martedì 9 ottobre 2012

C'era una volta Miike: Ace Attorney di Takashi Miike



La più grossa sfortuna di Miike è sempre stata quella di essere frainteso. Fin dagli anni delle videocassette Tartan - pagate 80.000 Lire al Bloodbuster di Milano - parlare del giapponese significa tirare in ballo inevitabilmente i suoi eccessi misogini e/o violenti. E a ragione, verrebbe da dire. Per oltre un decennio il regista di Osaka è stato sinonimo di cinema estremo, oltre i limiti imposti e sempre foriero di sorprese e picchi di brutalità. Peccato che oltre a questo ci sia un sacco di altra roba, dimenticata o neppure percepita dal neofita dell’ultimo minuto (e qui permettetemi un pizzico di elitismo, visto che sulla barca io ci sono da ormai più di 10 anni). Così succede che per ogni dieci persone pronte a citare gli aghi di Audition o le chiazze di seme di Ichi ne abbiamo solo uno (se va bene) capace di ricordare il magnifico secondo tempo di Dead or Alive 2. Un’isoletta rurale immersa nella canicola estiva, i grilli, i campetti da calcio, le scuole elementari deserte e una piccola comunità ad accogliere i fuori casta (veri protagonisti di ogni opera Miikiana) in una sorta di famiglia allargata (famiglia, altro tema portante del regista maledetto. E qui dovrebbe suonare qualche campanello d'allarme, soprattutto se si considera con che rispetto e tenerezza Takashi la racconta. Vedi il capolavoro Rainy Dog). Dopo l’esplosione di popolarità del 2005 (-post Hostel) il Nostro sembra però aver perso questa indole eversiva. Tra ossequiosi remake di classici del cinema nipponico, trasposizioni live action e poco altro pare che si sia abituato piuttosto rapidamente alle sue nuove vesti di mestierante di lusso. E, per quanto sia dura ammetterlo, non poteva che andare così. Dopo l’exploit di Izo continuare sulla via della violenza cieca sarebbe stato patetico, ad alto rischio macchiettizzazione. Gli altri aspetti importanti della poetica di questo artista erano già stati sviscerati in una serie di titoli minori (dal’infanzia di Young Thugs all’amore queer di Big Bang Love Juvenile A), spesso con risultati altissimi ma quasi sempre ignorati da un pubblico desideroso solo di nuovi fiumi di sangue. A questo punto tanto vale concentrarsi su un aspetto apprezzabilissimo in ogni altro cineasta, fino a poco fa del tutto secondario nella poetica del regista di Gozu: la professionalità.

Sono lontani i tempi delle riprese scentrate e tremolanti, tenute buone solo per mancanza di tempo e denaro (praticamente tutti i film del periodo yakuza sono girati alla “buona la prima”, lo dice lui stesso nel libro Agitator). Oggi si è arrivati al paradosso di questo  di Ace Attorney. Un ottimo giallo giudiziario, girato e fotografato benissimo, perfetto nel trasporre su pellicola gli stilemi della controparte originale (una serie di giochi per le console portatili Nintendo). Non ci sono picchi, impennate o trovate d’autore. Solo la maestria di prendere uno spunto improbabile (un simulatore d’avvocati!) e di renderlo su grande schermo in maniera rigorosa e inattaccabile. Non c’è neppure la genuina carica d’ignoranza dei due Crows Zero, imperfetti ma ben più divertenti di quello che si legge in giro (e profondamente nipponici nella loro idiozia naif e bidimensionale). Ace Attorney è un bel film, semplicemente. Meno sbrodolone di Yattaman, nonostante ricalchi il materiale di partenza con ancora più precisione, ed estremamente serio nel suo incedere (le incursioni nel surreale sono poco più che impunture). Compatto, ritmato, curato in ogni aspetto nonostante ci si renda subito conto che il budget non sia nulla di faraonico (si parla di 2/3 location in tutto). Un bel po’ di pacche sulle spalle al regista, se non fosse che da Miike vorremmo altro. Peccato non essercene accorti prima.

5 commenti:

:A: ha detto...

Sai che però - posto che la questione sia artistica e non solo economica - capisco che a un certo punto uno voglia smettere di essere considerato un ragazzaccio e dimostrare che lui è uno che sa anche fare delle cose ultra-formali? Considerando che già tutti i film del primo periodo basterebbero a farlo passare alla storia del cinema...

MA! ha detto...

The Great Yokai War era un blockbuster per famiglie e al contempo uno dei film più Miikiani di tutta la sua filmografia (sia che per potenza visionaria che per poetica). Rimane l'amarezza solo per quello. Che abbia smesso con la violenza fine a se stessa è un bene, ma annullarsi così è uno stupro (suppongo ben pagato).

:A: ha detto...

Eh, ma Marco...secondo me è anche stanco...mi ricordo (a memoria) che annate come quella del 2000-2001 ha fatto qualcosa come 11 produzioni, tra film ed episodi TV. A oltre 50 anni, si sarà anche stancato...
E secondo me ha bisogno comunque di fare film "alimentari", perchè i film da festival non danno il pane.
E "The Great Yokai War", che è blockbuster ma anche d'autore è una rara eccezione.
Comunque capisco l'amarezza, tra l'altro condivisa.

:A: ha detto...

Inoltre, mi permetto di aggiungere che è la situazione produttiva dell'indusctria cinematografica giapponese (e globale) ad essere cambiata rispetto agli esordi di Miike, e il nostro non ha fatto altro che adattarsi.
Ti riporto questo stralcio da un articolo di Midnight Eye:

"In Miike's case [...] this perceived loss of "edginess" was merely the distant observer's lack of understanding of the profound, ongoing transformation of Japan's film industry. Miike never changed, the film industry did. This industry has become increasingly polarised, with more higher-budgeted productions that rely on formula and commercially viable concepts on the one hand, and more painfully under-funded struggling independents on the other. Today, the middle ground that spawned a film like Dead or Alive simply no longer exists. The yakuza genre has essentially become dormant once again - it certainly will never again be what it was during the 1990s. Production and distribution companies from that middle tier are going bankrupt at an alarming rate."

(Articolo completo qui:
http://www.midnighteye.com/reviews/zebraman-2/)

MA! ha detto...

Tutto vero, compreso calo di produzione a livello globale. Peccato, c'è poco altro da dire.