lunedì 4 luglio 2011

E se Haneke girasse il remake de L'attimo fuggente? Confessions di Tetsuya Nakashima (Jp/2010)



Confessions è la prova cristallina che non si guarda mai abbastanza cinema giapponese. In nessun altro paese al mondo sarebbe stato possibile girare un rape’n’revenge di estrazione autoriale capace di condensare tutto il grosso della trama nella prima mezz’ora (un lunghissimo monologo) e di spendere la restante ora e dieci nel raccontare le conseguenze di quei primi, laceranti minuti. Senza contare che almeno la metà del film in questione è girata al rallentatore. E il resto ha la voce off. Tutto contraddistinto da una cura formale al limite del maniacale, sospesa tra clip musicale e la video arte di Jesper Just. Mica male da un regista conosciuto per quella divertente sciocchezza di Kamikaze Girls (di cui mi ricordo solo una parodia geniale degli Yakuza Papers di Fukasaku) e per il già più memorabile Memories of Matsuko.


Confessions è una storia di vendetta lenta e glaciale, agli antipodi di quelle portate avanti dalla furia di Meiko Kaji nei suoi film. Già il fatto che le vittime di un simile trattamento siano ragazzini di 13 anni (a loro volta boia di una creatura ancora più giovane) dovrebbe far riflettere sull’essenza di questo lavoro. La sensazione è quella che il regista Tetsuya Nakashima voglia rimanere sospeso tra l’estetica dell’amoralità di un Park Chan Wook e lo sguardo clinico sul male di Haneke, tutto all’interno di un contesto ricco di risvolti politici come il sistema educativo giapponese. Il risultato è un film fin troppo aderente al ruolo che vuole ricoprire (il piccolo genio cerebrale e inquietante). Perfino la sceneggiatura a prova di bomba (tutto quello che succede nel film trova motivazioni e spiegazioni nel corso della prima mezz’ora, chirurgicamente) pare quasi un fardello più che un punto a favore. Poi ci sono i picchi visionari, dalle inquadrature della pioggia al rallentatore alle esplosioni mandate al contrario. Gli stacchi comici messi lì solo per chiuderti lo stomaco, le immagini sfuocate, la pellicola invecchiata accanto all'altissima definizione (a immortale una fotografia da set fotografico in sala operatoria). I lunghissimi feedback di chitarra a fare da colonna sonora e un inedito dei Radiohead per i picchi di lirismo (niente battute, funziona da Dio).


Il risultato è un film della potenza di una bomba atomica, raffinato in ogni suo particolare e che scorre velocissimo, nonostante un montaggio tutto basato sulla sospensione e una sceneggiatura che non si fa problemi a rimbalzare avanti e indietro come una pallina da ping-pong. Apprezzabilissima l’assenza totale di morale o moralismi. Si finisce per provare empatia per un infanticida e si condanna la sua aguzzina. Ancora una volta ci ricordano come il male abbia sempre base nel nostro passato.


E il problema dove sta? Sta nel fatto che il rape’n’revenge nasce come filone bestiale, destrorso e volutamente fuori controllo. Da questo punto di vista Confessions si collega direttamente alla trilogia della vendetta del già citato Park Chan Wook. Che però, si noti bene, aveva già pagato il suo pegno ai classici del genere con il primo capitolo della sua opera. Sympathy for Mr. Vengeance non era che pura furia nichilista, un plotone d’esecuzione dove tutti finiscono a terra. La base da cui si sarebbe sviluppato tutto il discorso indispensabile per arrivare alla sua controparte femminile. Partendo da un film onesto e brutale il regista sud coreano è ginuto al suo capolavoro, passando per il filtro commerciale del capitolo intermedio. Tetsuya Nakashima scavalca questo passaggio e si dimentica di Christina Lindberg, di Enrico Maria Salerno, dei coniugi Collingwood, della prigioniera #701 e si passa subito alla Jeanne Moreau della Sposa in Nero di Truffaut. Tradotto per chi non sa leggere tra le righe: manca la pancia. Manca Fabio Testi che agita come un primate il suo fucile a pompa ancora fumante. Manca il “That's okay. I don't either” di Dustin Hoffman. Manca il piacere (solo quello) di vedere qualcosa di fondamentalmente sbagliato andare come dovrebbe andare. Motore primo, questo, di tutti i film sulla giustizia sommaria.


Quello che rimane alla fine è un gran lavoro dove e forma e contenuto si sposano alla perfezione. Proprio come il suo protagonista anche l’insieme pecca di supponenza e finisce per mancare il bersaglio. Poco male perché, a parte il vago retrogusto di compitino studiato a tavolino, si perde il conto dei momenti da mascella a terra già pochi minuti dopo l’avvio della pellicola. Puro humus per il cervello. Da recuperare assolutamente.


4 commenti:

:A: ha detto...

Tutti molto severi con questo film...
Eppure... senza perdermi in tecnicismi, semplifico ai minimi termini: se non fosse stato girato in maniera così algida, sarebbe stato inguardabile.
E già così l'ho trovato al limite della sostenibilità. Molto più rivoltante di un qualsiasi Grotesque, per dire.

Faust VIII ha detto...

Gran bella analisi. E gran bel film. L'ho visto in streaming qualche tempo fa (segnalato da qualche benefattore su Twitter o su Tumblr, non ricordo bene) e durante la visione ricordo di aver pensato: "Ma perché diavolo non ho saputo prima dell'esistenza di questo film?"

I distributori pretendono di conoscere i gusti del pubblico (di tutto un potenziale pubblico, nonostante sia composto da persone dai gusti più diversi) e non solo non portano nelle sale nostrane film come questi, ma non ne fanno sapere nulla. Idem per quanto riguarda la stampa "specializzata". Bah.

Comunque si, un rape'n'revenge atipico, dove entrambe le parti sono guidate dalla tristezza e da un passato doloroso. Non ci sono vincitori né vinti. Né buoni, né cattivi. Una cosa di cui sono sempre grato alla cinematografia giapponese, dopo anni di eroi da film d'azione americani che hanno sempre ragione, nonostante le atrocità che anche loro commettono, solo, a cuor leggero.

MA! ha detto...

@A: Che sia algido è un bene, siamo tutti d'accordo. Però un minimo di pancia lo potevano mettere. Ho ben capito che tutto il film deve essere calcolato al millimetro e freddo come una lama di rasoio perché così si muove la protagonista, però l'impressione è che tutto sia fatto fin troppo bene. Non esiste scarto. Pensa al montaggio di Cane di Paglia. Parte tranquillo e rilassato, finisce che è un delirio. Tutto è perfetto, tecnicamente e narrativamente eccellente. Però la vena di follia tipica della vendetta (perché la vendetta è irrazionale, questione di economia)emerge comunque. Confessions invece pare scritto da uno che cerca di immaginarsi da fuori come possa essere vissuta tale situazione.

@Faust: il cinema americano sta ancora pagando lo scotto degli anni '80. Magari dopo questa crisi qualcosa cambierà (vedi Super), però per ora mi pare di essere ancora nel regno di Reagan. Se penso che nel cinema orientale l'eroe capace di piangere e fallire è sempre stato presente (per lo meno dagli anni '70) capisco perchè sono sempre stato più propenso a godermi quanto prodotto nell'altra metà del mondo.

Faust VIII ha detto...

Credo che in oriente sia sempre stato così. Basta pensare alla storia (anche romanzata e a tutto quello che ne è derivato) di Minamoto no Yoshitsune.