domenica 23 dicembre 2012

Nessuno mi può giudicare (anche perché in Italia non esce): Dredd di Pete Travis



Aspettavo con ansia l’occasione di potermi gustare con calma, e in maniera più o meno dignitosa, la nuova versione cinematografica di uno dei miei fumetti preferiti: Judge Dredd. Del primo esperimento in merito, il disastro con Stallone, ricordo con piacere solo il robot animato da un allora venticinquenne (ma già incredibile) Chris Cunningham. Per il resto nulla da segnalare. La brutale violenza e la carica anarcoide del materiale di partenza rimasero ben impresse sulle pagine di 2000 AD, consegnando agli spettatori poco più di uno spettacolone hollywoodiano senza molto da dire. Occasione persa, ma forse i tempi non erano ancora maturi.

Le cose sono andate in maniera ben diversa con questa nuova trasposizione, eppure il risultato non ha convinto come ci si aspettava. Detto in tutta sincerità non ho ancora capito il perché. Come vedremo il film è ottimo, ma al botteghino (e ai radar degli appassionati, quelli in grado di trasformarlo in long-seller solo grazie al passaparola) non se lo è filato nessuno.

Andiamo per gradi e vediamo di illustrare gli aspetti positivi della pellicola di Pete Travis. Prima di tutto è splendida a vedersi. La fotografia di Anthony Dod Mantle (va bene il premio Oscar per i lavori con Danny Boyle, ma il suo capolavoro rimane Antichrist di Von Trier) è una bomba. Probabilmente la migliore che abbia visto quest’anno. Sporcizia, colori acidissimi, desaturazioni nei punti giusti. Una bella differenza tra chi nella fantascienza pare solo rincorrere l’estetica Apple a tutti i costi o certe palette cromatiche ormai stantie da dieci anni. L’idea di slum futuristico, di caldo, di età media bassissima viene resa alla perfezione. Tutto è sudaticcio. A questa va ad associarsi una regia all’altezza, senza mezze misure. Grazie all’espediente narrativo della droga che rallenta la percezione del mondo è stato possibile sposare riprese da RealTV con rallenty iperstilizzati. Guarda caso quasi sempre utilizzati per inscenare violenza estrema, una roba che non si vedeva al cinema da un sacco di tempo. Che si tratti di una faccia attraversata da un proiettile o di un corpo che si sfascia a terra dopo un volo di centinaia di metri. Detto questo dovreste aver capito quale atmosfera si respira in questi 90 minuti scarsi. Brutalità a vagonate. Siamo dalle parti di Punisher: War Zone, altro gioiello poco capito.

Passiamo alla sceneggiatura, praticamente identica a quella di The Raid. Un palazzo, un boss all’ultimo piano, un eroe (in questo caso due), tonnellate di sgherri. Tralasciando le sterili ipotesi di plagio (come se bastasse così poco tempo per mettere assieme un film) non ci penso neanche per scherzo a lamentarmi di aver visto nello stesso anno due film costruiti su di un’idea così figa. Fine della questione.

Ma allora cosa è che non funziona in Dredd? Abbiamo una sorta di enorme straight to video ultraviolento, girato benissimo e interpretato ancora meglio. Tutto quello che ho sempre sperato di trovare nel cinema di genere finalmente compresso nella stessa pellicola: grandi mezzi a disposizione di piccole produzioni. E allora? Cosa ha fatto da palla al piede al momento di correre al botteghino? Premettendo che la risposta non l’ho ancora trovata (Dredd lo consiglio a chiunque e se dovessi dargli un voto numerico non sarebbe sotto l’8), provo ad arrivarci analizzando il suo già citato gemello The Raid.

Stessa storia, stessa violenza priva di umorismo, stesso odio per ricami e abbellimenti da quattro soldi. Eppure uno è stato un flop clamoroso e l’altro è probabilmente il film più importante dell’anno. Esagerato definirlo tale? Considerando che è stato...

1) girato in una nazione sconosciuta alla gran parte del mondo occidentale (chiedete a qualcuno di indicarvela sul mappamondo!),
2) con un budget inesistente,
3) basandosi totalmente su di un immaginario su cui nessuno pareva scommettere una lira,

...e che poi è finito per...

1) essere distribuito ovunque (due volte solo negli Stati Uniti),
2) raccogliendo punteggi pieni su ogni testata,
3) diventando istantaneamente un paradigma del cinema d’azione (mentre nelle industrie già avviate si cerca ancora di abbindolare qualcuno con ironia/nostalgia/spettacolarità gratuita),
4) incassando non certo cifre da capogiro ma praticamente al netto (anche il marketing è stato nullo, basandosi esclusivamente sul passaparola spontaneo degli appassionati) e diventando comunque uno di quei titoli che in home video faranno macelli,

...direi che il suo titolo se lo è meritato, anche solo per potenza deflagrante.

Nonostante il confronto schiacciante Dredd non merita comunque la fine che ha fatto. Anche perché, a conti fatti, di inferiore ha solo la performance atletica del protagonista. Mi viene da pensare che la differenza stia tutta nelle percezione, in una sorta di carisma impalpabile e irraggiungibile cercando di pianificare le cose a tavolino.

Oppure nella radicalità dell’operazione. In Dredd il plot del palazzo è incastonato in mondo vivo e particolareggiato, mentre in The Raid il mondo è quel palazzo. In Dredd il budget è basso ma comunque sui 50.000.000 di dollari, con tanto di partecipazione di star Hollywoodiane (ottimo Karl Urban), mentre The Raid spunta veramente dal nulla (in quanti abbiamo visto Merantau prima del botto?). In Dredd la violenza è estrema ma riconducibile a certe sparatorie comuni nell’exploitation dei ‘70-‘80 mentre in The Raid è talmente ferale e disperata da disturbare. Forse la carica di questo piccolo film Indonesiano deriva proprio dal suo essere alieno, mentre le vicende del Giudice vengono viste come una sorta di piccolo blockbuster. Quindi roba di serie B, roba da scartare a priori (che è poi la fine che stava rischiando di fare anche KickAss). Se non sono enormi non li vogliamo, verrebbe da dire. Eppure sembrerebbe che anche questa legge stia facendo un po’ il suo tempo (vedi tutta una serie di – meritati – flop infilati quest’anno dalle major).

Cosa abbia castrato Dredd non l’ho ancora capito, rimane il fatto che il film in sé è ottimo e fa tranquillamente le scarpe a tanta paccottiglia fantascientifica ben più in vista. Nonostante sia un film piccolino così.

venerdì 21 dicembre 2012

C'era una volta Miike (reprise)


Sul nuovissimo numero di Players trovate un mio articolo - sul nostalgico andante, siete avvertiti - incentrato sulla carriera del buon, vecchio Miike. Prendetelo come un approfondimento di quanto già detto in fase di recensione di Ace Attorney.

giovedì 20 dicembre 2012

Hell Yeah!


Persi negli anni '90? Allora cliccate su Conversazioni sul Fumetto e subite un nuovo articoletto da parte del sottoscritto. Questa volta parliamo di Hell Yeah, nuova serie Image che non ho ancora capito se mi piace o meno.

mercoledì 12 dicembre 2012

Stare male: The Act of Killing



Se leggete questo blog da abbastanza tempo vi sarete già sorbiti almeno una o due tirate da parte del sottoscritto sul fatto che tutta la menata "demoni interiori - i veri mostri sono dentro di noi - altre banalità agghiaccianti sul livello" sia in realtà ascrivibile, senza tante remore, alla cerchia dei  "problemi da primo mondo". Con questo non voglio asserire che le varie patologie della psiche siano un sciocchezza, anzi. Dico solo che se trovi la forza di atteggiarti da artista maledetto probabilmente tanto male non stai. E quindi tanti saluti a chi invece sta male veramente.

Terminata questa insostenibile predica da anziano passiamo alla segnalazione del giorno (rubata dal solito Matteo Bittanti e pubblicata anche su Wired. Poco importa, qui il punto è un altro), che conferma appieno la mia teoria (e sappiate che se dopo aver visto il trailer sopra e aver letto la spiegazione non state male allora i veri mostri siete voi ).

The Act of Killing è una sorta di enorme candid camera. Il regista Joshua Oppenheimer si è recato in Indonesia, ridente nazione nota per lo sterminio di un milione di comunisti, e una volta arrivato ha fatto credere  agli aguzzini - oggi celebrati come eroi nazionali dai concittadini - di voler costruire attorno alle loro gesta un kolossal commisurato alla statura dei protagonisti. Da buoni subumani quali sono questi si fanno trascinare dall'entusiasmo - come se fosse normale incensare gente che ha compiuto centinaia di omicidi a mani nude - e non possono fare a meno di offrire tutta la loro consulenza per una migliore rappresentazione. 

Adesso pensate all'ultima intervista in cui qualche fenomeno cercava di convincervi come dietro alla sua arte si nascondesse una lato oscuro, oppure all'ennesimo horror metaforico dove il mostro più terribile si nasconde nelle pieghe del conformismo (zzz... zzz...). Poi guardatevi il trailer qui sopra, dove aguzzini che hanno ucciso centinaia di migliaia (centinaia di migliaia) di donne e bambini ridono e vivono come se nulla fosse. E ditemi se non avevo ragione.

domenica 9 dicembre 2012

I REC U: il film che vorrete vedere a tutti i costi



La lavorazione di I REC U (aka il film che dimostrerà a tutti come anche in Italia si possano girare film paragonabili a quelli da invidiare alle produzioni estere - e non si parla di budget, quanto di inventiva e talento - aka la consacrazione definitiva di Federico Sfascia) pare sia ormai in dirittura di arrivo. Qui sopra trovate il trailer definitivo. Se dopo averlo visto non avete voglia di recuperare a ogni costo il film intero evidentemente vi meritate lo sconsolante deserto cinematografico nostrano (escluse webseries, dove invece - dai The Jackal in avanti - pare ci sia un sacco di roba fica. Guarda caso in un campo dove certi vecchiardi non sanno dove metterci le mani perché probabilmente manco sanno che esiste).

venerdì 7 dicembre 2012

Memory of a Broken Dimension


Il suo stesso creatore ha definito questo strano videogame come un simulatore d'interruzione trasmissione dati. Vissuta da dentro.

Che il risultato non sia esattamente la cosa più giocabile e divertente offerta dall'industria videoludica mi pare chiaro. Come è altrettanto lapalissiano però che sono pochissimi i titoli mainstream capaci di offrire una visione così potente, tanto da riuscire a scalfire canoni estetici ormai fuori tempo massimo.

Come ci si riesce? Fatevi un giro sul sito ufficiale di questo gioiello e ditemi dove avete visto qualcosa di così perfetto nel fondere forma e contenuto. Come si dice... di robe belle ne è pieno il mondo, ma di idee veramente importanti se ne vedono poche. La direzione artistica di Memory of a Broken Dimension è fra quelle.




mercoledì 5 dicembre 2012

Coprofagia portami via: 100% Shit di Officina Infernale



Buona parte di 100% Shit è dedicata e/o attinente al grindcore. Per chi non fosse avvezzo a tali sonorità: si sta parlando di uno dei risultati massimi della destrutturazione sonora. Strappo definitivo che avrebbe portato, nel corso degli anni, a una concezione della musica totalmente slegata dai parametri tradizionali. Definibile a grandi linee come una deriva selvaggia e fuori controllo del punk più metallizzato (e viceversa). In realtà si tratta di un genere che si è sempre distinto prima di tutto per la sua implacabile forza centripeta. Il grind è un buco nero costantemente impegnato a risucchiare tutta la lordura che gli gravita attorno. Non è sfumato o ricco di sfaccettature, carico di significati o portatore di chissà quali raffinate riflessioni. Si parla di pura e semplice rabbia espressa tramite schegge soniche di pochi secondi. Principali ingredienti: ritmiche caotiche, vocals subumane, distorsioni ben oltre l’accettabile. E l’assoluta incapacità di scendere a compromessi. Penso che in più di 25 anni di storia non sia mai uscito un disco di grind definibile come morbido o accessibile. Siamo sempre sullo stesso livello di demarcazione tra bianco e nero. Il grigio non è contemplato.

La raccolta di 20 anni di attività di Officina Infernale ne è la perfetta trasposizione su carta. Chi ci vorrà vedere metafore della nostra società o argute riflessioni sul nuovo ventennio televisivo ne rimarrà parecchio deluso. Se invece andate cercando un qualcosa paragonabile a una bomba tubo (artigianale, naturalmente) fatta detonare durante le audizioni  di qualche reality show allora siete sulla strada giusta. Naturalmente ci vuole lo stomaco (e un palato di amianto) per apprezzare certe cose.

Invece di cercare una preview del volume, scaricatevi World Extermination degli Insect Warfare. Riuscite ad apprezzarne la tensione costante, il continuo sputare su tutto, il nichilismo rachitico, la reiterazione dell’aggressività,  la totale mancanza di ragionevolezza e buon gusto? Allora amerete 100% Shit. Avete da ridire su uno qualsiasi di questi punti? Lasciate perdere. Seriamente.   

Il volume è corposo, pieno di roba, incontenibile. Uno scrigno del male dove si passa dalle cover per gruppi power violence alla pornografia in bassa definizione. Poi ci sono i ferali attacchi all’immobilismo italico, ai fumetti, alla superficialità e al culto delle apparenze. Tutto passando prima di tutto da una costante demolizione dell’autore stesso di queste pagine, così irte di aculei verso il mondo esterno. Non si salva niente e nessuno, a partire proprio dal pulpito su cui un sacco di gente si sarebbe irta a sentenziare sul volgo. 

Personalmente di tutte le derive stilistiche del Moz non riesco a farmi piacere nulla come adoro questo suo bianco e nero sporco e sgranato. Dentro ci vedo tonnellate di flyer per concerti da dieci persone, fanzine fotocopiate spedite da chissà quale parte d’Europa, copie in VHS di splatter giapponesi (spesso vendute proprio a quei concerti da dieci persone). Tutto quel putridume che prima dell’era Internet era autentica ribellione verso il mercato del premasticato. Ora un sacco di quella carica autarchica è andata persa, ma farci un giro di tanto in tanto non può fare che bene.

martedì 4 dicembre 2012

Non tutti gli avvocati si nutrono di carogne


Per lo meno non il protagonista di questo fumetto. Lui preferisce cacciare.

Comunque avete capito bene. Una serie che parla di una tigre avvocato. Nulla di più, nulla di meno. Finanziata su Indiegogo e disponibile per l'acquisto sul sito ufficiale. Non ho ancora avuto il coraggio di ordinare i primi due numeri perché prima devo capire se il tutto tende più alla cazzata galattica o al colpo di genio. Le storielle lette in coda a qualche uscita Image (una spintarella da poco, direi) lasciavano intendere una sorta di legal drama con personaggi alla Spillane (e una tigre protagonista, ricordiamolo). Il che potrebbe rendere il tutto estremamente umoristico senza il bisogno di essere una serie comica. Rimane il fatto che la cover del primo numero è un capolavoro. Ci facessero le t-shirt l'acquisto sarebbe obbligatorio.


mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo lato oscuro della Luna: Sunpocrisy - Samaroid Diorama



Circa 10/15 anni fa gli Earthtone9 erano il gruppo da adorare a ogni costo. Ritmiche claustrofobiche, melodie stranianti e la fantastica voce di Karl Middleton a elevare il tutto a livelli quasi sempre stellari. Erano talmente pompati da certa critica (Kerrang era praticamente la loro fanzina personale) da essere definiti a più riprese come i Pink Floyd del post-HC. Ora siamo nel 2012, dei Nostri si sono perse le tracce (anche se si parla di inevitabile reunion) mentre i Sunpocrisy sono fuori con Samaroid Dioramas. E un sacco di gente (me compreso, fino a una settimana fa) non si rende conto che l’impegnativo paragone iniziato negli anni ’90 oggi ha raggiunto un nuovo standard. 

Facciamola breve. Difficilmente riprendendo gli ascolti degli ultimi 12 mesi riuscirete a trovare qualcosa di più sottilmente complesso dell’ultimo lavoro dei bresciani.

Per capire di cosa si stia parlando pensate a una serie di cartoline, dove la profondità è stata scomposta in una serie di livelli semitrasparenti. Per quanto ci si possa sforzare di asciugare la visione ogni sguardo sarà sempre e comunque  il frutto di una serie di sovrapposizioni e di fusioni tra gli strati in cui è stato sezionato il paesaggio. Lo spazio appare sospeso tra due e tre dimensioni, trasformandosi in un dedalo di frammenti sospesi in un ambiente neutro. Immaginate che questi paesaggi non siano reali, ma si presentino a loro volta come il frutto di fusioni tra diverse fonti. A questo punto non possiamo neppure consolarci pensando al risultato finale come una sorta di complesso mosaico composto da semplici frammenti. Tutto è già piuttosto complesso alla partenza.

Eppure a un ascolto distratto Samaroid Dioramas è tutt’altro che ostile. Non c’è spazio per l’onanismo math così come per certa schizofrenia -core da quattro soldi. Per definire la sensazione più potente provata durante l’ascolto si dovrebbe parlare, come già accennato, di fusione. E non è una cosa da poco, viste e considerate le libertà che ogni strumento si prende lungo tutto il minutaggio del disco. Da presupposti tragicamente dispersivi si è arrivati a un risultato coeso come un cubo di granito. Se volessimo inquadrare i Nostri nell'odiosa definizione di post-HC questa compattezza sarebbe già indicativa della qualità assoluta del lavoro in questione. Mentre un sacco di band iper-blasonate nel corso degli anni si sono perse in composizioni sbrindellate e gratuite i Sunpocrisy sono riusciti a puntare più in alto percorrendo al contempo strade più accidentate (Samaroid Dioramas avrà certo difetti, ma è un piccolo prezzo da pagare per stringere tra le mani un lavoro privo di qualsiasi tipo di banalità o faciloneria). Basta questo per capire che stiamo parlando di una delle uscite dell'anno (e considerando che solo la settimana scorsa ho detto la stessa cosa di Agnus Dei dei The Secret mi viene da pensare che la scena musicale italiana non sia messa così male...). Smettetela quindi di chiedervi se il paragone con la band di Roger Waters sia esagerato o meno. Procuratevi questo disco e ascoltatevelo fino a sviscerarne ogni segreto.

lunedì 26 novembre 2012

Sicuramente meglio del 2: Thankskilling 3 di Jordan Downey



Ammetto che mi sono approcciato a Thankskilling 3 con le peggiori intenzioni. Nonostante il trailer contenesse in egual misura sequenze esaltanti e odiosi ammicchi al pubblico del “so bad, so good” la presenza di quest’ultimi rischiava di prendere la meglio. Manco a dirlo invece la fascinazione per un intero lungometraggio realizzato con le marionette è stata troppo forte e, alla fine, ho ceduto (chi l’avrebbe mai detto?). 

Sorpresa, sorpresa... il film non è affatto male. In primis per i diversi picchi di follia lisergica che lo punteggiano. In secondo luogo per i pochissimi problemi che si fa a giocare con la sgradevolezza più cristallina e ignorante. A tratti pare di essere tornati ai tempi del famigerato Showden Dozen, uno dei pochissimi show televisivi capaci di infrangere (sbricciolare/polverizzare/vaporizzare) realmente il muro del politicamente corretto. Tutto consegnato agli spettatori in una confezione sfavillante, visto che probabilmente gran parte dei 100.000 dollari di budget sono stati spesi nella fotografia. Soluzione saggia, indispensabile per sfuggire al rischio di poverata digitale. Un’estetica che, a parte pochissimi casi giustificati da una forte spinta autoriale (il Dogma di Trier, qualcosa di Korine e Visitor Q di Miike), ha sempre ammazzato e sepolto ogni buona intenzione. Quindi tanto di cappello a Jordan Downey per la consapevolezza con cui ha affrontato la sua prima prova a budget medio/grosso, scegliendo di fare un passo indietro e di assumere almeno un professionista capace di dare solidità all'insieme. Tra le altre cose la capacità di capire i limiti del proprio lavoro è proprio matrice e motore di tutto il plot, interamente basato sul totale fallimento di Thankskilling 2. Definito a più riprese come il peggior film mai girato (anche se in realtà non è mai esistito se non in alcuni spezzo di questo terzo capitolo. Prendiamolo come una sorta di McGuffin metacinematografico). Per deridere la pochezza dell’operazione si arriva perfino a citare alla lettera la leggenda metropolitana legata al famigerato E.T. per Atari 2600 (quella per cui milioni di cartucce invendute di quello che venne definito come il “peggior videogame di tutti i tempi” vennero seppellite ad Alamogordo, New Mexico. Ridente cittadina nota per aver ospitato il primo test nucleare degli Stati Uniti e per avere una solida tradizione di giunte comunali non proprio brillantissime).

A tratti l’umorismo è talmente sgraziato e malevolo da strappare risate sincere, altre volte la necessità di riempire a forza quasi cento minuti di tacchini killer e bruchi alieni dalle abitudini equivoche porta a soluzioni stucchevoli. La realtà è che siamo ben lontani dalla coesione dei migliori Troma movie post renaissance. Quelle che funzionano veramente sono le singole gag, i personaggi (tutti) e l’idea alla base. Il paragone con Showden Dozen torna a essere utile per definire un lavoro che si pone a cavallo tra sbruffonata amatoriale e tentativo di creare un cult a tavolino. Colpisce come certi scivoloni ingiustificabili convivano con una ricerca maniacale di aspetti magari non così centrali (i set sempre pieni roba, perfetti per trasmettere certe sensazioni alla white trash). Si ha l’impressione che la direzione dell’insieme non sia del tutto chiara. O che le effettive capacità tecniche del regista non siano all'altezza delle sue idee. O viceversa.

Detto questo, e nonostante verso il finale la voglia di premere sul  ffwd sia impellente, il film una visione la vale. Molto più di certa robaccia che invece sul grande schermo riesce ad arrivarci senza tanti problemi. Se si fosse trattata di una webseries, con i suoi tempi e le sue limitazioni percettive (tenere alta l’attenzione per i 10 minuti di una puntata è  molto meno impegnativo che farlo per tutta la lunghezza di un lungometraggio), probabilmente staremmo già urlando al cult. Così invece non possiamo che levarci il cappello di fronte al coraggio e ai picchi di genio del regista Jordan Downey, farci quattro risate e poco altro. Il meta bmovie definitivo rimane (e rimarrà ancora per lunghissimo tempo)  Terror Firmer.

mercoledì 14 novembre 2012

The Secret - Agnus Dei



Nel mio personalissimo vocabolario colloquiale l’aggettivo figo/a potrebbe essere definito come la versione contratta di “cosa giusta al momento giusto”. Questo non implica la vendita di migliaia di copie, la presenza sulla bocca di tutti o una popolarità di massa. Anzi, spesso e volentieri le cose fighe sono ad appannaggio di pochi. E’ un po’ come la divisione tra mercato di massa ed early adopter. Prendi un autore come Louis C.K. E’ un genio, ma farà ridere solo chi di comicità ne sa parecchio. Non a caso è stato definito come comico per comici. Dal suo bacino di idee cabarettisti più popolari attingeranno allo sfinimento, annacquando e arrivando con quel pizzico in ritardo che basta per conquistare la casalinga di Voghera. In questo caso il vero figo è Louis, perché è lui il comico giusto al momento giusto. Sta a noi capirlo (e infatti io lo conosco perché mi ci hanno introdotto altri, mica è farina del mio sacco) e approfittarne.

Definita questa cosa potrei esaurire la recensione del disco in una sola riga.
Band figa. Disco figo. Produttore figo. Tutto fuori per l’etichetta più figa del pianeta. Punto.

Mentre noi stiamo qui ad arrabattarci sulle nostre miserie i triestini The Secret se ne vanno in America e - nell’anno che ci ha consegnato The Faceless, Between the Buried and Me, Converge, Pig Destroyer, Cattle Decapitation, High On Fire - spiazzano tutti con un disco inarrivabile. Non sentivo una roba così gelida dai tempi del capolavorissimo Storm of the Light’s Bane dei Dissection. Meno abrasivo e malvagio del precedente Solve et Coagula, Agnus Dei è invece raffinato e bestiale allo stesso tempo. Doloroso come una rasoiata in pieno volto eppure sempre accessibile e coinvolgente. La copertina ne è perfetta definizione. Uno di quegli ossari dove l'orrore diventa sublime e potresti perfino definirlo "bello" o "suggestivo". Eppure parli di morti ammucchiati (se siete fanatici di Ballard tirate pure fuori la vostra copia di Crash. Il senso è lo stesso).

Tornando al discorso del "figo". Potrà non piacere, ma questo è il suono. La colonna sonora del 2012. Conta solo questo.

Essere sul pezzo.

Essere il pezzo. 

Raccontare la realtà con suggestioni destinate a durare. Scattare un’istantanea ipereale e dimostrare di essere lucidissimi nonostante ti capiscano in pochi. Sfruttare materia ignorante come black metal, hardcore e crust per arrivare a risultati altissimi. La definizione di artista, che con il maestro artigiano non ha nulla a cui spartire.

Io i The Secret li farei suonare alla White Cube, non in qualche locale sperduto in zone industriali. L'equivalente musicale di quelle opere d'avanguardia realizzate con materiali primordiali. Di dischi più belli ne sono usciti e ne usciranno un sacco (vedi l'ultimo Cattle Decapitation, superiore in tutto) ma dubito che saranno così perfettamente incastrati nei nostri giorni come questo Agnus Dei. E per quello che mi riguarda nulla conta di più.

martedì 13 novembre 2012

Arrivano i Bravest Warriors!



Primo episodio della nuova web serie di Pendleton Ward (quello di Adventure Time): Bravest Warriors. Poche storie. Saranno belli i film in 3d, le produzioni Pixar, la nuova Disney e così via. Però io questo tizio lo adoro.

E spero sempre che Genndy Tartakovsky torni al 2d (anche a costo di sembrare ripetitivo... ribeccatevi questo e rimanete sbalorditi ancora una volta).

Che cavolo stai facendo, Johnnie?

DRUG WAR (2012) Trailer from Richard Lormand on Vimeo.

Non provarci neanche a farmi credere che quell'effetto orrendo in digitale lo metti nel film finito. Perché è una roba talmente brutta da far sparire tutto il resto del trailer, che invece tanto male non è. Anche se nulla di straordinario, bisogna dirlo. Speriamo solo non ti stia giocando la carta della macchiettizzazione a tutti i costi. Con le sparatorie e le scene brutali inserite a forza solo perché sei Johnnie To e quindi così deve essere (ti avverto: sta scrivendo una delle quattro persone al mondo a cui Sparrow è piaciuto almeno quanto i tuoi lavori più blasonati).

Ricordati che un sacco di gente mette tra i suoi/tuoi film del cuore i due Election (dove non si sparava un colpo di pistola) o quella follia fantasy di The Heroic Trio (che anno quel 1993! Quattro film diretti di cui almeno tre capolavori da consegnare ai posteri). Ma tu lo sai benissimo: io mi lamento un sacco, eppure ogni volta che vedo una Beretta in mano a uno dei tuoi protagonisti mi emoziono sempre.

Detto questo devo ammettere che infilare una bella esecuzione capitale nel trailer del tuo primo film girato in Cina è un ottimo modo per mettere in chiaro un sacco di robe. Come minimo scopriremo che è tutta una montatura e nessuno muore veramente (in quel modo lì), però almeno qualcosa per tranquillizzare noi fan lo hai fatto. 

domenica 11 novembre 2012

Ancora best worst movie: Miami Connection


Pare che questa rincorsa al best worst movie anni '80 non abbia mai fine. Da qualche giorno a questa parte QUALSIASI sito di cinema statunitense è impazzito per questo Miami Connection. Oscura gemma del 1987 tirata a lucido da quei geni della Drafthouse Films (gente che riesce a far convivere nel loro catalogo Cannon Films e Kim Ki Duk) e pronta alla pubblicazione (quasi) simultanea in bluray/dvd/digital delivery e sala cinematografica.

Ci sarebbe da lamentarsi di come queste spinte dietrologiche stiano soffocando la creatività. A un cinema mainstream ormai popolato solo da sequel/remake/adattamenti pare si sia affiancata una scena  indipendente meno fragorosa e sempre più votata all'archeologia. E c'è poco da lamentarsi e fare i superiori, visto che io stesso sarei in prima fila se Miami Connection arrivasse anche dalle nostre parti.

Dalle pagine di Wired.com Zack Carlson (della già citata Drafthouse Films) cerca di spiegare questo fenomeno con un magnifico intervento sulla natura dell'intrattenimento e sull'inutilità meschina del point & laught. Ben scritto e condivisibile, oltre che illuminante circa le questioni del secondo paragrafo di questo post. Riassumo in due parole per chi non avesse voglia di leggere: per quanto sgangherati e poveri possano essere, risultano molto più divertenti certi pastrocchi delle decadi passate rispetto ai blockbuster megamillionari di oggi.

Fine. Nessuna complessa teoria alla Simon Reynolds. Solo voglia di uscire dal cinema più leggeri di quando si è entrati.

mercoledì 7 novembre 2012

Le soddisfazioni di Kickstarter: ThanksKilling 3



Il boom delle raccolte fondi a 6/7 cifre degli ultimi mesi è arrivato bene o male alle orecchie di tutti: che si tratti di un film, di un libro o di un videogame chiunque ha pensato - anche solo per un secondo - di mettere mano alla prepagata e di fare la propria parte in quelli che sembravano (e magari sembrano tuttora) progetti visionari. Ora, con quest'onda di entusiasmo fuori dai radar delle prime pagine dei siti, è giunto il momento di dare una controllata ai frutti di questue tanto abbondanti. Finalmente si potrà tastare il vero polso di Kickstarter e verificare se il meccanismo di finanziamento 2.0 porta effettivamente a qualche risultato o si tratta di una bolla destinata a svanire (stessa cosa andrà fatta con il meccanismo dell' autopubblicazione, popolare come non mai). Mentre si sa già di qualche progetto andato a gambe all'aria nonostante i dollaroni raccolti (non fatemi cercare l'articolo, fidatevi) il banco di prova più importante rimarrà l'arrivo sul mercato di Ouya, la console per smanettoni che ha raccolto quasi dieci milioni in donazioni e pre-vendite. 

Per ora accontentiamoci di questo ThanksKilling 3. Finanziato attraverso la piattaforma di crowdsourcing e costato la bellezza di 100.000 dollari. Se la vostra  idea di cinema passa solo dal multisala nell'hinterland probabilmente vi sembreranno briciole, eppure io ho visto capolavori girati con molto, molto meno (e non parlo di corti sperimentali sulla condizione dell'uomo moderno. Parlo di cinema popolare). Tanti o pochi soldi investiti mi sembra comunque una stupidata abbastanza trascurabile, che probabilmente finirò per recuperare (vedrò sicuramente) solo per la presenza di burattini (che Jim Henson li possa perdonare). E per la parodia di una delle scene più belle della storia del cinema (la trovate nel trailer).

martedì 6 novembre 2012

True Norwegian Fashion Week


Quasi dimenticavo... se siete tra i fortunati a essere raggiunti dalla distribuzione della rivista Kult, sappiate che nel numero in edicola ci trovate un mio pezzo sulla follia black metal in cui pare stia cadendo il mainstream (quella sopra è la pubblicità di un modello di jeans... con un bel Cristo capovolto e sventrato come il buon Fenriz insegna, tanto per gradire). Prima di urlare alla fighetteria hipster sappiate che per l'occasione ho intervistato anche Amelia Ishmael. Che sarebbe poi la curatrice della fantastica mostra Black Thorns in the White Cube  (piccolo consiglio... ricopiatevi l'elenco degli artisti partecipanti e incominciate a fare ricerca su Google. Ci sono perle clamorose). Insomma, il pezzo è pronto da qualche mese ma esce solo ora. Per fortuna tutte le persone che mi hanno aiutato (tra cui anche il mastermind dietro il marchio di culto - e ora etichetta discografica - AntiDenim) si sono dimostrare estremamente intelligenti e lucide, tanto da rendere le loro dichiarazioni interessanti anche se non esattamente sul pezzo (e comunque quei fighetti iperpompati di SlamXHype ci sono arrivati solo oggi. Alla faccia dei trendsetter globali).

lunedì 5 novembre 2012

Come un Bret Easton Ellis a 16bit: Hotline Miami



Viviamo in anni in cui una software house può permettersi di prendere a noleggio un’intera nazione per promuovere il suo nuovo titolo (ma mi piace pensare che sia tutto uno scherzo). Anni dove pare che la potenza di fuoco sia tutto, eppure (r)esistono delle piccole ma significative eccezioni. Opere microscopiche capaci di fondere in maniera mirabile il loro mondo di partenza con quello della narrativa tradizionale e della videoarte. Parlo ovviamente del chiacchieratissimo Hotline Miami. Prodotto che in prima battuta io stesso avevo erroneamente definito come semplice deriva retroludica del Drive di Refn. Sbagliando tutto. Perché HM in realtà è il più bel libro scritto da Bret Easton Ellis negli ultimi anni. Peccato che non sia un romanzo e lo scrittore statunitense se ne sia tenuto a debita distanza. Ma andiamo con calma.

Il gioco si presenta come ennesimo omaggio alla grafica a 16bit, agli anni’80 e alla sua iconografia composta dai vari Scarface + Vivere e Morire a Los Angeles. Glamorama. Detto così sembrerebbe la fusione perfetta tra GTA 1&2 e GTA: Vice City. Ovvero la sintesi tra i due titoli che hanno introdotto la nozione di “simulatore di malavita” e il sequel entrato nella leggenda. Quello che ha preso un’idea già di per sé vincente e gli ha cucito addosso un abito perfetto per sfrecciare su di una Ferrari bianca dopo essersi scolati un paio di mojito. Definendolo così rischiamo però di lasciarne fuori la componente allucinata e allucinatoria. Ogni partita di Hotline Miami si svolge alla stessa maniera. Lasciate il vostro appartamento. Raggiungete l’obbiettivo della missione (che è sempre riassumibile in due punti: entrare da qualche parte e massacrare chiunque sia ospitato nella locazione). Indossate una maschera di gomma dalle parvenze animali. Fate irruzione e incominciate a morire decine di volte. Perché in HM la morte è un loop continuo. Basta essere toccati una volta e si deve ricominciare da capo. Semplicemente premendo il bottone R. Sempre più veloce, pensando sempre meno.

Entro, sfondo il cranio a un malvivente, muoio tranciato da una sventagliata di UZI, opera del suo socio nascosto dietro la porta, R, entro, massacro i due di prima a colpi di fucile a pallettoni, passo alla stanza dopo, muoio accoltellato alle spalle, R, ri-uccido per la terza volta i due scagnozzi della prima stanza,…

La fusione tra colori fluo, beat sintetici e violenza reiterata e gratuita procede senza sosta. Una volta bonificato tutto il livello si dovrà tornare alla propria auto, parcheggiata di fronte all’ingresso. Proprio questo piccolo espediente ci da la possibilità di tornare in noi, passeggiando senza pericoli incombenti tra i cadaveri seminati poco prima. E’ un bagno di sangue. Il trip psicotico è terminato e possiamo fermarci a prendere qualcosa da mangiare sulla strada di casa (o un video da vederci spiaggiati sul divano). In qualunque esercizio sceglieremo di fermarci ci servirà sempre lo stesso commesso, in una follia spersonalizzante che sa tanto di American Psycho (impossibili da dimenticare gli amici di Bateman che si scambiavano i nomi, tanto erano simili fra loro). La narrazione procede a ritroso, in maniera criptica e convulsa. Tutto è estremamente semplice, ma nulla è chiaro. Sappiamo solo che uccidere senza un motivo preciso è estremamente divertente. Tanto la morte non ha significato, solo la pressione di un bottone sulla tastiera.

Noi, gli altri, chiunque. Valiamo Meno di Zero. Saliamo sulla nostra DeLorean rosa, seguiamo le istruzioni di una voce nella nostra segreteria telefonica e andiamo a morire. Siamo la generazione ctrl+z e per noi nulla è per sempre.

sabato 27 ottobre 2012

[God Told Me To] Ninjas di Dennison Ramalho

NINJAS from Dennison Ramalho on Vimeo.


L’industria cinematografica è sempre stata foriera di grossi misteri. Si prenda ad esempio il cortometraggio in apertura al post (dell’anno passato, ma che ho avuto modo di scoprire solo ora grazie alla recente segnalazione di Twitch). Girato in evidente economia riesce comunque a dimostrare quanto abbia da dire il giovane regista Dennison Ramalho. L’opera è durissima, agile nel miscelare in 25 minuti l’exploitation sociale di Tropa de Elite, suggestioni jhorror di rara efficacia, torture porn, spennellate di thriller psichedelici anni ’70 e un apparato visivo nonostante tutto modernissimo. La domanda è semplice… perché un soggetto così talentuoso non sta già lavorando a qualche produzione di spessore? Perché invece il suo imdb lo indica ancora all'opera su di un cortometraggio che vedranno in quattro?

Ninjas si apre con una scena tanto enorme da mangiarsi in un sol boccone praticamente tutti gli horror esoterico-satanici degli ultimi anni (contemporaneamente). Sia per la coerenza tra ambientazione e sceneggiatura (i thriller a sfondo demoniaco hanno sempre funzionato meglio se ambientati in paesi cattolici - nel senso più retrogrado del genere. Vedi Spagna, Italia, Sud America,…), sia per la potenza visionaria con cui si chiude. Si procede con il già citato segmento giapponese, filone esausto ma che qui viene ripreso tanto come scuola estetica quanto come magazzino di significati. Il senso di colpa rimane uno degli spettri più difficili da sconfiggere. Una volta presa una scelta sbagliata questa si anniderà ai margini del nostro sguardo per un sacco di tempo (come il rancore, no?). Si passa poi al capitolo conclusivo, quello di gran lunga più stordente e ricco di interesse. La Notte della Pulizia è una follia dove trovano posto Arancia Meccanica, Hostel e Una Lucertola con la Pelle di Donna. La coercizione da parte dell’autorità diventa simbolismo allucinato e iperviolento. Considerando quanto sia derivativo il materiale di partenza mi pare che tale conclusione non sia esattamente un risultato da buttare alle ortiche. La regia desatura il desaturabile, si fa languida o convulsa al momento giusto, non indugia mai in vezzi archeologici (se non, vagamente, nell’audio) e non nasconde nulla. I demoni interiori improvvisamente assumono lo spazio che meritano: nullo. Quando scopri che razza di mostri camminano sulla nostra stessa Terra tendi a ridimensionare ogni tua psicosi o semplice sega mentale. Vedi alla voce Joseph Fritzl, Idi Amin o qualche altra personalità dello stesso calibro di disumanità.

Chiusura nella media, ma era durissimo fare qualcosa di più.

Conclusione: caro Dennison Ramalho, ti voglio al lavoro su di un lungo al più presto possibile. Che di Neill Blomkamp non c'è ne mai abbastanza.

mercoledì 24 ottobre 2012

YouTube Cinerama: Slave Girls from Beyond Infinity



Sono giornate piuttosto piene, quindi zero tempo per dedicarsi a qualche nuova visione e/o lettura. Fortunatamente esiste il mio canale televisivo/radiofonico preferito: YouTube. Scopro solo ora (e vi giro prontamente la news) che qualche genio ha caricato per intero uno dei b-movie meno B di sempre: Slave Girls from Beyond Infinity (clicca per recensione completa). Non fatevi ingannare dalle apparenze. Sembra spazzatura ma in realtà è di un'intelligenza letale. Oltre che traboccante umorismo raffinato e mai scontato (e non è una battuta). Salvatelo nei preferiti e godetevelo quando meglio credete. Sarà durissima non adorarlo.

venerdì 19 ottobre 2012

[Il cinema di Tsui Hark come metafora del grindcore] Pig Destroyer - Book Burner


Siamo sinceri, alla notizia di un nuovo disco dei Pig Destroyer un sacco di gente (sottoscritto compreso) si era già scritta in testa il classificone musicale di fine anno. Ancora prima di ascoltare una singola nota di Book Burner avevamo già deciso che questo meritava il podio. Incuranti del fatto che solo il mese scorso sono usciti due lavori eccellenti come i nuovi The Faceless e Between the Buried and Me mentre a novembre ci aspettano Converge, The Secret e Dragged into Sunlight. Dopotutto i Pig Destroyer sono quelli di Terrifyer, una delle migliori uscite grind moderno di sempre. E in più questa volta abbiamo Adam Jarvis (Misery Index) alla batteria. Impossibile sbagliare.

E invece succede che Book Burner è solo un ottimo disco. Mi spiace dirlo, ma di quel parossismo d’esecuzione che ha reso grande il genere ne troviamo veramente poco. Mi spiego meglio. Prima di tutto procuratevi World Extermination degli Insect Warfare e Amber Gray dei Gridlink (tanto per citare due lavori stratosferici che si pongono agli antipodi stilistici del genere, ovvero il culto manicheo del passato e l’iper-modernismo fine a se stesso). Adesso che li avete ben adagiati sul vostro hard-disk ascoltateli al massimo volume possibile. La prima impressione che avrete è quella di trovarvi al cospetto di due mostruosità dove il gusto del grottesco è motore primario. Troppo veloci, troppo furiosi, troppo rumorosi. Non un attimo di flessione, un cambio di andatura o una concessione all’ascoltatore. Pura aggressione. E così dovrebbe sempre essere il grindcore.

La stessa cosa succedeva con Terrifyer. Anche se i ritmi erano più rilassati (virgolette), il muro messo in piedi dalle assurde distorsioni della chitarra di Scott Hull era più che sufficiente a provocare crisi di claustrofobia. L’alchimia con il ferino drumming di Brian Harvey aveva contribuito a definire quella grassezza sghemba e pachidermica che rimane a oggi uno dei marchi di fabbrica di casa Pig Destroyer (vedi quella manata in faccia di Carrion Fairy). Sono sempre stato convinto che la ricetta magica per ottenere un grande disco grindcore sia quella di studiarlo nei minimi dettagli e poi fare di tutto per farlo apparire più rozzo e ignorante possibile. Book Burner invece è un lavoro dove i suoi cinque anni di gestazione si percepiscono tutti. Quasi fosse death metal. Genere pornografico per eccellenza in cui tutto deve essere “fuori”. Dove ogni minima cazzatina o soluzione arzigogolata deve arrivare in faccia all’ascoltatore come una rasoiata. Per capirci meglio mi permetto di proporvi una sagace (sic) metafora cinematografica. Nei film del coreano Kim Jee-woon (quello di A Bittersweet Life e I Saw the Devil) percepisci ogni singolo virtuosismo perché spesso e volentieri interi segmenti narrativi sono basati su quello. Godi come è giusto godere di tanta grazia e aspetti con ansia la nuova trovata di questo grandissimo cineasta. Se invece prendi i film dello Tsui Hark degli anni d’oro (fino a Time & Tide) la regia è talmente fuori dai binari che non ti rendi neppure conto di assistere a qualcosa di ancora più assurdamente ricercato. Semplicemente non hai tempo di stare a riflettere su quello che stai vedendo. Non ci capisci un cazzo ma sei felice come un bambino. Ecco, quello è grindcore.

Book Burner invece sono solo 32 minuti di grandiosa musica schiacciasassi tirata a lucido. Tutti i fan di certe sonorità lo adoreranno, ma la pelle d'oca e le pompate di adrenalina non fanno parte del pacchetto.

mercoledì 17 ottobre 2012

Manborg al cinema (ma in Canada)!


Il perché gli Astron-6 siano un gruppo di guasconi a cui tutti dobbiamo voler bene l'ho già spiegato. Facile immaginarsi quindi la mia invidia nei confronti dei canadesi venendo a sapere che da loro il nuovissimo Manborg (in realtà precedente a Father's Day) uscirà su grande schermo. Qui sotto trovate il trailer. Prima di urlare alla poverata e all'ennesimo finto b-movie vi pregherei di:

a) osservare con attenzione il poster in apertura del post. Quanto amore disinteressato e talebano per certa iconografia di cartapesta ci trovate? Un sacco. Non vedevo una roba così figa dai tempi di 2019 - Dopo la caduta di New York. E ho detto tutto.

b) rivedervi il già citato Father's Day. Tanto per riportarvi alle mente di che bombetta puzzolente stiamo parlando. E poi è il film con il finale più bello di sempre.

c) considerare che oggi come oggi il regista Steven Konstanski è impegnato con Gulliermo del Toro a dare gli  ultimi ritocchi alle creature di Pacific Rim. Per farvi capire che non stiamo parlando proprio dell'ultimo stronzo della lista. Anche se si fa produrre i film dalla Troma.

E ora... Trailer!


Kitamura + Stuart Gordon + Albert Pyun + i Bruttissimi di Oden? Tutto rivisto attraverso l'umorismo deviato degli Astron-6? Voglio il cofanetto in quadruplo DVD anche di questo! (avete capito bene, parlo di questa follia qui. Manco fosse Quarto potere).

sabato 13 ottobre 2012

How To Disappear Completely: One Man Metal



Continua la strana ossessione di Vice per il metal più intransigente. Da pochi giorni è infatti disponibile la prima parte del documentario One Man Metal, dedicata a tre delle realtà più oltranziste e isolazioniste del depressive black metal (tutte composte da un solo componente, da qui il titolo del lavoro).

Aspetti belli: l'apertura mentale dell'intervistatore e la quasi imparzialità che riesce a trasmettere. 

Aspetti brutti: nonostante tutta la buona volontà del giornalista i tre musicisti vengono comunque esposti come delle scimmie in gabbia. Il fatto che mostrino per la prima volta il loro volto al pubblico (anche se Xasthur è riuscito comunque a firmare contratti per label non esattamente da nulla come HydraHead e Profound Lore) è sbandierato ai quattro venti. Roba da basso sensazionalismo da carta straccia.

Aspetti ininfluenti: la musica. Personalmente non sono un grande estimatore di questi suoni, eppure questo non mi obbliga a pensare che abbiamo a che fare con dei subumani privi di qualsiasi talento. Logico che se cerco qualcosa di inscrivibile al metal estremo capace di annichilirmi per creatività, potenza, tecnica e genio mi procuro l'ultimo dei Between the Buried and Me (anzi, meglio ancora Colors. Album irripetibile ed evidentemente influenzato da una buona dose di culo. Non vedo altra maniera per raggiungere certi picchi). Mi pare qui interessi di più come delle persone comuni riescano a dedicarsi anima e corpo a un qualcosa destinato ad aumentare sempre più le loro tendenze asociali. Senza la minima possibilità di poter ambire ad altro. Diciamo che sarebbe come mettere in piedi una band grind-core e pensare di essere invitati ai Grammy Awards. In più mi paiono persone che stanno veramente male. Aspetto che rende le loro produzioni qualcosa di tangibile e significativo, qualsiasi sia il loro livello qualitativo. Fortunatamente tutto il cinismo post-moderno del mondo non è ancora riuscito ad annientare l'empatia tra un fruitore medio come me e chi produce qualcosa derivante dal suo autentico malessere. Sfaccettatura questa che mi rende ancora più fastidioso l'aspetto delle scimmie in gabbia (Sì, ma allora potevano dire di no, hanno firmato loro la liberatoria... blablabla... zzzzz).

Detto questo vedete voi se dedicargli 15 minuti o meno.

giovedì 11 ottobre 2012

X-O Manowar su Conversazioni sul Fumetto


Su Conversazioni sul Fumetto trovate da ieri un mio articoletto sul recente revival di X-O Manowar. Con annessa, già che ci siamo, qualche riflessione sull'andazzo del genere (inteso come fumetto di genere) nel mercato mainstream statunitense. Fatemi sapere cosa ne pensate cliccando qui.

martedì 9 ottobre 2012

C'era una volta Miike: Ace Attorney di Takashi Miike



La più grossa sfortuna di Miike è sempre stata quella di essere frainteso. Fin dagli anni delle videocassette Tartan - pagate 80.000 Lire al Bloodbuster di Milano - parlare del giapponese significa tirare in ballo inevitabilmente i suoi eccessi misogini e/o violenti. E a ragione, verrebbe da dire. Per oltre un decennio il regista di Osaka è stato sinonimo di cinema estremo, oltre i limiti imposti e sempre foriero di sorprese e picchi di brutalità. Peccato che oltre a questo ci sia un sacco di altra roba, dimenticata o neppure percepita dal neofita dell’ultimo minuto (e qui permettetemi un pizzico di elitismo, visto che sulla barca io ci sono da ormai più di 10 anni). Così succede che per ogni dieci persone pronte a citare gli aghi di Audition o le chiazze di seme di Ichi ne abbiamo solo uno (se va bene) capace di ricordare il magnifico secondo tempo di Dead or Alive 2. Un’isoletta rurale immersa nella canicola estiva, i grilli, i campetti da calcio, le scuole elementari deserte e una piccola comunità ad accogliere i fuori casta (veri protagonisti di ogni opera Miikiana) in una sorta di famiglia allargata (famiglia, altro tema portante del regista maledetto. E qui dovrebbe suonare qualche campanello d'allarme, soprattutto se si considera con che rispetto e tenerezza Takashi la racconta. Vedi il capolavoro Rainy Dog). Dopo l’esplosione di popolarità del 2005 (-post Hostel) il Nostro sembra però aver perso questa indole eversiva. Tra ossequiosi remake di classici del cinema nipponico, trasposizioni live action e poco altro pare che si sia abituato piuttosto rapidamente alle sue nuove vesti di mestierante di lusso. E, per quanto sia dura ammetterlo, non poteva che andare così. Dopo l’exploit di Izo continuare sulla via della violenza cieca sarebbe stato patetico, ad alto rischio macchiettizzazione. Gli altri aspetti importanti della poetica di questo artista erano già stati sviscerati in una serie di titoli minori (dal’infanzia di Young Thugs all’amore queer di Big Bang Love Juvenile A), spesso con risultati altissimi ma quasi sempre ignorati da un pubblico desideroso solo di nuovi fiumi di sangue. A questo punto tanto vale concentrarsi su un aspetto apprezzabilissimo in ogni altro cineasta, fino a poco fa del tutto secondario nella poetica del regista di Gozu: la professionalità.

Sono lontani i tempi delle riprese scentrate e tremolanti, tenute buone solo per mancanza di tempo e denaro (praticamente tutti i film del periodo yakuza sono girati alla “buona la prima”, lo dice lui stesso nel libro Agitator). Oggi si è arrivati al paradosso di questo  di Ace Attorney. Un ottimo giallo giudiziario, girato e fotografato benissimo, perfetto nel trasporre su pellicola gli stilemi della controparte originale (una serie di giochi per le console portatili Nintendo). Non ci sono picchi, impennate o trovate d’autore. Solo la maestria di prendere uno spunto improbabile (un simulatore d’avvocati!) e di renderlo su grande schermo in maniera rigorosa e inattaccabile. Non c’è neppure la genuina carica d’ignoranza dei due Crows Zero, imperfetti ma ben più divertenti di quello che si legge in giro (e profondamente nipponici nella loro idiozia naif e bidimensionale). Ace Attorney è un bel film, semplicemente. Meno sbrodolone di Yattaman, nonostante ricalchi il materiale di partenza con ancora più precisione, ed estremamente serio nel suo incedere (le incursioni nel surreale sono poco più che impunture). Compatto, ritmato, curato in ogni aspetto nonostante ci si renda subito conto che il budget non sia nulla di faraonico (si parla di 2/3 location in tutto). Un bel po’ di pacche sulle spalle al regista, se non fosse che da Miike vorremmo altro. Peccato non essercene accorti prima.

domenica 7 ottobre 2012

Too cool for the 80's: Detention di Joseph Kahn



Qualsiasi ambito prendiate in considerazione arriva sempre il giorno in cui il grande vecchio della situazione si metterà d’impegno a vergare il decalogo perfetto per i novellini. Se si sta parlando di creatività uno dei punti irrinunciabili della serie di consigli sarà “Smettila di farti mille domande”. Traducibile più o meno con un secco “Non avere paura di fare la figura dello stupido e buttati di testa in ogni idea strampalata a portata di mano, tanto la figura dell’idiota finirai comunque per farla. Se non ora, poco più in là”. Una massima di vita su cui non ho intenzione di discutere (anzi), e che a Joseph Kahn deve essere piaciuta un sacco.

Anche perché non vedo altre motivazioni per cui, nel 2011 (anche se il film è uscito solo nel 2012), un affermato regista di videoclip si debba auto-produrre un teen-slasher meta-referenziale (e molto ironico) incentrato su Scream. Pieno fitto fitto di dialoghi ficcanti, citazioni e strizzatine d’occhio su quanto sia banale oggi come oggi dirigere un film del genere. Insomma un macello, no? Un nuovo Jennifer’s Body su cui sfogare tutta la nostra arguzia da scafati cinefili del web. E invece no. Perché Joseph – sapendo bene di essere fuori tempo massimo e di essere un cineasta il cui unico altro lungometraggio ha una media di 3.6 su Imdb – decide di fare l’unica mossa intelligente e apprezzabile in questo tipo di situazioni: esagera. Esagera senza vergogna.

In Detention non ci sono 30 secondi filati definibili come “lisci”. Dove per “liscio” intendo esente da numeri circensi di regia e montaggio, privo di qualche riferimento ad altro o - in assenza di questo - ben generoso nel buttare nel calderone qualche ingrediente a caso. Mentre due personaggi discutono con ritmi da mitragliatrice appaiono in sovra impressione -  come pop-up di Wikipedia - le spiegazioni di quello di cui stanno blaterando, mentre la telecamera fa movimenti  impossibili, la fotografia si satura e parte la colonna sonora di qualche successo degli anni ’90 (arrivare a usare la colonna sonora di True Romance per gli stacchetti romantici significa non avere ritegno). Poi appare un bel cartello su fondo nero e ci introduce alla strana storia del ragazzo-mosca (o dell’orso viaggiatore del tempo, o della madre e della figlia che si scambiano l’anno di nascita). Dopo di che, con qualche abile gioco di montaggio, si torna al presente e si introduce un nuovo personaggio che comparirà per trenta secondi netti. C’è una scena, al limite del grottesco, dove i ragazzi sospettati della catena di omicidi vengono messi in punizione. Visto che il killer agisce come quello di Scream (“Mi hanno preso per una Neve Campbell ritardata!” esclama la protagonista) decidono di fare come nell’opera originale: studiarsi il seguito. Con i loro moderni smartphone scaricano il Torrent (letterale) e si vedono il sequel. All’interno del sequel decidono di fare la stessa cosa. Veniamo proiettati in un meta-sequel dove hanno la geniale idea di fare altrettanto. Altro salto in avanti: ora siamo in un film, dentro a un film, dentro a un film. Che però rispetto agli altri è girato con le finte spuntinature e gli effetti vintage anni ‘80 (ma dove decidono comunque di percorrere la stessa strada). Compare il killer e via, a ripercorrere a ritroso questo strano meta-tunnel fino al livello più superficiale dove scopriamo che…

Tutto questo in un intervallo di tempo che va dai 30 ai 45 secondi. Tanto per farvi capire le velocità folli a cui viaggia il ritmo, tanto frastornante quanto però monotono e privo di curvature emozionali (leggi come: va a 3000 all’ora dal primo minuto all’ultimo). Detention è uno dei rarissimi film dove sullo schermo succede più di quello che possiate capire. In questo va detto che sposa in maniera egregia la visione del mondo degli adolescenti di oggi. Immersi costantemente in un flusso di stimoli sconquassante e costituito unicamente da frammenti del decennio più hype del momento (ieri gli ‘80s, oggi i ‘90s).  Joseph Kahn ha un occhio mirabile (innegabile) e affastella senza pietà inquadrature iper-moderne come se nulla fosse, sbeffeggiando con una sonora pernacchia tutta la ricerca portata avanti da un talentuoso (e noioso) come Ti West. Messa brutalmente sulla quantità si può dire che in Detention c’è tanta di quella roba da consigliarlo anche solo per rendersi conto di cosa si possa fare con una telecamera e una sana dose di talento.

In conclusione: nonostante quello che se ne può pensare Detention è all’antitesi del cinema hipster. Non è l’artistoide vestito come un contadino dell’’800 dipendente da Instragam, quanto l’adolescente che considera le Adidas di peluche disegnate da Jeremy Scott come scarpe eleganti. Probabilmente finirà per irritarvi. Lui se ne fregherà e continuerà stoico sulla sua strada.Quindi tanto vale mettersi comodi e godersi le sue trovate clownesche. Dietro la sua idiozia non dico si nasconda della genialità (neanche per scherzo) ma neppure l'encefalogramma piatto che troppa gente tende ad aspettarsi. E poi dove lo trovate un film che ha il coraggio di piazzare gli Hanson sulla trionfale scena conclusiva?

domenica 23 settembre 2012

A casa!


Finalmente a casa dopo la consueta trasferta parigina di metà settembre. Nei prossimi giorni sarà dura che abbia qualcosa da dire visto quanto sono rimasto indietro con il lavoro, così per ora vi re-indirizzo (in ritardissimo) al mio umile contributo per il mese del ragno su Conversazioni sul Fumetto. Un piccolo omaggio a un numero di questa testata, magari non memorabile ma a modo suo fondamentale.

mercoledì 12 settembre 2012

Perché I Guardiani della Galassia di Gunn sarà una gran figata



Lo ammetto. Quando il primo concept per I Guardiani della Galassia è stato rivelato al pubblico gli occhi mi sono saltati dalle orbite. Non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo. L’interesse per quella che sembrerebbe la più sconclusionata impresa cinematografica degli ultimi 20 anni è schizzato a mille. Eppure solo ora, con la conferma di James Gunn in cabina di regia, i ragazzi dei Marvel Studio sono riusciti ad avere VERAMENTE tutta la mia attenzione. Le motivazioni sono molte, tanto vale procedere per punti: 

1) Gunn ha scritto due dei Troma-movie più belli, intelligenti e urticanti di sempre. Si parla del mitico Tromeo & Juliet e di Terror Firmer. Opera che in un mondo più giusto avrebbe chiuso del tutto il capitolo meta-cinema.

2) subito dopo gli exploit tromeschi è passato a scrivere sceneggiature per Hollywood. Robe che hanno fatto incassare un sacco di soldi nonostante le premesse impossibili (si parla di due Scooby Doo e del remake di Dawn of the Dead aka Zombi).

3) ha sfruttato la fama e il potere acquisiti per dirigere Slither, il film di fantascienza gommosa più bello degli ultimi lustri.

4) successivamente è passato (sceneggiatura + regia) a Super, che è come Kick-Ass ma molto meglio e con un finale nero come la pece. Alla faccia di un sacco di gente che se lo è visto con i paraocchi.

5) oltre a tutte queste robette appena elencate Gunn ha lavorato a un sacco di altra roba (serie per il web, videogiochi,....). E in qualsiasi caso è riuscito a rendere tutto divertente, anche quando doveva colpire bassissimo.

6) come se il suo curriculum non bastasse, alla sceneggiatura dei Difensori sta lavorando l’esordiente Chris McCoy. Classe 1981, già tre volte nella Black List di Hollywood (la Black List è una classifica dove finiscono tutti i migliori script rimasti senza produzione, quasi sempre perché effettivamente belli e quindi poco adatti ai multisala).

7) si tratta di un film che si intitola I Guardiani della Galassia. Non riesco a immaginare nulla di più potente, evocativo e al contempo meravigliosamente infantile.

8) I Guardiani della Galassia è una delle serie più improbabili (e genuinamente divertenti, visto il sottile humor che ne contraddistingue ogni pagina) fra tutte quelle ambientate in un universo popolato da gente che se ne va a zonzo in calzamaglia.

9) la formazione di questo supergruppo può vantare: un procione antropomorfo dal grilletto facile, una pianta senziente, un paio di guerrieri cosmici, il clone di Kratos e un cane telepate a coordinare il tutto. Immagino già il fumo uscire dalle orecchie del robottino Nolan.

10) la space-opera di stampo favolistico non sbaglia mai. O te ne esci con un capolavoro o con uno scult da videocassetta. Uno di quelli che devi recuperare a ogni costo e si guadagnano un’aura di mito con il passare degli anni. Questo perché si parla di un genere così campato per aria che è durissima lasciare indifferenti (tranne Il Quinto Elemento, ma Besson è talmente cane che può riuscire in tutto). Quindi vinci sempre.

11) per troppo tempo nessuno si era buttato in un'impresa così cinematograficamente disperata. Andiamo, quando è stata l’ultima volta che vi siete chiesti “Come diavolo faranno a farlo?”.

12) il fumetto non è così codificato come lo erano i Vendicatori, quindi potremmo trovarci di fronte a qualcosa di realmente fresco. Non mi interessa niente di un Rocket Racoon che esordisce sullo schermo con la stessa battuta con cui si è palesato sulla carta stampata in una storia breve di chissà quale testata secondaria dell’universo Marvel. Voglio vedere cose che mai mi sarei potuto immaginare.

13) qui potrei fare il solito giochino simpatico di queste liste e ripetere una delle voci precedenti, come a dire”guarda come sono ossessionato da questo aspetto stupido ma in realtà cruciale”. Sarò banale, ma io sono veramente curioso di vedere Rocket Racoon.

14) l’interesse generato intorno a questo blockbuster (assieme a quello sui robottoni giganti di del Toro) potrebbe finalmente dare la spinta a un sacco di progetti assurdi che se ne stanno nel cassetto da troppo tempo. La speranza è che il fantastico torni fantastico. Basta grigiume, realismo e rivisitazioni dark. Volete fare gli scrittori o i registi? E allora dimostrate di essere molto più creativi di quanto noi spettatori potremmo mai essere. Sbatteteci in faccia il motivo per cui voi fate quel mestiere e noi no. Altro che uguaglianza. 

15) nella speranza che si realizzi la prospettiva qui sopra - che i film fantastici tornino a essere generatori di fantasie e non blocchi di ghisa attaccati alle caviglie della creatività - magari bloccano il film sulle Tartarughe Ninja e lo rimettono in carreggiata come dovrebbe essere fatto veramente. Macché alieni, noi vogliamo anfibi mutanti che praticano le arti marziali.

16) sempre invocando il punto 14 magari esce il nuovo Star Fox

17) abbiamo tra le mani un film con budget milionario, diretto da un pazzo proveniente dal cinema indipendente più folle e sceneggiato da un giovinastro troppo talentuso per Hollywood. Se il sistema funziona e arrivano i risultati sperati allora un bel po’ di mestieranti seduti da troppo tempo sugli allori potrebbero incominciare a inviare il CV a qualche agenzia di collocamento.

Possono bastare come motivazioni per aspettare questo film con la bava alla bocca?


domenica 9 settembre 2012

La follia alla fine del mondo: Goodbye 20th Century di Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski (Macedonia/1998)



Avevo deciso di recuperare il macedone Goodbye 20th Century ai tempi del primo Bizzarro Magazine (quello dedicato al post-apocalittico), dove veniva etichettato come il film più in linea con il titolo della rivista fra tutti i 100 recensiti nel dizionario fondamentale. Concedetemi una piccola variante autobiografica, indispensabile a chiarire la prospettiva in cui ho scritto questa recensione: ho sempre adorato il post-atomico, soprattutto nelle sue varianti più povere. Quelle dove solitamente si cerca di distrarre lo spettatore dalla palese insufficienza dei mezzi infilandoci – paradossalmente – più roba possibile. Per capire come questo stratagemma funzioni alla perfezione basterebbe vedersi, senza i paraocchi imposti dall’offensivo paradigma “tanto brutto da essere bello”,  2019 Dopo la caduta di New York di Sergio Martino. Prodotto con un budget irrisorio, riesce comunque a guadagnarsi un posticino nella storia della sci-fi grazie al ritmo folle e alla densità di trovate sghembe e fuori posto (oltre per i furti ai grandi titoli di questa bistrattata cinematografia) che ne caratterizzano tutto il metraggio. Chiarito il mio approccio alla materia, passiamo all’analisi di questo tesoro nascosto. 

A grandi linee esistono due tipi di “bizzarro” consapevole. Una variante più divertita, che potrebbe essere quella dello strepitoso Slave Girls from Beyond Infinity o del mio adorato Radioactive Dreams, e una più seria, con mire più alte rispetto al puro disimpegno. Nume tutelare e autentica star di questo filone è l’arcinoto David Lynch, ormai ridotto più ad aggettivo da usare a sproposito che a cineasta. Naturalmente si potrebbero tirare in ballo anche i vari Kenneth Anger o Guy Maddin, però chissà perché si finisce sempre a parlare dell’uomo dietro Eraserhead e Velluto Blu. In qualunque caso Goodbye 20th Century fa assolutamente parte di questa seconda categoria, nonostante i (o forse proprio grazie ai) numerosi siparietti grottescamente umoristici che lo punteggiano. Diviso in due sezioni (una post-apocalittica e una immediatamente pre-) quello di Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski è un tour de force lisergico che lascerà a terra (pur nella sua breve durata) un sacco di vittime. Tra personaggi apparentemente immortali (il barbiere – presente in entrambi i segmenti oltre che in un flashback di inizio secolo) e altri che lo sono veramente, geniali trovate registiche (vedi una sorta di Joker che si muove generando una serie di suoni da cartone animato), attacchi sensoriali stordenti, una trama praticamente incomprensibile, furti alle colonne sonore di film più noti (il tema di Ghost in the Shell, ma sono sicuro di aver sentito anche qualcosa di Akira) e un’innegabile eleganza formale, abbiamo tra le mani un film meritevole di una visione da parte di chiunque sia alla ricerca delle deviazioni più folli della cultura pop (perché sempre di quello si parla). 

Se si fosse limitato a portare avanti il discorso iniziato nel primo tempo Goodbye 20th Century non sarebbe così lontano dal concetto di capolavoro come ci si aspetterebbe. Dotato di un’iconografia potente e immortalato con un linguaggio che pare rifarsi direttamente ai primissimi wuxia di Wong Kar Wai (regia sinuosa, scenari desertici e polverosi, un sacco di fumo blu durante le riprese notturne), costruisce nel giro di una quarantina di minuti un universo credibile e capace di contenere un sacco di storie. I registi si concentrano sul dramma di un uomo che non può più morire in seguito a un rapporto carnale con un'entità metafisica (resa da un’icona ortodossa lacrimante sangue). A un punto di partenza così alto si decide poi di innestare uno sviluppo più in linea con il genere – sparatorie in capannoni abbandonati – con sviluppi strappati di peso dal western crepuscolare. Insomma, una bomba. Peccato che con il secondo tempo, nel descrivere la nostra società nella follia dell’immediata pre-apocalisse, si decida di spingere troppo sul farsesco andando parzialmente fuori tema. Si rimane comunque basiti per quello che si vede – una surreale veglia funebre – ma è più una visione dall’esterno rispetto all'immersione dei primi minuti dell'opera. Si è più che altro curiosi di vedere dove andranno a parare i registi. Se siete amanti dell'assurdo più spinto qui troverete pane per i vostri denti, mentre tutti gli altri non potranno che rimane perplessi.

In conclusione vale la pena di vedersi gli 82 minuti di delirio partoriti da Darko Mitrevski e Aleksandar Popovski? La risposta è assolutamente sì. In primis per potervi vantare di aver visto un post-atomico macedone a budget zero con mire altissime (importantissimo, non c’è la minima traccia di ironia autoreferenziale. E le risate strappate allo spettatore hanno tutte un sapore grottesco e spesso sgradevole), in secondo luogo perché abbiamo a che fare con qualcosa di assolutamente diverso e fuori dai canoni. In un’epoca di omologazione e riciclo infinito del passato ogni tentativo di diversificazione andrebbe premiato a prescindere, soprattutto se realizzato con l'ambizione di questo stortissimo lungometraggio. G20C potrà non piacervi – nulla di più facile – ma perlomeno vi farà provare la sensazione di aver visto qualcosa di unico. 

giovedì 6 settembre 2012

[Nani, birra e botte da orbi] Skullkickers di Jim Zub, Edwin Huang e Chris Stevens



Skullkickers è una serie con un sacco di difetti. Di certo il livello delle tavole non è lo stato dell'arte, è priva di autentica profondità e ben lontano dall’essere un prodotto genuinamente originale. Eppure riesce in un campo dove un sacco di gente fallisce: essere davvero, davvero divertente. Che, a rigor di logica, dovrebbe essere l’obbiettivo primo di ogni opera realizzata per la pura evasione. Lapalissiano, verrebbe da dire, eppure spesso e volentieri pare che questo concetto sia pericolosamente nebuloso. 

Considerando che i protagonisti di questo fumetto passano un sacco di tempo rintanati in lerce osterie da quattro soldi – ubriachi e sfatti come lo siamo stati tutti nei nostri anni migliori - mi pareva giusto affrontarne l’analisi in chiave culinaria. Da questo punto di vista Skullkickers non è che il corrispettivo su carta di un untissimo (e altrettanto gustoso) panino da ambulanti.  Quelli a cui non puoi resistere, ma che ti rendi conto sarebbe stato meglio evitare per lasciare spazio a qualcosa di più nobile (e intanto pensi “Ormai è tardi, tanto vale arrivare in fondo”, raggirandoti da solo). Prendi un buddy movie (bromance free), sostituisci il bianco e il nero (o il cieco e il sordo) con un nano e un energumeno calvo. Non poliziotti, ma soldati di ventura a zonzo in un mondo di impianto fantasy. Condisci il tutto con abbondanti dosi di violenza e il piatto è servito. Come si diceva, nulla di che. Eppure basta guarnire la nostra leccornia con un sacco di dialoghi brillanti e mai fini a se stessi (e che siano privi di riferimenti a D&D, mi raccomando) per avere un manicaretto da leccarsi i baffi. Semplice ma efficace.

L’unica vera colpa imputabile a Jim Zubkavich, scrittore della serie, è l’immaginazione piuttosto limitata. A livello di visionarietà siamo prossimi alla piattezza dell’ultimo, terribile Conan cinematografico. Nonostante il tutto sia innegabilmente ben fatto non scatta mai quel meccanismo mentale che ti spinge a chiederti cosa arriverà dopo. Ed è un peccato perché la sinergia tra umorismo e fantasy ha un potenziale immaginifico incredibile, avendo praticamente tra le mani un mondo privo di limiti e a cui vengono fatti saltare anche i freni inibitori imposti dalla serietà (penso alla prima parte di Bone, a Shaolin Cowboy, ad Adventure Time,…). Questa mancanza di respiro viene ampiamente compensata da un ritmo supersonico, dai già citati dialoghi effervescenti - arricchiti spesso e volentieri da colorite inflessioni vernacolari - e dalla rozzezza senza precedenti dei protagonisti. Due autentiche bestie, inarrestabili e dalla complessità psicologica di una sottiletta (tanto per stare in ambito di alta gastronomia).

Esiste una sottile ma fondamentale differenza tra essere di bocca buona e amare i sapori più semplici. Se la prima ipotesi esclude a priori ogni tipo di piena soddisfazione in virtù di una pigrezza che va inficiare l’efficacia della ricerca (modo complicato per dire che vi accontentate di quello che passa in convento), la seconda ostenta una passione godereccia non per forza di cose populista. Animata da stimoli magari semplici ma per nulla scontati. Skullkickers soddisferà appieno chi si pone senza troppe remore nella seconda categoria. E se tanto vi basta, buon appetito!