Mi scuso per la latitanza ma sono super preso con il lavoro. Settimana prossima poi sarò in trasferta fino a venerdì. Interrompo il silenzio forzato solo per parlare di uno dei dischi più importanti dell'anno.
God is War è la perfetta rappresentazione della scena estrema odierna. Non si sta parlando di un disco fondamentale , ma dello strumento più rapido e soddisfacente per potersi aggiornare in una trentina di minuti su quanto possa offrire oggi come oggi il mondo del metallo più intransigente. Gli All Pigs Must Die suonano un HC feroce e slabbrato, arricchito da tutta una serie di influenze che non fanno che caricarlo di attitudine ultranegativa. E allora vai con lo stacco grind, il riff black metal e il ricamo post-core. Immancabile la traccia sludge e svariati rallentamenti distribuiti con gusto per tutta la durate del disco. Suoni abrasivi e bestiali del solito Kurt Ballou, vate di tutta questa nuova rincorsa alle radici del genere. Copertina di Florian Bertmer e pubblicazione a carico della rinata Southern Lord. Ed è proprio all’etichetta fondata da Greg Anderson e Stephen O’Malley (ndr: uno dei miei grafici preferiti di sempre) che ci si deve riferire per poter capire al meglio questa ondata di suoni catramosi e vocals al vetriolo. Dopo anni di militanza in campo sludge e doom ora il rooster della label di Los Angeles può vantare un buon numero di band totalmente basate sull’impatto il più rovinoso possibile: dal black’n’roll dei Craft passando per il d-beat di Acephalix e il darkHC (se si può chiamare così) di Alpinist e The Secret. Poi tonnellate di death old-school, crust e tutta quella varietà di generi che fanno dell’ermetismo e della totale mancanza di appeal commerciale il loro personale moto di orgoglio (e infatti tutti ne parlano, compresa affannosa rincorsa al carro dei vincitori da parte di tutte le altre etichette). Saranno i tempi bui che stiamo vivendo, ma dopo l’esplosione commerciale del deathcore di un paio di anni or sono ci stiamo spingendo ancora più in la nell’accettazione mainstream di produzioni che fino a poco tempo fa sarebbero state rilegate all’ultranicchia (naturalmente mi riferisco a paesi dove abbia un senso parlare di trend musicali, non certo l’immobile Italia. Tanto per farvi capire di cosa si parla sappiate che i putridissimi Craft in Svezia sono finiti in top10). Considerazioni sociologiche a parte è un gran bel sentire, una sorprendente boccata d’aria viziata e mefitica. Con l’immagine tutta relegata al solito teatrino di pentacoli, teschi e scritte in gotico ci si può concentrare su di una proposta musicale basata sull’idea del riff come motore principe di tutta la macchina da guerra/canzone. E allora eccoci messi di fronte a costruzioni chitarristiche tanto elementari quanto monolitiche, potenziate da batterie secchissime e da urlatori al limite del barbarico. Il paradosso sta nel fatto che, per quanto ostile e bellicosa, è musica di consumo immediato, diretta e sincera come un pugno in pieno volto. Infilo il disco nel lettore e in tempo zero sono travolto da una gragnola di power chord dalla potenza di un fucile caricato a pallettoni. Tutto lì. Non c’è stratificazione o richiami ad altro. Solo pura e semplice malvagità, nella sua variante più ignorante. Finalmente.
2 commenti:
pensa che e' tutta colpa dei converge del post jane doe...che figata pure l'ep dei giaw spacca!
Eh, sono colpe gravi! Comunque sono giorni strani. Sto perfino aspettando con la bava alla bocca il prossimo Machine Head. Ho ripreso in mano due giorni fa The Blackening e non me lo ricordavo così ignorante. Gran discone, di sicuro il loro meglio. Altro che le sviate modaiole di The Burning Red (che avevo originale!).
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