Disponibile da pochi giorni una nuova canzone dei Hayaino Daisuki, super band in cui militano Jon Chang dei Discordance Axis e Teddy Patterson dei Burnt By The Sun. Genere? Penso che l'espressione "Slayer on high-speed dubbing" renda perfettamente! Trovate tutto su Brooklyn Vegan.
martedì 23 febbraio 2010
Shaun of the Clerks: Zombieland di Ruben Fleischer (US/2009)
In due parole: Zombieland è un film divertente, dal peso specifico nullo e che non lascerà nessun segno dietro di sé. Male? No, benissimo. Perché tra kolossal senza fine, torture porn, remake e cazzatone nipponiche (e parla uno che consuma al 80% film orientali) si cominciava veramente ad averne piene le palle. E’proprio così difficile scrivere un lungometraggio che strappi un sorriso, qualche sguardo meravigliato e che non ci tratti come bambini ritardati? Che magari duri 90 minuti (o meno) e che non costi quanto un’isola tropicale? Evidentemente sì, perché da Drag Me to Hell a oggi sul fronte occidentale non mi pare di ricordare nulla. Zombieland escluso, ovviamente. Che è tutto tranne che un film perfetto, puro postClerksismo (svuotato dalla devastante carica antropologica dell’originale) rivisto in chiave Shaun of the Dead (senza raggiungere neppure le vette umoristiche di questo). Bastano i folgoranti titoli di testa per capire a cosa si va incontro: moviola estrema + zombie + thrash metal + omaggio a Spike Jonze. Cosa chiedere di più? Personalmente mi sento di suggerire gli Anthrax di Among The Living al posto dei Metallica. Tutto qui.
Si potrebbe contestare che l'inevitabile storia d’amore puzza di stopposo e mellifluo, ma risulta perfetta all’interno della cornice tessuta da Rhett Reese e Paul Wernick. Dopotutto Emma Stone è più la compagna di liceo che avremmo sempre voluto (anche come quoziente intellettivo) piuttosto che una Charlotte Gainsbourg con cui inscenare mutilazioni genitali (o l’ultima bomba erotizzante da mettere in posa plastica). Tutto è costruito attorno all’idea di leggerezza e di inoffensività, l’unica trasgressione è lo sproloquio (tra l’altro a tratti genuinamente divertente, ma avrebbe potuto raggiungere risultati enormi se messo in mano a un Seth Rogen o allo stesso Kevin Smith) e lo sfondare qualche scaffale di paccottiglia kitsch.
Quello che veramente infastidisce è come ci si concentri su finezze da sorrisino compiaciuto (esempio: prima della catarsi finale tutti rimangono bloccati in una giostra che rappresenta la loro visione della vita) evitando di tappare buchi grossi come una casa, cosa piuttosto fastidiosa considerando lo spessore del film.
Si potrebbe anche dire che Zombieland l’hanno già scritto e girato a HK qualcosa come 12 anni fa (un bel pezzo prima di Wright e Pegg), con tanto di finale da storia del cinema. Eppure non riesco a mettere questi errori veniali davanti a tanti siparietti carichi di leggerezza (tipo il montaggio durante il viaggio in SUV, compresa discussione tra Harrelson e Abigail Breslin circa l’identità di Hanna Montana), alla comparsata del secolo e alle decine di sciocchezzuole registiche disseminate per gli 87 minuti di durata del lavoro di Fleischer. Specchio dei tempi?
Si potrebbe contestare che l'inevitabile storia d’amore puzza di stopposo e mellifluo, ma risulta perfetta all’interno della cornice tessuta da Rhett Reese e Paul Wernick. Dopotutto Emma Stone è più la compagna di liceo che avremmo sempre voluto (anche come quoziente intellettivo) piuttosto che una Charlotte Gainsbourg con cui inscenare mutilazioni genitali (o l’ultima bomba erotizzante da mettere in posa plastica). Tutto è costruito attorno all’idea di leggerezza e di inoffensività, l’unica trasgressione è lo sproloquio (tra l’altro a tratti genuinamente divertente, ma avrebbe potuto raggiungere risultati enormi se messo in mano a un Seth Rogen o allo stesso Kevin Smith) e lo sfondare qualche scaffale di paccottiglia kitsch.
Quello che veramente infastidisce è come ci si concentri su finezze da sorrisino compiaciuto (esempio: prima della catarsi finale tutti rimangono bloccati in una giostra che rappresenta la loro visione della vita) evitando di tappare buchi grossi come una casa, cosa piuttosto fastidiosa considerando lo spessore del film.
Si potrebbe anche dire che Zombieland l’hanno già scritto e girato a HK qualcosa come 12 anni fa (un bel pezzo prima di Wright e Pegg), con tanto di finale da storia del cinema. Eppure non riesco a mettere questi errori veniali davanti a tanti siparietti carichi di leggerezza (tipo il montaggio durante il viaggio in SUV, compresa discussione tra Harrelson e Abigail Breslin circa l’identità di Hanna Montana), alla comparsata del secolo e alle decine di sciocchezzuole registiche disseminate per gli 87 minuti di durata del lavoro di Fleischer. Specchio dei tempi?
domenica 21 febbraio 2010
Carne, arte e narrazione: Hunger di Steve McQueen (Uk/2008)
Cosa è il cinema? La definizione classica parla di narrazione per immagini in movimento. Motivo per cui molti puristi della settima arte, all’epoca dell’introduzione del sonoro, si opposero a questo rivoluzionario cambiamento di rotta. Con il senno di poi una reazione sicuramente esagerata, ma con un fondo di verità. E Hunger ne è la dimostrazione.
Il miglior modo per vedersi Hunger è senza il sonoro. Perchè Steve McQueen narra per immagini, senza nessun compromesso. E non è un caso se l’unico dialogo presente nel film (per dialogo si intende uno scambio di battute con almeno un paio di rimpalli) si presenti come teatro, con la telecamera fissa a inquadrare i due interlocutori per più di 20 minuti. E anche se non si parla una parola d’inglese si capisce perfettamente cosa stia succedendo in quel frangente. Per tutto il resto della pellicola inquadrature perfette, con una fotografia perfetta, ci sbattono sul muso simbolismi e architetture di significati che non hanno nulla di scontato. Spesso pare di assistere a una serie di fotografie in movimento, dove ogni elemento ha una sua collocazione precisa e insostituibile. Si segue la storia, si entra nella testa dei personaggi, si capisce perfettamente quello che avviene sullo schermo. Senza nessun tipo di spiegone da cerebrolesi.
E tutto questo non è un caso. Steve McQueen sarà all’esordio nel mondo del cinema, ma nella sua bacheca dei successi può già annoverare un Turner Prize. Un video artista quindi, nessuno di più adatto a narrare (senza dare giudizi o azzardare soluzioni) il decadimento fisico di Bobby Sands, militante dell’IRA morto per sciopero della fame. Tutto Hunger è un tripudio di piscio, lacrime, merda, sangue. Dentro una raffinatissima messa in scena vediamo il corpo di Michael Fassbender deperire, coprirsi di piaghe e perdere ogni segno di vita. Eppure il corpo emerge anche come linguaggio di protesta ultimo, segnale impossibile da ignorare e decifrabile a qualsiasi latitudine. Considerando l’importanza che la carnalità ha nell’arte moderna (la fotografia ancora troppo fraintesa di Andres Serrano, il sangue e le orge di Hermann Nitsch, l’autolesionismo di Franko B., le mutazioni in plastilina di Matthew Barney) era inevitabile che un tema simile finisse in mano a un regista proveninete da questo mondo. Probabilmente le uniche alternative sarebbero state Cronenberg, Tsukamoto, Verhoeven o Waters. Non a caso quattro personalità celebrate per la loro poetica anche fuori dalla sala cinematografica.
Il miglior modo per vedersi Hunger è senza il sonoro. Perchè Steve McQueen narra per immagini, senza nessun compromesso. E non è un caso se l’unico dialogo presente nel film (per dialogo si intende uno scambio di battute con almeno un paio di rimpalli) si presenti come teatro, con la telecamera fissa a inquadrare i due interlocutori per più di 20 minuti. E anche se non si parla una parola d’inglese si capisce perfettamente cosa stia succedendo in quel frangente. Per tutto il resto della pellicola inquadrature perfette, con una fotografia perfetta, ci sbattono sul muso simbolismi e architetture di significati che non hanno nulla di scontato. Spesso pare di assistere a una serie di fotografie in movimento, dove ogni elemento ha una sua collocazione precisa e insostituibile. Si segue la storia, si entra nella testa dei personaggi, si capisce perfettamente quello che avviene sullo schermo. Senza nessun tipo di spiegone da cerebrolesi.
E tutto questo non è un caso. Steve McQueen sarà all’esordio nel mondo del cinema, ma nella sua bacheca dei successi può già annoverare un Turner Prize. Un video artista quindi, nessuno di più adatto a narrare (senza dare giudizi o azzardare soluzioni) il decadimento fisico di Bobby Sands, militante dell’IRA morto per sciopero della fame. Tutto Hunger è un tripudio di piscio, lacrime, merda, sangue. Dentro una raffinatissima messa in scena vediamo il corpo di Michael Fassbender deperire, coprirsi di piaghe e perdere ogni segno di vita. Eppure il corpo emerge anche come linguaggio di protesta ultimo, segnale impossibile da ignorare e decifrabile a qualsiasi latitudine. Considerando l’importanza che la carnalità ha nell’arte moderna (la fotografia ancora troppo fraintesa di Andres Serrano, il sangue e le orge di Hermann Nitsch, l’autolesionismo di Franko B., le mutazioni in plastilina di Matthew Barney) era inevitabile che un tema simile finisse in mano a un regista proveninete da questo mondo. Probabilmente le uniche alternative sarebbero state Cronenberg, Tsukamoto, Verhoeven o Waters. Non a caso quattro personalità celebrate per la loro poetica anche fuori dalla sala cinematografica.
giovedì 18 febbraio 2010
mercoledì 17 febbraio 2010
Di adolescenti, nani e rospi parlanti: Portami Via di Nate Powell
Sollevi Portami Via dallo scaffale e vieni sommerso dai dubbi. Dopotutto, pensi, si tratta di un fumetto sulla malattia mentale e sulla crescita, disegnato con uno stile quasi underground e dalle forti spinte naif. Il pericolo di acquistare un mattone melenso e paternalista, con tanto di piglio auto celebrativo, è altissima. Per nostra fortuna però Nate Powell, autore unico del volume in questione, è un vero duro: suona in un pacco di gruppi punk, si autoproduce, scrive show comici per la televisione locale e lavora da 10 anni con veri matti. Non esattamente l’intellettuale artistoide che potrebbe nascondersi dietro un tomo simile.
La prima cosa che salta all’occhio è l’approccio alla materia: si è complici dei due giovani protagonisti piuttosto che osservatori, come se fosse tutto il resto del mondo ad aver perso contatto con la realtà e non viceversa. Lo scollamento dal nostro piano percettivo (ammettendo che sia quello giusto) viene reso in maniera originale, facendoci conoscere rospi parlanti e nanetti con la passione per il disegno. Elementi surreali che vanno a incastrarsi perfettamente in un mondo fatto di tirocini sfiancanti e serate trasgressive (come possono essere trasgressive le serate di due sedicenni di provincia, soprattutto se viste attraverso le lenti deformanti dell’affetto), ma anche di problemi familiari e morti improvvise. Nessuna cessione alla poesia gratuita quindi, ma una bella fetta di vita vissuta.
Ruth e Perry vengono dipinti come persone libere, complici, felici anche se afflitti da problemi incomprensibili al di fuori del loro minuscolo cosmo. La costruzione tumultuosa e fluida della tavola rende alla perfezione la leggerezza e la potenza liberatoria di una corsa a perdifiato. Un ricorso elevatissimo a splash page mute ci fa capire che Portami Via è un'opera di pancia, come se Powell avesse scarabocchiato distrattamente le sue tavole seguendo l'istinto. Le vignette si frammentano, si accatastano in maniera irregolare, le onomatopee sfondano in maniera buffa le quattro pareti in cui dovrebbero stare confinate. Il lettering frettoloso e confuso ci fa quasi credere di essere entrati in possesso di un diario personale, mentre intere pagine completamente nere sono il mezzo più veloce e immediato per farci dire la nostra (le dovremo pur riempire in qualche modo, no?).
Una lettura dolce dolce e dal forte impatto empatico, dove l’artista è talmente grande da saper scomparire a favore dei protagonisti e della loro storia.
La prima cosa che salta all’occhio è l’approccio alla materia: si è complici dei due giovani protagonisti piuttosto che osservatori, come se fosse tutto il resto del mondo ad aver perso contatto con la realtà e non viceversa. Lo scollamento dal nostro piano percettivo (ammettendo che sia quello giusto) viene reso in maniera originale, facendoci conoscere rospi parlanti e nanetti con la passione per il disegno. Elementi surreali che vanno a incastrarsi perfettamente in un mondo fatto di tirocini sfiancanti e serate trasgressive (come possono essere trasgressive le serate di due sedicenni di provincia, soprattutto se viste attraverso le lenti deformanti dell’affetto), ma anche di problemi familiari e morti improvvise. Nessuna cessione alla poesia gratuita quindi, ma una bella fetta di vita vissuta.
Ruth e Perry vengono dipinti come persone libere, complici, felici anche se afflitti da problemi incomprensibili al di fuori del loro minuscolo cosmo. La costruzione tumultuosa e fluida della tavola rende alla perfezione la leggerezza e la potenza liberatoria di una corsa a perdifiato. Un ricorso elevatissimo a splash page mute ci fa capire che Portami Via è un'opera di pancia, come se Powell avesse scarabocchiato distrattamente le sue tavole seguendo l'istinto. Le vignette si frammentano, si accatastano in maniera irregolare, le onomatopee sfondano in maniera buffa le quattro pareti in cui dovrebbero stare confinate. Il lettering frettoloso e confuso ci fa quasi credere di essere entrati in possesso di un diario personale, mentre intere pagine completamente nere sono il mezzo più veloce e immediato per farci dire la nostra (le dovremo pur riempire in qualche modo, no?).
Una lettura dolce dolce e dal forte impatto empatico, dove l’artista è talmente grande da saper scomparire a favore dei protagonisti e della loro storia.
lunedì 15 febbraio 2010
Straight from da hood: Sin Nombre di Cary Fukunaga (Mex/2009)
Rimango sempre più dell’idea che l’espressione grim & gritty dovrebbe diventare definizione di un genere a sé, piuttosto che aggettivo adattabile a ogni filone. Grim & gritty sono tutti quei film che, partendo da un contesto noir, ne spogliano ogni significato simbolico e lontanamente legato all’horror (come impone il canone classico del cinema nero), andando a descrivere un universo orribile, dove tutto volge ineluttabilmente e inevitabilmente al peggio, senza sovrastrutture o richiami meta testuali. Quello che ti ammazza non sono ossessioni, demoni interiori o cose così, ma il pusher a cui hai fregato la droga, la gang con cui hai scazzato o lo psicolabile armato di pistola a cui hai rubato il posto sul metro. Zero, e sottolineo zero, licenze poetiche. In questo filone inscriverei Long Arm of the Law (1984) di Johnny Mak, la trilogia del Pusher di Nicolas Winding Refn (l’ultima inquadratura del primo capitolo è la sintesi di tutto questo filone, con la certezza della morte stampata nello sguardo del protagonista), Dangerous Encounters: 1st Kind di Tsui Hark, Tropa de Elite di José Padilha e da oggi anche questo Sin Nombre di Cary Fukunaga. Film diversi tra loro, accumunati però da un tanfo di morte vana che li rende più estremi di qualsiasi torture porn.
Sin Nombre ci racconta le lordure delle gang, ibridandosi con il road movie e il melodramma. Seguendo la fuga di una famiglia di immigranti e raccontando il loro incontro con El Casper, membro dei Mara Salvatrucha condannato a morte dai suoi stessi ex commilitoni. Inevitabilmente scatta la storia d’amore tra la più giovane componente del nucleo familiare e il criminale, mentre la caccia all’uomo diventa sempre più disumana mano a mano che ci si avvicina ai confini degli Stati Uniti.
La scrittura e la regia di Fukunaga sono asciutti, senza per questo risultare poveri o forzatamente legati a certo cinema verità. Tra tutti i titoli citati nel primo paragrafo questo Sin Nombre risulta essere il più cinematografico, ricco di trovate eleganti e ad ampio respiro. La scelta di una paletta colori viva e pulsante viene dall’ambientazione sud Americana piuttosto che dallo spirito della sceneggiatura, confermando questo con commenti musicali minimali e carichi di amarezza (nessuna forma di crossover/hiphop da chicanos a inquinare un’atmosfera sommessa e lontana anni luce da certe smargiassate da gangs movie a stelle e strisce). La gestione perfetta dei tempi permette di mantenere comunque la durata della pellicola nei classici 90 minuti, mentre l’acutezza della sceneggiatura ci regala ritratti profondi e credibili dei protagonisti. Quello che colpisce e che più rimane impresso è come una storia esplicitamente di finzione si incastri alla perfezione in un contesto autentico e privo di esagerazioni romanzate, andando a restituirci integralmente al realismo solo sul finale. Secco, doloroso, privo di climax. E magnificamente scontato. Come succedeva nel capolavoro Mother di Joon Ho Bong la soluzione più facile (e più crudele) è quella giusta, anche se questo ci strappa dal fantastico mondo dei 24 fotogrammi al secondo per farci tornare con i piedi per terra.
domenica 7 febbraio 2010
Damien Hirst, Django e Napoleon Dynamite: Kick-Ass di Millar & Romita Jr
Tutto parte da Django. Il seminale cult Corbucciano può vantare un’infinità di primati, primo tra tutti quello di aver contribuito a modellare l’immaginario moderno in maniera ancora più profonda del prototipo Leoniano. Un’ opera minuscola, realizzata in economia e all’ombra del successo ottenuto dallo straniero senza nome di Eastwood, ma dal potere iconoclasta di una bomba termonucleare. Uno scenario lercio, appeal da film gotico e, soprattutto, un protagonista menomato. Una rivoluzione, paragonabile solo alla figura dell’eroe espanso (le cui qualità vengono suddivise tra più persone) introdotta da Kurosawa nei I Sette Samurai. Nell’immaginario popolare moderno nessuno aveva mai pensato a un eroe fallibile, fragile e capace di sanguinare. La mano spappolata del pistolero appiedato ebbe le prime ripercussioni a HK, andando a influenzare il lavoro di Chang Cheh. Nell’anno 1967 arriva infatti nelle sale dell’ex colonia inglese il capolavoro The One-Armed Swordsman. Primo esempio di wuxia moderno, porta sullo schermo uno spadaccino menomato, che rifugge e odia profondamente la violenza. L’handicap sfugge da ogni lettura simbolica alla Zatoichi (il popolare spadaccino cieco, che debutta nel 1962), e viene presentato unicamente come violenza al corpo. Da qui in avanti gli eroi orientali cambieranno volto, fino agli eccessi romantici dell’ heroic bloodshed cantonese. Malavitosi e poliziotti sempre sull’orlo della lacrima, troppo di pancia per non commettere errori. A dimostrazione di questo basti il terzo capitolo della saga A Better Tomorrow. Un disperato melodramma a opera di Tsui Hark, dove ci vengono illustrate le origini di Mark Gor. Non a caso, meno piombo e più occhi umidi delle due uscite precedenti. Si passi poi all’esplicita attrazione omoerotica di Cheap Killers, di Clarence Fok (già vista in chiave occidentale nelle pellicole Lonesome Cowboy di Andy Warhol e Oro Hondo di Giulio Questi). Lo spaghetti western uccide l’eroe tradizionale, portandosi dietro uno strascico anche nella cinematografia italica seguente. Ne Il Grande Racket, Fabio Testi passa presto da risoluto vendicatore a bestiale assassino (si veda l’inquadratura finale), mentre perfino il roccioso Maurizio Merli di Roma Violenta ammette di aver superato ogni limite consentito (e per il suo tipo di caratterizzazione questo è già un passo enorme).
Tutto questo avviene però esternamente all’industria cinematografica statunitense. Per avere un simile avanzamento anche a Hollywood si deve attendere il 1988, con l’uscita del primo Die Hard. Bruce Willis non interpreta un eroe, piuttosto veste i panni di un sacco di carne destinato ad arrivare a fine corsa tumefatto e sanguinante. Dopo anni di propaganda testosteronica, dove il protagonista risolve la situazione in virtù della sua infallibilità, ora il buono punisce i cattivi passando attraverso il martirio (tutto già introdotto, con intenzioni diverse, da Frank Miller nel suo Ritorno del Cavaliere Oscuro). Senza camminate a piedi scalzi su cocci di vetro, sparatorie e cadute impossibili John McLaine non avrebbe mai potuto sconfiggere il malvagio Hans Gruber. L’eroe non ha poteri incredibili, ha soltanto più resistenza dell’uomo comune. Oppure è semplicemente più stupido (come ci suggerisce una recente campagna pubblicitaria).
Passiamo ora a Mark Millar, uno che ha costruito tutta la sua cifra autoriale intorno a un solo concetto, quello del realismo posto come maglio sbattuto sulla povera schiena dell’immaginario. In The Authority rischiano di schiattare milioni di persone, gli Ultimates devono presentare il conto alla Casa Bianca, Superman precipita nel cuore del regime comunista invece che nella controparte statunitense del Mulino Bianco. Perfino Wolverine si permette di quantificare (e quindi di rendere reali) le sue vittime. Kick-Ass è la summa di tutto questo. E’ il suo “post Die Hard” (e considerando che Millar ha la media di tre vignette a pagina, direi che il parallelo con il cinema ci sta tutto), paragonato alla sua visone infantile degli eroi di 1985 (citato esplicitamente in Kick-Ass). E, si noti bene, questa non è una deduzione di chi scrive. Sono gli stessi personaggi del fumetto ad ammetterlo (in una battuta successiva al rientro scolastico del giovane protagonista, picchiato a sangue da una gang durante la sua prima sortita). Se Geoff Johns e Grant Morrison hanno sempre cercato di elevare la figura del supereroe a una sorta di semidivinità, Millar si diverte giocando al ribasso. Un sedicenne, inutile e insicuro. La cui idea migliore è quella di farsi ridurre in poltiglia (nel numero 7). Siamo arrivati alla versione splatter del The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living di Damien Hirst. Se nelle gallerie d’arte uno squalo sotto formaldeide rappresenta l’incapacità di riconoscere la morte (“sembra vivo” è la prima cosa che ci passa per la testa appena vediamo l’opera) nell’immaginario pop si restituisce spessore (e quindi vita) all’eroe riducendolo a una massa informe di tumefazioni. Tutto perfetto, se non fosse per l’ennesima furbata dell’autore di Civil War: Hit Girl.
Espediente narrativo camuffato da personaggio ultracool, la ragazzina killer è il meccanismo che fa crollare tutto il castello di carte della serie. Impossibilitato a spiegare come un teenager possa sconfiggere una potente famiglia mafiosa, Millar introduce l’unico personaggio impossibile in una vicenda che farebbe del realismo la sua chiave di lettura. Disinnescando così quello che sarebbe potuto essere un capolavoro concettuale, una sorta di Napoleon Dynamite incrociato con Watchmen e illustrato dai fratelli Chapman. Il passaggio da eroe come psicolabile assetato di violenza (tutta la serie pare un remake in latex del primo storyarc del Punitore di Ennis) a vittima (fisica) dei propri complessi.
giovedì 4 febbraio 2010
Sarà il progresso, ma fa schifo
Uno dei riti irrinunciabili per chiunque sia solito frequentare concerti non proprio da arena è il classico combo birretta + banchetti delle distro. Ci si arma della bionda bevanda fermentata e, mentre si attendono i primi segni di vita da parte del gruppo spalla, si passa una buona mezz’ora a scartabellare cd e 7 pollici imballati alla bene meglio. Ce li si rigira tra le mani, si scambia qualche opinione con il proprietario, si strappa lo sconto e già che ci sei prendi anche quel disco dei Cattle Decapitation sotto 31G che cercavi da anni (tanto per far capire che alla fine si finisce puntualmente dissanguati).
Ieri sera me ne stavo tranquillo al Magnolia, in attesa dei Dillinger Escape Plan. Mi avvicino al loro banchetto del merchandising, sperando in qualche chicca inaspettata. Leggo “New cd 10 €”, gioisco e metto mano al portafoglio. Solo poi mi accorgo dell’assenza di supporti fisici, tutto a favore di un codice tramite cui è possibile scaricare il disco dal sito ufficiale della band.
Sarà il progresso, ma fa schifo.
Per la cronaca, il concerto è stato spettacolare. E il prossimo disco dei DEP sarà una bomba (vedi anteprima qui sotto).
martedì 2 febbraio 2010
Metal? METAL!: Arsis "Starve for the Devil"
Generalmente i dischi metal non mi fanno impazzire, dopo tutto ho sempre preferito quelli con il suffisso core nella definizione del genere. Eppure l'ultimo degli Arsis non mi lascia tregua, sebbene contenga tra i suoi solchi tutti i possibili luoghi comuni tanto amati dai capelloni borchiati. Ma questa volta qualcosa è diverso, la serietà diventa quasi parodia e il disco ci guadagna. Parecchio. Qui maggiori delucidazioni.
lunedì 1 febbraio 2010
Vendetta, elefanti e poche novità: Ong Bak 3
Io lo posto perchè il cinema action thai è concettualmente uno dei filoni più importanti degli ultimi anni (anzi, il più importante). C'è anche da dire che il trailer qui sopra gasa pochissimo e non pare introdurre grandi novità. Però già si parla di combattimenti con arti dissossati, quindi qualcosa in pentola bolle...
The Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit di Minoru Kawasaki (Jap/2008)
Prendo spunto dal recente teaser di Outrage per poter parlare di una delle ultime comparsate a opera del folle Beat Takeshi: The Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit. Primo kaiju eiga a essere ammesso in concorso al Festival del Cinema di Venezia (grandioso Muller, come sempre), ennesima sortita nel genere mostri di lattice da parte del sempre più cult Minoru Kawasaki (Kalamari Wrestler ed Everyone But Japan Sinks nel suo carniere), oltre che opera genuinamente bizzarra e ferocemente no global.
Monster X parte da un immaginario innocente per colpire bassissimo, tralasciando eccessi grafici a favore di un’ironia che non lascia scampo. La trama è presto detta: durante il G8 un mostro extraterrestre attacca l’isola di Hokkaido, sede del summit. Dopo aver incolpato la Cina del fattaccio, e aver verificato che Guilala non potrebbe comunque lasciare l’isola, i leader mondiali (guidati da quello statunitense) decidono di eliminare la minaccia seduta stante. Tanto per dare una dimostrazione di forza al basso popolino. Con un pretesto simile tirare fuori il peggio di sé è quasi un obbligo, andando dalle iniezioni al Polonio suggerite dal premier sovietico alla camera a gas allestita dalla rappresentante tedesca. Senza bisogno di dirlo tutti i tentativi finiscono con un buco nell’acqua, facendo apparire i grandi 8 come incompetenti capaci solo di urlarsi addosso.
Fortunatamente l’isola è anche sede di un piccolo culto locale, costruito attorno alla bizzarra divinità di Take-Majin (che ha il volto e la voce di Takeshi Kitano). Sarà proprio la gente comune a trovare la forza di risvegliare il guardiano del Lago Toya. Segue scena di lotta in puro stile tokusatsu, comparsata a sorpresa di uno dei presunti nemici del mondo civilizzato e lieto fine. Prima dei titoli di coda un’ultima sferzata al cianuro: mentre i popolani ringraziano con ossequio il loro salvatore, i leader mondiali non perdono l’occasione di prendersi il merito e di pensare a come rilassarsi dopo la situazione d’emergenza.
Sebbene The Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit sia un film minuscolo, dalla fotografia televisiva alle musiche realizzate con un Commodore 64, la quantità di idee e carne al fuoco fa soprassedere su tutti i difetti della pellicola di Kawasaki, ormai autore dotato di una propria poetica inconfondibile e ben definita. E già basterebbe questo per rendere destabilizzante questa perla. Come Muller aveva già intuito a suo tempo, il concetto di autorialità si sta ormai aprendo a ventaglio, permettendo di andare aldilà di una certa cecità da salotto buono. Il linguaggio utilizzato perde di importanza rispetto a un’idea di cinema coerente e a una visione sul mondo lucida e tagliente. Senza parlare del modus operandi di autoproduzione che Minoru porta avanti dai suoi esordi, testimonianza del fatto che il Nostro gira precisamente quello che vuole girare. Senza pressioni da parte dei Weinstein di turno.
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