Cosa è il cinema? La definizione classica parla di narrazione per immagini in movimento. Motivo per cui molti puristi della settima arte, all’epoca dell’introduzione del sonoro, si opposero a questo rivoluzionario cambiamento di rotta. Con il senno di poi una reazione sicuramente esagerata, ma con un fondo di verità. E Hunger ne è la dimostrazione.
Il miglior modo per vedersi Hunger è senza il sonoro. Perchè Steve McQueen narra per immagini, senza nessun compromesso. E non è un caso se l’unico dialogo presente nel film (per dialogo si intende uno scambio di battute con almeno un paio di rimpalli) si presenti come teatro, con la telecamera fissa a inquadrare i due interlocutori per più di 20 minuti. E anche se non si parla una parola d’inglese si capisce perfettamente cosa stia succedendo in quel frangente. Per tutto il resto della pellicola inquadrature perfette, con una fotografia perfetta, ci sbattono sul muso simbolismi e architetture di significati che non hanno nulla di scontato. Spesso pare di assistere a una serie di fotografie in movimento, dove ogni elemento ha una sua collocazione precisa e insostituibile. Si segue la storia, si entra nella testa dei personaggi, si capisce perfettamente quello che avviene sullo schermo. Senza nessun tipo di spiegone da cerebrolesi.
E tutto questo non è un caso. Steve McQueen sarà all’esordio nel mondo del cinema, ma nella sua bacheca dei successi può già annoverare un Turner Prize. Un video artista quindi, nessuno di più adatto a narrare (senza dare giudizi o azzardare soluzioni) il decadimento fisico di Bobby Sands, militante dell’IRA morto per sciopero della fame. Tutto Hunger è un tripudio di piscio, lacrime, merda, sangue. Dentro una raffinatissima messa in scena vediamo il corpo di Michael Fassbender deperire, coprirsi di piaghe e perdere ogni segno di vita. Eppure il corpo emerge anche come linguaggio di protesta ultimo, segnale impossibile da ignorare e decifrabile a qualsiasi latitudine. Considerando l’importanza che la carnalità ha nell’arte moderna (la fotografia ancora troppo fraintesa di Andres Serrano, il sangue e le orge di Hermann Nitsch, l’autolesionismo di Franko B., le mutazioni in plastilina di Matthew Barney) era inevitabile che un tema simile finisse in mano a un regista proveninete da questo mondo. Probabilmente le uniche alternative sarebbero state Cronenberg, Tsukamoto, Verhoeven o Waters. Non a caso quattro personalità celebrate per la loro poetica anche fuori dalla sala cinematografica.
Il miglior modo per vedersi Hunger è senza il sonoro. Perchè Steve McQueen narra per immagini, senza nessun compromesso. E non è un caso se l’unico dialogo presente nel film (per dialogo si intende uno scambio di battute con almeno un paio di rimpalli) si presenti come teatro, con la telecamera fissa a inquadrare i due interlocutori per più di 20 minuti. E anche se non si parla una parola d’inglese si capisce perfettamente cosa stia succedendo in quel frangente. Per tutto il resto della pellicola inquadrature perfette, con una fotografia perfetta, ci sbattono sul muso simbolismi e architetture di significati che non hanno nulla di scontato. Spesso pare di assistere a una serie di fotografie in movimento, dove ogni elemento ha una sua collocazione precisa e insostituibile. Si segue la storia, si entra nella testa dei personaggi, si capisce perfettamente quello che avviene sullo schermo. Senza nessun tipo di spiegone da cerebrolesi.
E tutto questo non è un caso. Steve McQueen sarà all’esordio nel mondo del cinema, ma nella sua bacheca dei successi può già annoverare un Turner Prize. Un video artista quindi, nessuno di più adatto a narrare (senza dare giudizi o azzardare soluzioni) il decadimento fisico di Bobby Sands, militante dell’IRA morto per sciopero della fame. Tutto Hunger è un tripudio di piscio, lacrime, merda, sangue. Dentro una raffinatissima messa in scena vediamo il corpo di Michael Fassbender deperire, coprirsi di piaghe e perdere ogni segno di vita. Eppure il corpo emerge anche come linguaggio di protesta ultimo, segnale impossibile da ignorare e decifrabile a qualsiasi latitudine. Considerando l’importanza che la carnalità ha nell’arte moderna (la fotografia ancora troppo fraintesa di Andres Serrano, il sangue e le orge di Hermann Nitsch, l’autolesionismo di Franko B., le mutazioni in plastilina di Matthew Barney) era inevitabile che un tema simile finisse in mano a un regista proveninete da questo mondo. Probabilmente le uniche alternative sarebbero state Cronenberg, Tsukamoto, Verhoeven o Waters. Non a caso quattro personalità celebrate per la loro poetica anche fuori dalla sala cinematografica.
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