordati, nonostante la loro incapacità cronica di stare fermi su loro stessi, da dove vengono e per aver capito che per andare alla conquista del mondo si deve prima di tutto convincere se stessi e la propria gente.

3 commenti:

Officina Infernale ha detto...

Dei machine head ho sempre ascoltato i dischi sbagliati e mi hanno sempre fatto cagare, ma gli ultimi due li ho appena beccati, poi essendo diventato meno stronzo me gustano assaje!

MA! ha detto...

Grande! Belli tamarri comunque.

Scarlet Speedster ha detto...

Splendida recensione, complimenti.