lunedì 31 marzo 2008

Pubblicità Creativa: Hut Weber


Nulla di meglio di una quintalata di politicamente scorretto per rendere appetibile un prodotto datato come un cappello demodè. Dai geni della Serviceplan di Amburgo.

domenica 30 marzo 2008

[oldiest but goldiest] Pusher Trilogy di Nicolas Winding Refn (1996, 2004, 2005)



Avete mai pensato a Copenhagen come set ideale per un crime movie? Probabilmente voi no, ma fortunatamente Nicolas Winding Refn sì. Perché lui in Danimarca c’è nato, e proprio nel nordico paese ha deciso di ambientare la sua personalissima trilogia noir.



Prendendo in prestito l’impianto narrativo del Sin City di Frank Miller, (omaggiato apertamente durante i titoli di testa di tutti i capitoli, passaggio in cui ci vengono introdotti i personaggio di ogni episodio sfruttando primi piani fotografati con un contrasto tale da dividere i volti in tagli di luce e ombra), in cui i veri protagonisti sono la città e la sua selva criminale, immergendolo in un realismo agghiacciante e dalla potenza distruttrice irraggiungibile anche per il più alto picco post modernista, i tre film del Pusher (da non confondere con la localizzazione italiana del pessimo Layer Cake di Matthew Vaughn) di Nicolas Winding Refn si candidano come pietre miliari assolute in un periodo che pare aver rinchiuso il più metropolitano tra i generi all’interno della gabbia dorata del giochino meta cinematografico.



Dimenticate gli eccessi stilosi di Seijun Suzuki, il melodramma di John Woo, la mitologia di Coppola, qui siamo più vicini a un ideale trait d’union tra Lars Von Trier e Kinji Fukasaku: il mondo criminale visto attraverso il barcollante occhio impietoso della camera a mano, una direzione degli attori annichilente ( lo stesso Nicolas Winding Refn è stato richiamato per i rischi che una tale pressione può portare) e la voglia di distruggere cinquant’anni di iconografia del crimine. In Pusher tutto è sporco e sgradevole, non esiste moralità o redenzione: non ci sono killer romantici, boss eleganti e raffinati, talpe dalla moralità dilaniata. In Pusher troverete solo la vera criminalità, quella vestita male e disposta a tutto per due soldi, in maniera non troppo dissimile da come viene dipinta nel romanzo Bravi Ragazzi di Marinick o nelle promesse est europee di Cronenberg.



Colpi di scena come fucilate in pieno stomaco, la speranza di un domani migliore neppure presa in considerazione. Nessuna traccia di umorismo. Non c’è il dialogo brillante alla Tarantino, lo schizzo di sangue esagerato, il passaggio slapstick. Pare che a Nicolas Winding Refn interessi solo la miseria umana, il cammino discendente che porta una persona qualunque a mutare in un autentico zombi dal cuore ancora pulsante. E la sopravvivenza in un mondo popolato unicamente da questi mostri.



Tracciate un linea che vi porti agli antipodi di Miami Vice e ci troverete Pusher.



sabato 29 marzo 2008

Artzmania: the asian issue





Nuova uscita, interamente dedicata all'Asia, di Artzmania.com. Come sempre il livello della proposta è stellare, abbondante e gratis. Dai manga all'illustrazione fantasy, passando per street art e grafica pubblicitaria. Tutto rigorosamente dagli occhi a mandorla!


www.artzmania.com

venerdì 28 marzo 2008

[trailer] Mad Monkey di Gap Kim (2008/Corea del Sud)

Per la cronaca la locandina qua sopra non è relativa a Mad Monkey, ma al precedente lavoro dello Studio Flying: quel capolavoro pop di Aachi & Ssipak, anno di grazia 2006. Un frullatone folle di sangue, volgarità e scatologia, girato come il film d'azione più estremo della storia. Roba che al confronto John Woo pare un mestierante da straight to video: montaggio alla velocità della luce e movimenti di macchina da ricovero psichiatrco. Semplicemente grandioso.



Ora, dritte da Twitchfilm.net, ecco le prime tracce del nuovo lavoro di questi geniacci: Mad Monkey. Non un trailer, ma un video musicale. Che comunque basta per sbavare sulla tecnica e sulla perizia iconografica di questi ragazzi.









Link per il sito ufficiale di questi pazzi: http://www.studioflying.com/

Burning Skies - Greed.Filth.Abuse.Corruption (Lifeforce Records/2008)


Come fa il death metal a diventare trendy? Chiedetelo a questi Burning Skies, autentici epigoni albionici di realtà super affermate come Job For a CowBoy o Despised Icon.



Qui il link per la mia recensone su Haternal.com:
http://www.haternal.com/haternal-4/dett-pezzo.asp?PezId=7347



Non il disco dell'anno, ma in ogni caso una mazzata dal discreto potenziale sismico.

mercoledì 26 marzo 2008

Comunicazione creativa: Hot Video





Come comunicare al grande pubblico la nascita di un nuovo canale "hot", possibilmente senza sbattere a tutta pagina qualche mignottone da sbarco? Chiedetelo ai ragazzi della CLM BBDO, nota agenzia pubblicitaria francese.



martedì 25 marzo 2008

Sick Nurses di Thospol Sirivivat e Piraphan Laoyont (2007)


Da Wikipedia.org: “Fanservice o fan service (in giapponese semplicemente "saabisu", "service") è un termine gergale usato soprattutto in qualsiasi prodotto (anche se il termine è nato per indicare anime e manga, lo si può allargare a libri, fumetti, programmi televisivi, videogiochi) per indicare un indugiare su particolari del tutto gratuiti che non hanno un peso reale sulla trama, ma sono presenti solo per soddisfare un certo tipo di pubblico (per dare, appunto, un servizio ai fan). “


E proprio a questo si riconducono gli ottanta minuti scarsi di questo Sick Nurses, prodotto Thailandese a cavallo tra horror, misoginia e ironia sguaiata.


Prendete il seminale Angeli Violati (1967) di Koji Wakamatsu, storia di un gruppo di infermiere sequestrate e seviziate da uno squilibrato in preda a un delirio edipico dalle proporzioni bibliche. Da molti questo è considerato il motore primo di tutto il prolifico genere dell’ero guru (erotismo grottesco) nipponico, inutile quindi disquisire sull’importanza per l’immaginario collettivo (in oriente come in occidente, basti pensare a Cronenberg) di una tale opera. Unite alla potenza deflagrante di una tale carica iconoclasta la demenza che vorrebbe avere un prodotto distribuito dalla Troma come Maniac Nurses Find Ecstasy (1990), ennesima variazione sul tema W.I.P. (women in prison) ma arricchito dalla presenza di provocanti infermiere killer. Non fate mancare all’appello neppure uno spirito in cerca di vendetta, una tonnellata di inquadrature maniacali sui culi/tette delle sette infermiere (il famoso fan service) e avrete Sick Nurse. Film che, detto per inciso, nella sua pochezza si mangia tutti gli horror pop corn movie di stampo statunitense degli ultimi cinque/dieci anni.


Tutta la trama si dipana nei tre minuti antecedenti ai titoli di testa, in cui vediamo un infermiera morire sul tavolo operatorio circondata dalle sue colleghe e con qualcuno che ci aggiorna sul fatto che gli spiriti tornano sulla Terra per la loro vendetta a distanza di sette giorni dal decesso. Il restante minutaggio si concentra sulle uccisioni (alcune veramente notevoli) e sulle fattezze delle protagoniste (tutte carine ma con due/tre casi di autentico attacco alle coronarie, sempre che vi piaccia la patatina orientale…).


Quello che maggiormente colpisce dell’opera degli esordienti Thospol Sirivivat e Piraphan Laoyont è l’alternarsi tra una morigeratezza da oratorio (nonostante le vagonate di gnocca neppure un pelo, fino all’eccesso della doccia vestita da parte della più formosa delle protagoniste) e un menefreghismo assoluto per il politicamente corretto. Una carica immorale che spinge a dipingere tutti i personaggi femminili come possessivi e ossessionati da se stessi, oltre che oltremodo stupidi e superficiali (tra le lesbo amichette, la maniaca del fitness, la bulimica e la fissata con il matrimonio abbiamo decisamente un bel campionario di casi umani tra cui andare a pescare) e, naturalmente, ad affogarli nel loro stesso sangue. Che scorre a fiumi, e spesso in maniere del tutto inedite.


Per il resto il film si basa su una manciata di ottime trovate (magnifico il climax dell’orologio) e su una messa in scena ultraibrida (tipico da cinema thai) capace di frullare nello stesso cocktail impazzito cinema classico, videoclip e suggestioni da survival horror per PS2 (vedi alcune soluzioni cromatiche o l’uso del grandangolo su alcuni movimenti di macchina). Ottimi scivoloni nel grottesco, tipo i gayser di sangue alla festa, e finalone Miikiano.




lunedì 24 marzo 2008

Perchè frequentare cosplayers fa male

La risposta la trovate nelle gallerie del sito Baka Gaijin, una mega raccolta di tutto il trash di stampo cosplay. Tra l'annicchilente e l'esilarante.



http://jpoptrash.nihon-fr.com/bakagaijin/bakagaijin.htm

http://jpoptrash.nihon-fr.com/bakagaijin/bakagaijin2.htm

sabato 22 marzo 2008

[oldies but goldies] Bio Zombie di Wilson Yip (1998)

Prima che Wilson Yip diventasse il regista discontinuo che è ora, un personaggio capace di passare da uno Sha Po Lang a un Dragon Tiger Gate senza dimenticarsi di avere sul groppone un paio di capolavori del peso di Bullets Over Summer e Juliet In Love, prima della joint venture con l’attore/coreografo/regista Donnie Yen, prima di tutto c’era questo Bio Zombie. Non l’esordio assoluto del nostro, ma comunque il primo contatto con le sue reali potenzialità: messa in scena estremamente estetizzante, senso dell’assurdo (nell’accezione più amara del termine), una buona dose di pessimismo.



Pensate all’alba dei morti viventi di Romeriana memoria, innestatelo con il Generazione X di Kevin Smith e cercate di immaginarvi il tutto servito in agrodolce, lungo una delle trafficate strade di Hong Kong. Aggiungeteci una sana dose di esagerazioni tipiche della cinematografia dell’ex colonia inglese e un finale capace di colpire (con una potenza sconsiderata) direttamente alla bocca dello stomaco senza mostrare nulla. Bio Zombie è un po’ tutto questo, e tanto altro ancora: in un centro commerciale simile al negozio di dischi visto in Arancia Meccanica, uno di quei labirinti claustrofobici fatti di specchi, colori e umanità che chiunque sia stato in oriente almeno una volta non può aver fatto a meno di visitare, due commessi cazzari e perdigiorno (Jordan Chan, ma soprattutto un pazzesco Sam Lee) ingannano il tempo tra ragazze e smargiassate poco credibili. Un banale incidente e le sue imprevedibili conseguenze li porterà a condividere il loro tanto amato micro universo con un buon numero di zombie vogliosi di cervelli.



Partendo da questi presupposti Wilson Yip costruisce una deliziosa galleria di personaggi, dai due antieroi al mafiosetto maschilista, passando per la bella di turno e il suo spasimante sfigatissimo, e li inserisce in una vicenda dal ritmo forsennato, dove la nota critica al consumismo lascia spazio a una mappatura di quel immaginario pop che i protagonisti della vicenda potrebbero condividere con i loro coetanei in carne e ossa. Si passa da toni da telefilm adolescenziale a momenti realmente toccanti, senza dimenticare un linguaggio sempre sopra le righe e costantemente intriso di sesso fino alla saturazione. Situazioni irresistibilmente comiche, costruite con dei tempi perfetti, vanno fianco a fianco con una marea di citazioni, sia cinematografiche che extra medium (in primis il videogioco, si veda la scheda di presentazione di ogni personaggio, con tanto di indicatore forza e arma preferita), per nulla gratuite e perfettamente integrate in un mondo composto unicamente da post adolescenti.



Il risultato finale è una bomba deflagrante, troppo spesso sottostimata in virtù della sua natura ibrida e per via del budget praticamente inesistente. Un'esplosione di risate, frattaglie e pessimismo cosmico quasi senza pari.


venerdì 21 marzo 2008

[trailer] Scare 2 Die di Cub Chien (2008)



Nuovo Cat.III dritto dritto da Hong Kong. Tre episodi dall'alto tasso gore per l'esordio dietro la cinepresa del direttore della fotografia preferito dai noti fratelli Pang (The Eye, Re-Cycle, Diary, Ab Normal Beauty,...). Sperando che sia meglio di quel Gong Tau che tanto illuse gli appassionati del genere lungo il 2007.


giovedì 20 marzo 2008

Illogo, quando la musica muore



Su Haternal.com il sottoscritto intervista i fenomenali Illogo. Tra Today Is The Day, Tarantula Hawk, Unsane e Neurosis. Il suono della musica che muore. Probabilmente il miglior disco dell'anno appena passato.


mercoledì 19 marzo 2008

My Plastic Heart

Se anche voi siete maniaci di urban toys e action figure viniliche, fatevi un giro su www.myplasticheart.com. Molto più assortito e attento ai nuovi designer del fin troppo blasonato KidRobot. E in più il dollaro è in caduta libera.

martedì 18 marzo 2008

Trivial Matters di Pang Ho Cheung (2007)

Grazie al suo magnifico Exodus Pang Ho Cheung è diventato il regista Hong Konghese da citare, quello da sciorinare come se nulla fosse nei salotti da cinefili consumati. Un po’ come succedeva con Wong Kar Wai una decina d’anni fa: giovane, colto, oltremodo talentuoso, festivaliero quel che basta per far girare il nome anche fuori dai circolini dell’esotico a tutti i costi. Peccato che siano in pochi a ricordarsi del suo primo lavoro: You Shoot, I Shoot (2001), storia della strana sinergia tra un killer professionista e un cineasta porno con la passione per il cinema d’autore. Tra finezze infinite, humor nero, romanticismo inaspettato e meta cinema, il giovane Pang esordiva con una sceneggiatura perfetta, una regia a prova di bomba e uno strano senso dell’umorismo. Più che strano, sottilmente malefico. E lui ci tiene a ricordarci di questo aspetto.


Anche in Exodus questo lato del suo carattere era palpabile, con un ambiente ingombrante che schiacciava continuamente i protagonisti maschili della vicenda ai margini dell’inquadratura, rendendoli minuscoli nei confronti di qualcosa di incomprensibilmente complesso ma comunque reale e palpabile. Con le elissi e i piani sequenza che ci facevano lentamente capire quello che i dialoghi avrebbero annacquato irrimediabilmente, facendoci realizzare poco per volta a che razza di cospirazione ci si trovava di fronte. Ambienti asettici, musiche eteree, omicidi decisamente inquietanti. Tutto reso “alto” da una messa in scena e da un montaggio capaci di stilizzare e rendere (magnificamente) incomprensibile anche lo sfruttato set dell’ex colonia inglese.


Con Trivial Matters invece Pang ci ricorda da dove viene: 90 minuti, sette storie basate su scatologia, sesso e pompini. Si va dal catastrofico avvio (decisamente pessimi i primi due episodi) fino al capolavoro del trittico finale, dove cinismo, tenerezza e ironia danno il meglio. Regia televisiva, grande direzione degli attori e tanta voglia di giocare sporco. Nulla di trascendentale, certo, ma l’amarezza nei confronti di un destino beffardo, o la dolcezza di una storia d’amore morta sul nascere (da scuola del cinema il segmento in questione, in cui una l’affetto tra una prostituta e un mafioso si brucia in una manciata di minuti, senza mai dichiararsi) o, ancora, la fortuna inaspettata che nasce da un tiro di bong, meritano sempre una visione.













lunedì 17 marzo 2008

[trailer] Art Of The Devil 3 di Ronin Team (2008)

Chiariamo subito una cosa: i precedenti Art Of The Devil erano una solenne sola, unico motivo d'interesse era l'ingente quantità di emoglobina che ne riempiva il minutaggio. Per il resto pareva di trovarsi di fronte al remake tailandese del ciclo Black Magic, uno dei simboli della cinematografia Hong Konghese dei selvaggi '80s. Questo terzo capitolo non sembra nulla di meglio, ma almeno la frattaglia è rimasta. Dallo stesso team (8 registi!) del secondo Art Of The Devil, in diretta da Twitch, ecco il trailer.




domenica 16 marzo 2008

Ninja Marketing: per una pubblicità migliore


Siete convinti che il medium pubblicitario abbia ancora tanto da dire? Allora segnatevi tra i preferiti questo fichissimo portale dedicato al marketing non convenzionale. Tra le menti dietro a questo progetto anche gli autori di Marketing Non Convenzionale, interessante panoramica sul mondo della promozione edito dalle edizioni Il Sole 24 Ore.


sabato 15 marzo 2008

[trailer] An Empress and The Warriors di Ching Siu Tung (2008)

Non un trailer ma un breve backstage dal nuovo film di Ching Siu Tung, uno dei maggiori virtuosi cinematografici della storia. Quando nel proprio carniere si hanno titoli come Swordsman 2, Duel To The Death oltre che la trilogia de A Chinese Ghost Story e si sono persi gli ultimi anni a coreografare polpettoni cinesi è subito spiegato il perchè dell'hype cresciuto attorno a questo An Empress and The Warriors .

Comunque nella clip possiamo scorgere il terrificante look degli assassini, qualche magistrale passaggio in wirework e un sacco di altra robina interessante.

E allora perchè postare questo clip e non il trailer?


Semplice, perchè il trailer fa cagare. Pare il seguito di quella sciagura di Hero. Eppure Ching Siu Tung rimane un Dio in Terra, e il backstage pare dimostrarlo. Speriamo quindi che il prodotto finale sia più vicino a questo che al trailer, che vi dovete cercare su YouTube perchè, ripeto, fa cagare.


giovedì 13 marzo 2008

The Passenger: intervista a Christian G. Marra su Comicus.it



I ragazzi di Comicus.it hanno avuto l'ottima idea di dare spazio alle iniziative editoriali di Christian G. Marra, fumettista e storyboard artist di una certa fama. Nella lunga intervista rilasciata al noto portale tematico il Nostro parla delle varie fasi che sono andate a comporre il numero zero di The Passenger, progetto a fumetti dal potenziale enorme.


In calce ci trovate tutti i link utili per sapere di più circa questa affascinante sinergia tra cinema, pubblicità e fumetto.

mercoledì 12 marzo 2008

The Walking Dead vol.3 di Kirkman e Adlard (edizioni Salda Press)

Continua nel terzo trade paperback edito dalla Salda Press (che si fa attendere ma ripaga con una qualità stellare, soprattutto nei materiali) la saga horror esistenzialista creata da Robert Kirkman. Con tutti i pregi e i difetti del caso. Annullando il concetto di narrazione decompressa introdotto nel mondo dei comics da Grant Morrison, questo Walking Dead viene concepito dal suo autore come potenzialmente senza fine: nel descrivere le gesta di una piccola comunità di sopravviventi in un mondo popolato da zombie i personaggi possono essere introdotti o morire in qualsiasi momento, andando a determinare uno dei punti di forza di questa proposta. Se si ha come obiettivo la cronaca della vita quotidiana in un contesto alieno e minaccioso, la fine improvvisa del nostro personaggio preferito è un ipotesi da prendere in considerazione senza alcun problema. Per rimpiazzarlo basterà l’incontro e la fusione con altre piccole comunità. E qui incominciano i problemi: se da una parte la profondità della lettura e delle psicologie dei personaggi raggiunge in questo terzo volume vette da capolavoro, la struttura narrativa incomincia invece a mostrare la corda. Attente e amare riflessioni sulla (ri)nascita di una civiltà organizzata, ponendosi quesiti importanti come la legittimità della pena di morte in condizioni al limite, stridono se affiancate a una costruzione che sfrutta il meccanismo del cliffhanger fino allo sfinimento. Un canovaccio piuttosto schematico (ogni volta tutto sembra essersi risolto ma, improvvisamente, un evento esterno infrange l’equilibrio) e la poca attenzione (almeno per ora) al lungo periodo forniscono una base solida e semplice su cui costruire complesse architetture analitiche/sociologiche, ma se non si hanno nelle proprie mire autentici colpi di coda alla Mark Millar tutto potrebbe risultare deleterio.

martedì 11 marzo 2008

Southland Tales di Richard Kelly (2006)

Truffaut amava usare la definizione di grande film malato per tutti quelle opere circoscrivibili all’insieme dei capolavori abortiti. Per troppa sincerità, per eccesso di ambizioni o per semplice sfortuna. Southland Tales rientra perfettamente in questa categoria, andandosi a candidare come perfetto cult movie del domani. Quello di Richard Kelly è un lungometraggio dove l’eccessiva aderenza a una personalissima idea di cinema e sceneggiatura porta a un risultato esattamente sulla mediana tra pietra miliare e tonfo indifendibile.



Un eccesso di personaggi (pornostar, scienziati, attori, rivoluzionari, reduci,…) inseriti a forza in un contesto (poco) fantascientifico, ingarbugliati in una sceneggiatura che si bea dei suoi buchi e delle sue incongruenze. Deleterio provare a spiegare di più prima della visione.



Esattamente come nel Resurrection of the Little Match Girl (2002) di Sun Woo Jang un accumulo fuori controllo di visionarietà ha portato un risultato innegabilmente affascinante, esplicativo dei tempi confusi in cui viviamo. Si tratta di opere che hanno dalla loro una ricerca maniacale per l’iconografia di mondi alieni, generati dalla fusione impossibile tra sensibilità pop e introspezione ermetica. Squarci imperfetti su di un linguaggio che non fa che restituirci, opportunamente mediata, la realtà. Non a caso in entrambi i film i medium extra cinematografici la fanno da padrone: videogiochi, televisione, riprese amatoriali, narrazione letteraria, tutti piegati alla volontà di registi demiurghi di universi paralleli. E così scompaiono ritmo, climax, costruzione dei personaggi. In Southland Tales la recitazione è talmente sopra le righe da sfiorare in più punti il dilettantesco, la ricerca spasmodica di novità invade impunemente i territori del kitsch e del camp. Come trovarsi di fronte a una versione sotto anfetamina degli incubi di David Lynch.



La sensazione che rimane appiccicata addosso ultimata la visione è quella di non aver compreso perfettamente quello che i nostri sensi (iper stimolati e quindi inaffidabili) hanno catturato, impossibile cercare di estrapolare un giudizio ultimo dal labirinto di pensieri che ci offusca la mente mentre, laconicamente, i titoli di coda scorrono su sfondo neutro. Ci si deve affidare unicamente al canone convenzionale, analizzare movimenti di macchina, raccordi e messa in scena. Ma lo standard vacilla, non ci sono punti di paragone a cui ancorarsi. Se tutto è così altro, allora le scale di valore tradizionali hanno ancora un significato? E’ il caso di erigerne di nuove oppure è meglio lasciar perdere e concentrarsi sul prossimo spettacolo? Limitarci a godere dell’eccessiva durata di Southland Tales (ma anche di Resurrection of the Little Match Girl) come puro spettacolo visivo oppure puntare alla vivisezione?



In entrambe le opere l’atmosfera da apocalisse (fisica, ma anche di significato) imminente è palpabile, generando una tensione paragonabile solo al magnifico Kairo (2001) di Kiyoshi Kurosawa o al Seme della Follia (1995) di John Carpenter . E forse è questa la vera chiave di lettura: perché cercare un senso nella fine di tutto?




domenica 9 marzo 2008

[oldies but goldies] Save The Green Planet di Joon-Hwan Jang (2003)




Che cosa rende diverso Save the Green Planet dalle decine di pastiche che da qualche anno soffocano la creatività cinematografica difendendosi dietro lo scudo del post modernismo? Semplicemente profondità. Perché STGP è sì una commedia demenziale, un torture movie decisamente oltranzista, un thriller ben costruito e un film di fantascienza come non se ne vedevano da tempo, ma più di ogni altra cosa ci troviamo di fronte a un dolcissimo dramma interiore, a una riflessione sull’innata bontà dell’animo umano e a dettagliate istruzioni su come deturparla per sempre. Si ride a crepapelle, ci si spaventa, ma soprattutto (e quando meno te lo aspetti) si piange. A dirotto. E tutto è girato da un esordiente che passa di varie lunghezze ben più celebrati professionisti.



Byeong-gu è un poveraccio convinto che il suo capo sia un alieno venuto da Andromeda, tutto parte da qui. Ogni altro elemento svelato in anticipo contribuirebbe a svelare in anticipo il valore di una sceneggiatura dalle sfaccettature infinite e frastornati, ma sappiate che nelle due ore seguenti troverete TUTTO, dal cinema di genere alla denuncia sociale.



A rendere questo Save The Green Planet un capolavoro assoluto è, oltre alla già citata profondità, il labirinto di linguaggi che ci aspetta: dalla citazione cinefila all’animazione, passando per un sense of wonder che non richiede 150 milioni di collari a botta. Come l’ostaggio del protagonista ci ritroviamo rinchiusi in un labirinto da cui pare impossibile sfuggire, ma per noi questo è un lusso. Per la vittima di Byeong-gu no. Decisamente no. Fotografia, regia e montaggio sono ai massimi livelli, buttando sul piatto un bigino di tutto quello che è storia del cinema e della comunicazione visiva. E ampliandolo, aprendo squarci visionari sempre sospesi tra la poesia e lo sbeffeggio, trascinando per il bavero lo spettatore ipnotizzato da tale bengodi attraverso un cinema dell’accumulo che riesce a farci capire a che mostro d’intelligenza siamo messi di fronte pur comportandosi da scemo del villaggio. Dando un significato metaforico anche al passaggio slapstick, dipingendo di poesia il grottesco e il surreale.



Senza esagerare, il primo lungometraggio di Joon-Hwan Jang assume la forma di una sfregio in pieno volto per tutti quelli che non fanno che riempirsi la bocca dicendo che tutto è già stato fatto, scritto e immaginato. Perché l’ignoranza (e dando un limite alla creatività umana non si possono utilizzare altre parole) è una colpa che va portata ben stampata sul volto, soprattutto in un epoca in cui la colpa più grande è quella di non sapere (come dice un certo Anthony Giddens). Dove eravate voi quando tale magnus opus scuoteva i cinema dell’altra metà del mondo? A lamentarvi che nel multisala vicino a casa non passa che spazzatura a stelle e strisce? E allora perché non munirvi di carta prepagata e non ordinare il DVD direttamente in loco? Non ci sono scuse, se amate il cinema questo è uno dei titoli da recuperare tassativamente. Altrimenti vi meritate la vostra banalità.




Pagina IMDB: http://www.imdb.com/title/tt0354668/



sabato 8 marzo 2008

Loaded Bible di Seely, Bellegarde e Englert (Edizioni Arcadia/2008)



Loaded Bible è la prima uscita di taglio internazionale (viene prodotta dalla Image Comics) pubblicata dalle mirabolanti Edizioni Arcadia. E, in tutta sincerità, non poteva esserci un esordio migliore.


Partendo da una base ben piantata nella storia recente (11 settembre più conseguente campagna americana nel vicino Oriente) il primo volume si evolve fino a un futuro non sospetto, dove i vampiri dominano una Terra resa arida e lunare da anni di guerre e i pochi umani superstiti sono costretti sotto la cupola di New Vatican City. Guidati dal nuovo Gesù.


Da un’idea che probabilmente appare a noi europei molto più scontata che sul suolo statunitense (le religioni organizzate come maschera per vili operazioni economiche e di potere), Tim Seeley riesce a costruire una buona storia sospesa tra l’action (è meraviglioso sentire Gesù sputare battute come Venite a fare la comunione, stronzi!) e la metafora socio politica. E’ un po’ come vedere il capolavoro Starship Troopers, ma senza insetti e derivazioni queer: ci sono i media come finestra sul mondo, le cospirazioni e una sana dose di ultra violenza. Oltre che un’accusa pesante come un maglio di granito sulla schiena di conservatori (e questo vale anche fuori dagli U.S.) ancora convinti di vivere nel 1800. Ciò che invece colpisce maggiormente è come il pericolo di un’accozzaglia tra lo splatter e l’umorismo crasso sia stato abilmente evitato (già mi immagino le fregole dei weirdo maniacs alla lettura del sottotitolo Gesù Contro i Vampiri), preferendo invece un tono quasi troppo serio (esattamente come il film di Verhoeven) che non fa che far risaltare la ridicolaggine di alcune situazioni.


Altalenanti i disegni di Bellegarde e Englert, anche in virtù dell’impietoso confronto con le magnifiche pin up inserite nell’edizione italiana (pin up a cura di Caluri, Enoch, Cremona, Gabrielli e Venturi). Cover di Caselli.



giovedì 6 marzo 2008

[trailer] Karaoke Terror (Tetsuo Shinohara / 2003)





Finalmente pare che anche noi occidentali potremmo goderci comprensibilmente il cult Karaoke Terror, vicenda ultraviolenta e altrettanto demente che ci narra la guerra senza esclusione di colpi tra due squadre di karaoke. Basato sul racconto di Ryu Murakami, diretto da Tetsuo Shinohara e gentilmente fornito dalla grandiosa Synapse Films. Accattatevi il trailer e cercate di convincervi che questo film esiste veramente.

mercoledì 5 marzo 2008

Kenta Fukasaku, terrorista di plastica (Parte 2 di 2)



In Yo Yo Girl Cop (2006), seconda opera completa di Kenta dopo lo stopposo e sorvolabile melo Under The Same Moon (2005), ritroviamo tutta una serie di punti necessari per poterlo considerare praticamente una sorta di sequel spirituale di BR2, a partire dalla ricomparsa dei collari esplosivi fin dalla primissima scena. Questa volta la guerra tra adulti e adolescenti si sposta direttamente nella tana del serpente, in quei licei giapponesi dilaniati dalla piaga del bullismo e della depressione. Sfruttando la debolezza dei giovani, le menti dietro ad un misterioso sito denominato Enola Gay (come l’aereo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima) organizzano attenti terroristici e suicidi di massa. Toccherà alla nuova “volontaria” (anche in questo film gli adulti costringono i giovani a collaborare solamente grazie al ricatto) dell’universo Kentiano salvare la situazione, inguainata in una sexy tutina di pelle e maneggiando un pericolosissimo yo yo da combattimento. E così, sotto la superficie plasticosa e in odore di fan service del cliché “liceale caruccia ma incazzosa”, ecco che troviamo un mondo di adolescenti che non riescono a comunicare tra loro se non via chat o via cellulare, anche se ci si trova uno di fronte all’altro. Confessare un terribile segreto alla migliore amica risulta impossibile se non attraverso un medium che allontani e sterilizzi le emozioni. Un microcosmo di sogni infranti ancora prima di nascere, dove secchioni reietti costruiscono bombe con il proprio migliore amico, con il sogno di vedere la propria scuola distrutta tenendosi teneramente abbracciati. Lo scambio realtà/finzione continua a rimanere pericolosissimo, giocando sulla lama della provocazione, buttando sul piatto vite e morti reali in un contesto esplicitamente da carta stampata.


Come le opere precedenti di Fukasaku anche quest’ultimo lavoro non è certo esente da difetti, a cominciare dal ritmo e da certe scelte di montaggio, ma la densità e la qualità delle idee presenti non possono che far chiudere un occhio, facendoci prediligere l’opera imperfetta di questo giovane rispetto alla vuota perfezione formale di professionisti già affermati (perfetto per questo esempio il sud coreano Myung Se Lee, esteticamente abbagliante ma privo di qualsiasi mordente).


Ora rimaniamo in attesa dell’ultimo lavoro di Kenta, XX (aka XX ekusu kurosu: makyô densetsu - a.k.a. X-Cross), arrivato nei cinema giapponesi il 1 dicembre 2007. Il trailer lascia presagire una sorta di pout porri di j horror, splatter, folklore rurale, motoseghe e melensaggine pop. Ancora una volta la scelta pare essere quella di giocare con un magazzino di significati e significanti con le fondamenta ben piantate nella terra del Sol Levante, con la speranza che la plastica dell’immaginario si riveli ancora una volta concreta come la suola del noto scarpone Orwelliano.



martedì 4 marzo 2008

Kenta Fukasaku, terrorista di plastica (Parte 1 di 2)

Kenta Fukasaku è probabilmente il più subdolo tra i nuovi provocatori del cinema d’Oriente. Lontano dalla furia di un Takashi Miike o dall’elegante scaltrezza di Park Chan Wook, il figlio del Maestro riesce a fondere come pochissimi altri l’essenza kawai dell’estetica e filosofia otaku con amare riflessioni sulla sociologia e sulla comunicazione del mondo moderno. Come se si trattasse di una versione impudente e hardcore di Bauman, Kenta ci parla (malissimo) dei nostri giorni rivestendo l’amaro calice di una patina plasticosa dai tipici colori accessi e caramellosi tanto caratteristici agli anime.


La poetica di Kenta esordisce con la sceneggiatura di Battle Royale (2000), apocalittico Signore delle Mosche di inizio millennio e canto del cigno (se si escludono i filmati per il videogioco per PS2 Clock Tower 3) del padre Kinji, ormai divorato da una terribile malattia. Una classe di un liceo a caso del Giappone viene inviata su di un isola, location in cui gli studenti dovranno lottare tra loro per la sopravvivenza. Tra geyser di sangue e trovate di un umorismo nero come la pece (le stoppose dichiarazioni d’amicizia o d’amore in punto di morte assumono tutto un nuovo significato se maneggiate dal regista de La Tomba dell’Onore), il film si pone come un pugno in pieno volto al sistema nipponico, presentandosi però sotto le mentite spoglie di blockbuster da campagna pubblicitaria shock. L’opera, oltre al suo significato politico, può essere vista anche come prosecuzione delle sperimentazioni sul linguaggio pop del regista, da sempre avvezzo a rubare soluzioni grafiche al fumetto e ad altri linguaggi generalmente considerati “bassi” (basti pensare a come seppe asciugare l’azione tramite freeze frame fin dai suoi primissimi yakuza eiga). Ma tutto questo è nulla se paragonato alla potenza deflagrante dei successivi progetti del giovane cineasta nipponico, a partire proprio da Battle Royale 2 (2002).


Dopo una sola scena di girato (ironicamente un flashback dal primo capitolo) Fukasaku viene sopraffatto dalla malattia, lasciando al figlio il compito e l’onere di completare il lavoro. Quello che i produttori si ritroveranno tra le mani può essere ricordato come uno dei debutti più sottovalutati, bistrattati e incompresi della storia del cinema recente. In questo kolossal in dimensione action figure (non sarebbe sbagliato paragonarlo concettualmente con una delle più azzeccate campagne pubblicitarie per il videogioco Halo 3 costituita unicamente da riprese ad un tipico tabellone da war game) tutto è un gradino oltre quello che ci sarebbe aspettato, dalla messa in scena all’ideologia: in un futuro in cui sopravissuti delle precedenti edizioni del BR si sono riuniti in un cellula terroristica e hanno dichiarato guerra al mondo degli adulti, colpevoli e incapaci genitori, finzione e realtà appartengono ormai a un unico palcoscenico.

Nella scena di apertura diversi grattacieli nel centro di Tokyo implodono miseramente su se stessi, lo scenario trova immediatamente soluzione in un video messaggio in cui Shuya (il capo dei terroristi e protagonista del primo film), munito di regolare AK, dichiara che il folle gesto sarebbe stato il primo di una lunga serie. In fretta e furia il governo nipponico decide di combattere i giovani terroristi inviando proprio la classe prescelta per l’edizione annuale di BR. Muniti nuovamente di collare esplosivo gli studenti vengono introdotti brutalmente alla loro nuova identità da un ipercinetico Riki Takeuchi (regular di Miike e di un certo cinema eccessivo del Sol Levante), che pensa bene di incominciare la lezione del giorno elencando su di una lavagna i nomi di tutte le nazioni bombardate dagli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale ad oggi, con tanto di conta dei morti. Tanto per far capire alla classe quanta differenza ci possa essere tra il valore di una vita umana e l’altra.


Lo sbarco sull’isola appare come una sorta di rivisitazione in chiave first person shooter della messa in scena bellica per eccellenza del cinema post moderno, quel Salvate il Soldato Ryan capace di fissarsi indelebilmente all’immaginario collettivo, andandosi qui a imbastardire con le ossessioni di un Verhoeven reduce da una maratona di dodici ore non stop di Quake. I pacchi con gli aiuti arrivano dall’alto, piccole casse di legno munite di paracadute e icona identificativa del contenuto (i medikit sono indicati da un grosso cuore) e la missione è scandita da scritte in sovra impressione, ad indicare l’inizio di un nuovo livello. Anche le armi usate dai ragazzini hanno un aria talmente moderna e gargantuesca da sembrare opera di pura finzione, come se si fossero trovare dietro ad una cassa, galleggiando a mezz’aria. Peccato che i fucili in questione esistano veramente (i FAMAS dell’esercito francese), generando un cortocircuito di significati che ribalta tutto il senso della scena. La guerra come videogioco, esattamente come apparse ai telespettatori di tutto il mondo durante quella straziante diretta da Baghdad del 1991, dove ci si sposta in un continuum da blog televisivo, passando dall’Afghanistan, alla Normandia fino al Vietnam (l’entroterra dell’isola) come se non ci fosse nessuna differenza reale, come se tutto fosse un set o stringhe di programma impresse su un DVD per Xbox. La confusione tra i piani della realtà viene spinta ancora più in la quando il giovane terrorista narra delle sue peregrinazioni nelle zone più disastrate della Terra, mentre sullo schermo compaiono scene di vita reale relative al Vicino Oriente. Se la finzione entra nella realtà ecco che Fukasaku compie esattamente il contrario: la vicenda fittizia di BR2 si svolge nel nostro VERO mondo. I dati che il prof. Takeuchi dichiarava con tanta foga erano veri.


lunedì 3 marzo 2008

Battlefield Heroes: segui lo sviluppo del primo gioco freeware prodotto dalla Electronic Arts

La cattivissima (orari disumani, corporativismo hard core,...) multinazionale del videogioco Electronic Arts finalmente ci concede una (finta) buona azione: seguire via blog lo sviluppo del loro primo prodotto freeware, per la cronaca Battlefield Heroes. Avremo quindi l'occasione di consigliare e dare giudizi alle scelte dei game designer di casa EA, un pò come è successo nel cinema con Snakes On A Plane. Noi ci guadagnamo un giochino che pare essere una bomba d'ignoranza e l'occasione per atteggiarci a CT dell'industria videoludica, loro un treno merci di pubblicità praticamente gratis e, allo stesso prezzo, uno studio dettagliato del nerd pensiero.


Sperando che Battelfield Heroes non lavori unicamente con quella m***a di Vista. In quel caso che si cerchino un altro criceto da laboratorio.


http://www.battlefield-heroes.com/


sabato 1 marzo 2008

I molti mondi della Rockstar Games

La Rockstar Games è la software house più figa del globo terraqueo. E lo dimostra il fatto che la loro serie Grand Theft Auto abbia almeno un paio di titoli nella top ten dei videogames più venduti di sempre, nonostante chiunque abbia mai provato GTA sia a conoscenza della sua ingiocabilità. Ma i Nostri hanno almeno un paio di frecce al loro arco che li rendono praticamente inavvicinabili: un desiderio selvaggio di andare sempre "oltre" (chi altro avrebbe messo in cantiere un simulatore di malavita? E uno di bullismo?) e la capacità di maneggiare come pongo gli ultimi trent’anni di cultura pop. Passare qualche ora con i loro prodotti significa essere bombardati da citazioni e influenze tanto puntuali da perdere quasi la loro forma originale, rischiando di passare come trovate originali degli art director di casa Rockstar. Di seguito una serie di loro capolavori, alcuni tra i migliori trailer realizzati da questi fenomeni per i loro mondi artificiali.

Manhunt: la caccia all'uomo definitiva. Avreste mai immaginato di usare una borsa di cellophane per giustiziare qualcuno?


Max Payne: unite il noir americano, John Woo e una New York da girone infernale. Il videogame che sfida Halo per numero di colpi sparati.


Grand Theft Auto: carrellata di trailer capolavoro. Come assistere a uno show reel con il meglio del crime movie statunitense. Commoventi le scelte audio.












Bully: iscrivetevi alla peggiore scuola del mondo e dimostrate di esserne degni.

Red Dead Revolver: sangue, piombo e vendetta. Proprio come in un film di Corbucci.