giovedì 27 ottobre 2011

In partenza



Io parto per Lucca. Ci si vede da domani a domenica allo stand Passenger Press.

martedì 25 ottobre 2011

Cose da pazzi: Deadpool Max di David Lapham e Kyle Baker



Osservare con occhio smaliziato le produzioni seriali significa venire a conoscenza di meccaniche e logiche magari invisibili al lettore casuale ma impossibili da ignorare per chi certa cultura la macina senza sosta da anni. Una delle variabili più tangibili e importanti nel valutare economicamente se procedere o meno con l’acquisto di un tpb (o di un albo) è il livello di difficoltà nello scrivere un determinato personaggio. Ci sono serie che con il minimo sindacabile garantiscono letture godibili e altre che invece hanno bisogno del grande narratore per raggiungere la sufficienza. Poi c’è una categoria a parte, quella dei titoli all’apparenza cazzoni ma in realtà quasi impossibili da scrivere e disegnare a buoni livelli. Prendendo visione delle atroci storie pubblicate ultimamente dalla Panini è fuori da ogni dubbio che Deadpool faccia parte di questa categoria. Un personaggio che campa ancora sui bei ricordi della sere di Kelly e McGuinness (anno domini 1997), pagine che sinceramente non ho il coraggio di andare a rileggere per paura di rimanere deluso.


Fortunatamente qualcuno alla Marvel ha finalmente realizzato che a un personaggio di questa risma occorre avere alle spalle una squadra di fuoriclasse, arrivando così alla conclusione di mettere a lavorare sullo stesso titolo due personalità come David Lapham e Kyle Baker. E finalmente anche Deadpool ha la sua serie meritevole di lettura. Eppure, ora che abbiamo sotto mano il risultato di questa strana unione, la ricetta non ci appare poi così complicata.


Via ogni giochetto metalinguistico sul mondo dei supereroi, riferimenti alla cultura pop o fiumi di battute scadenti. Porte spalancate per situazioni realmente sgradevoli (il calco delle chiavi nelle feci pescate da un wc), personaggi deviati e vicende sopra le righe (nell’accezione più matura possibile, vedi l’episodio dell’avventura sessuale all’interno dell’ospedale psichiatrico). L’intero arco sull’improvvisa paternità del protagonista è un piccolo capolavoro di follia, reso alla perfezione dalle anatomie deformate di un Kyle Baker completamente calato nel clima della narrazione. Ed è proprio l’autore di Perché Odio Saturno ad avere buona parte del merito di questo successo insperato. Il suo tratto, sospeso tra realismo e caricatura grottesca, restituisce il senso di straniamento (per nulla divertente) di un Deadpool incapace di tracciare una linea retta tra allucinazione e realtà. Caratteristica condivisa da tutti i suoi comprimari (pare che nessuno sappia veramente chi sia e che cosa stia succedendo) così come dal lettore, tenuto costantemente sulle spine. Bob lavora per la CIA o per l’Hydra? Domino è veramente Domino o si tratta solo di una ninfomane affetta da dissociazione? Deadpool lavora per i buoni o sta spingendo il mondo verso l’Apocalisse?


In Deadpool Max le storie sono tutt’altro che serie, eppure si ride pochissimo. Volutamente. E proprio qui il più grande risultato di Lapham e Baker: prendere un personaggio che tutti vogliono per forza di cose innocuo e divertente e restituircelo come sfaccettato, disturbante e imprevedibile. Lasciamo un giullare iperviolento e ritroviamo qualcosa di più simile al Joker, anche se privo della malvagità senza limiti del cattivo di casa DC. Perché pur sempre di un mercenario si sta parlando, e per i professionisti ciò che conta è portare a conclusione il lavoro. Indifferentemente da chi l’abbia commissionato.

venerdì 21 ottobre 2011

Rape'n'Reality Show: Scarlet di Brian M. Bendis e Alex Maleev



Il paradigma “Fai sembrare finta la realtà e vera la finzione” è senza ombra di dubbio una delle chiavi di volta della potenza mediatica acquisita negli anni da MTV. Se si prende in analisi la programmazione dell’emittente non ci si può non rendere conto di quanto questa caratteristica ne vada a intaccare ogni aspetto, rendendolo il vero fil rouge di tutta la sua produzione interna. Tanto i reality seguono dei palesi copioni (non esiste la striscia quotidiana ma solo la puntata settimanale, in cui abbiamo narrazione sia verticale che orizzontale) quanto, alla stessa maniera, i TF sono basati su un modello linguistico da proto-cinéma vérité (con l’esempio più chiaro nel gradevole My Life as Liz). Questo è declinato anche in reality più antologici (alla I used to be fat) così come nei megaeventi (EMA, VMA,…). Simbolo di questa tendenza la partecipazione, in veste di cugino italoamericano del protagonista, di Vinnie (uno dei Guidos di Jersey Shore) al telefilm Hard Times. Nel mondo di MTV una persona “vera” può diventare persino parente di un personaggio di finzione.


Piuttosto curioso come tale variazione del linguaggio televisivo non fosse stata ancora sfruttata a dovere da quel mostro mutaforma che è il fumetto. Abbiamo serie scritte come 24, altre come NYPD Blue, ma pochissime (nessuna?) come The Real World. E qui arriviamo a Scarlet. Un fumetto in cui la protagonista (e qualche comprimario) si confessa al lettore parlandogli direttamente, muovendosi in un mondo che (almeno nei primi 5 numeri) parte da una versione post-adolescenziale di Death Wish per arrivare a una serie spaventosa di parallelismi con l’attuale (e quindi reale) situazione socio-politica. Tutto incorniciato dalle tavole di un Alex Maleev fuori scala, mai così sospeso tra stilizzazione e iperrealismo.


Non ho la minima idea di come Bendis possa riuscire a gestire questa cosa nelle prossime uscite. Se nei primi numeri la favoletta della vendicatrice alla Zoe Lund poteva reggersi sulle fragili gambe della sospensione dell’incredulità (la sequenza in cui Scarlet si improvvisa cecchino e impara a colpire a morte nel giro di due colpi), le gestione dell’attentato interno alla manifestazione anti-corruzione invece è pura dinamite sospesa su uno scoppiettante falò. All’interno delle pagine della quinta uscita ci si chiede chi possa aver lanciato la granata sui manifestanti: le forze dell’ordine rancorose o qualche frangia interna alla protesta? E questa da chi potrebbe essere composta? Estremisti desiderosi di avere un motivo per cui attaccare le forze dell’ordine o agenti in borghese?


Adesso distogliamo lo sguardo dalle pagine stampate e volgiamolo a Roma, Atene, Genova,Seattle,… Finiremo per porci le stesse identiche domande. Eccovi servito l’ennesimo trucchetto per facilitare l’immersione del lettore nella narrazione di Scarlet. Bendis gioca sporchissimo e cerca in ogni modo di distorcere la nostra concezione di moralità grazie alla potenza empatica della prossimità. Grazie a tutti gli stratagemmi di cui sopra (compresa la scelta del disegnatore, fondamentale) sentiamo la protagonista vicina, reale e tangibile. Come possiamo dargli torto se lei decide di farsi giustizia da sola? La sua è una tragedia struggente. Eppure siamo pronti a indignarci appena si sente parlare di un cittadino che decide di difendersi da solo. Aldilà delle incongruenze narrative, dei dialoghi taglienti e delle facili sortite nel rape’n’revenge/noir il vero punto focale della nuova serie Icon è questo: il nostro mondo e quello di carta si confondono. Se con risultati brillanti o meno è ancora presto per definirlo (il primo Tpb comprende solo 5 numeri), ma le premesse per qualcosa di interessante ci sono tutte.

giovedì 20 ottobre 2011

The real american hero:Butcher Baker, The Righteous Maker di Joe Casey e Mike Huddleston



Prima o poi doveva succedere. Era fin troppo sospetto che nessuno avesse mai pensato di dedicare una serie al Comico, forse il personaggio più carismatico e affascinante di Watchmen. Per fortuna ci ha pensato il veterano Joe Casey, partendo da un trito meltin pot di suggestioni (e non ci si riferisce al capolavoro di Moore) ma rischiando (per il nostro sollazzo di lettori smaliziati) di arrivare in territori non sospetti.


A livello superficiale Butcher Baker potrebbe essere definita semplicemente come “comic booky” (aggettivo tanto stupido quanto funzionale coniato da un giornalista statunitense per definire il Super Dinosaur di Kirkman e Howard), grazie alle incredibili tavole di Mike Huddleston (di cui andrò a parlare più avanti) e a una sceneggiatura che preme sull’acceleratore fin dalla prima tavola. Bizzarrie, volgarità, personaggi fuori di testa e un sacco di azione. Nei primi 7 numeri di questa serie non c’è un attimo di pausa, tutto viene sparato in faccia al lettore senza lasciargli il tempo di respirare. Nel giro di un pugno di pagine abbiamo già conosciuto il protagonista, una sorta di ex-Capitan America/Comico oggi dedito a ogni sorta di vizio (con una predilezione per il sesso di gruppo), e siamo in viaggio a tutta velocità sul suo folkloristico mezzo di locomozione. Per la cronaca: una motrice da autotreno a cabina arretrata decorata con stelle e strisce. La destinazione è la classica ultima-missione-prima-della-pensione-dorata. Naturalmente non tutto va per il meglio e i casini, in questo caso rappresentati da Jihad Jones, L’Assoluto e la loro strampalata cricca di supercriminali, non tardano ad arrivare. Fino a questo punto sembrerebbe di trovarsi di fronte all’ennesimo polpettone postmoderno dove più roba ci metti meglio è, salvato solo dall’indubbio mestiere di Casey nel costruire dialoghi fulminanti e cliffhanger a pioggia. Eppure tra le righe emerge qualcosa di più, come se Butcher Baker fosse un personaggio che interpreta a sua volta un personaggio. Se a tratti la sua è una figura Millariana, contraddistinta dal più scontato cinismo bidimensionale, sporadicamente si incappa in passaggi carichi di amarezza e stanchezza. Di nostalgia, verrebbe da dire. Il culmine si ha quando, successivamente all’abbattimento di una colorita criminale, il Nostro rimugina sul fatto che anche dopo tanti anni di scontri non avesse mai saputo il vero nome della sua giovane antagonista. Un pensiero che lo colpisce mentre ne tiene delicatamente in braccio il cadavere. Butcher Baker si tratteggia più volte come il vero eroe americano, ma non esita a fuggire in una sorta di villaggio turistico per ex supereroi appena le cose si mettono male (senza smettere di pensare però ai guai lasciatisi alle spalle). Da una superficie semplicemente divertente, e riuscire a rendere divertente l’ennesimo post-pulp nel 2011 è già un bel risultato, pare destinato a emergere un substrato ben più profondo e importante. Vedremo nei prossimi numeri. Anche perché, dalle stesse parole di Butcher Baker, i supereroi hanno sempre un disegno più vasto.


Passiamo a Mike Huddleston. Cercherò di essere diretto: pensate a un Genndy Tartakovsky che cerca di imitare Bill Sienkiewicz. Nella stessa pagina riescono a convivere matite grezze, passaggi pittorici, chine durissime e soluzioni digitali. Tutto declinato a un’estetica spigolosa e super deformed. Siamo dalle parti dell’estetizzazione estrema, spesso e volentieri slegata dallo story telling, con tutti i pro e i contro di questa scelta. Se alcune tavole risultano confuse e troppo autoindulgenti nell’affiancare in modo gratuito stilemi di mondi lontanissimi, nella gran parte dei casi il risultato è strepitoso. Fresco, ipercinetico, aggressivo e stimolante. Non si potrebbe chiedere di meglio (anzi sì, un pò più d’impegno nelle cover. Drammaticamente più povere delle tavole interne). Mike è il classico disegnatore di cui compreresti qualsiasi cosa solo per poterti riempire gli occhi della sua arte.


In conclusione Butcher Baker, The Righteous Maker è per ora un’ottima serie, scanzonata e frizzante quanto basta per preferirla a tanta paccottiglia in calzamaglia, su cui si staglia l’ombra di una sovrastruttura più tetra e complessa. Speriamo che i due demiurghi Casey e Huddleston decidano presto di mostrarcela.

lunedì 17 ottobre 2011

Sarà anche il pezzo d'arte più fighetto e paraculo dell'anno ma...



...quanto è bello il Rick Genest (esatto, quel folle ipertatuato che nel corso degli ultimi 12 mesi si è visto ovunque) in bronzo di Marc Quinn (esatto, quello dell'autoritratto fatto di sangue congelato)? Qui un sacco di altre belle foto.

domenica 16 ottobre 2011

In arrivo a Lucca 2011: You Won't Like It



Ecco il miglior modo di rovinare le aspettative venutesi a creare con Bizzarro Magazine. Dopo aver passato tanti mesi a studiare l'identità per un magazine che dovesse essere prima di tutto un oggetto da collezione (vedrete la copertina cartonata con le bandelle, i due tipi di carta,...) sentivo il bisogno di fare il salto dello steccato. Nasce così You Won't Like It (nome rubato da una vecchia tshirt di un gruppo ultra-ignorante di cui non ricordo il nome). 64 pagine fotocopiate malamente su carta rosa fluo stipate di fumetti scadenti, satanismo da quattro soldi (parecchio satanismo da quattro soldi), droghe chimiche, videogiochi psicotropi, umorismo che non fa ridere e provocazioni gratuite. Tutto generato dal sottoscritto in chiave rigorosamente lo-fi. Che senso ha tutto questo? Assolutamente nessuno. In un mondo come quello del fumetto italiano, dove tutti sono geni & artisti impegnati a livellare il medium verso l'alto, mi pareva carino contribuire fissando lo standard in senso opposto. Un pò come quelle band grindcore totalmente incapaci. Tu puoi dire che la loro musica fa schifo, ma mentre tu ti lamenti loro sono in cantina a registrare un altro disco (e a godere del fatto che a te non piacerà).


Anche se uscirà per Passenger Press Christian non ne ha nessuna colpa.

sabato 15 ottobre 2011

In arrivo a Lucca 2011: Bizzarro Magazine




Ora che ho veramente finito posso parlare di questo progetto, una delle principali cause del mio allontanamento da questo blog negli ultimi mesi. Bizzarro Magazine è una rivista cartacea fondata e prodotta dai ragazzi di Bizzarro Cinema, pubblicata dalla Laboratorio Bizzarro Edizioni. Il primo numero è completamente dedicato a quel calderone di suggestioni che è il post-atomico, qui sezionato e analizzato come pochi hanno saputo fare prima. Al centro rimane il cinema, ma l'argomento è sviscerato in ogni sua variante. Dal videogioco alla letteratura, per capirci. Io di mio ci ho messo la direzione artistica (leggi: ho impaginato) e un pugno di articoletti (di cui uno sul mio caratterista preferito di sempre: l'inimitabile Luigi Montefiori), mentre un sacco di gente talentuosa ci ha messo illustrazioni da paura e articoli belli lunghi e difficili (che sarebbe poi il motivo principale per cui sono salito a bordo del progetto: cultura pop trattata come si deve, evitando ammiccamenti o linguaggi da ritardati). Sempre tra le lussuose pagine del volume trovate un mucchio di foto rare ricevute direttamente dai registi e ben 24 pagine di fumetto (4 trailer di film immaginari, di cui uno di Christian Marra e uno di Massimo Dall'Oglio).


Piccola nota a margine. Anche se non ci avessi lavorato farei di tutto per promuovere questo progetto, per un semplice motivo: in Italia una rivista culturale "di genere" occorre. Occorre che sia di carta (per durare), fighetta e ben vestita (per vendere) e piena di articoli che richiedano concentrazione per essere capiti (per riattivare qualche cervelletto sopito da troppo tempo). Duellanti e Cineforum saranno sicuramente testate prestigiose, ma io voglio tutto quello di cui accennavo prima declinato nel mio mondo. Visto che, e mi sembra di averlo dimostrato più volte su queste pagine, anche fumetti commerciali e produzioni a basso budget possono avere tantissimo da dire.

martedì 11 ottobre 2011

The great days of fotocopia: The Slayer Mag Diaries




Dopo il libro Lego un'altra uscita che mi solletica non poco. La ristampa integrale della seminale fanzina Slayer in un gigalibrone di 744 pagine. Un fantastico mezzo per capire come ci si muoveva nell'underground prima dell'avvento di Internet (ricordo che Slayer Mag, scritto e fotocopiato da poco più di adolescenti, aveva diffusione mondiale e un peso più che autorevole). Fuori per quelli della Bazillion Points.

lunedì 10 ottobre 2011

Walter Simonson ti voglio bene



Cosa ti rimane dopo aver girato l’ultima pagina del monumentale omnibus dedicato al Thor di Walter Simonson? Personalmente è come se in casa mia fosse entrata la cosa più vicina alla Bibbia che io potessi immaginare. Perché nelle 1200 pagine di questo tomo (enorme, lussuoso nella stampa e nei materiali, curato fino al particolare nel particolare, ricolorato tanto bene da ululare al miracolo) è racchiuso tutto quello che fa grande il fumetto di genere. Il genio di Simonson è riuscito a prendere uno dei personaggi più improbabili di un genere improbabile (parliamo di un Dio nordico immerso in un mondo di mantelli e calzamaglie, vi rendete conto?) e a trasformarlo in qualcosa di epico, umoristico, profondo, innocente, rivoluzionario e fuori dal tempo. Viviamo in tempi di reboot, continui crossover, riletture adulte, staticità, allontanamento schifato dalle produzioni popolari e mille altre amenità che dovrebbero riuscire, da un momento all’altro, a rilanciare un medium dato da troppi per boccheggiante. Leggere queste pagine a distanza di 25 anni dalla loro pubblicazione invece non fa che sbatterti in faccia la verità: tutto quello che occorre è semplice e puro grande fumetto. Aldilà di etichette e proclami vari.


Nelle sue pagine Simonson fa volare l’immaginazione in un modo così libero e candido che solo un bambino potrebbe fare di meglio. Nelle sue storie troviamo razze aliene in fuga da demoni spaziali, antiche divinità impegnate per millenni a forgiare spade imbattibili, elfi oscuri e minacce tecnologicamente impossibili,… Un bestiario ricchissimo e colorato, che trova però posto in una struttura narrativa tutt’altro che semplice e lineare. Le saghe della run impiegano decine di numeri per arrivare al climax, senza dimenticarsi di incominciare a introdurre l’arco narrativo seguente prima ancora che quello in corso si esaurisca. L’attenzione non si concentra mai esclusivamente sul biondo protagonista, dedicando pagine e porzioni importanti (molto più toccanti di quelle dedicate al titolare della testata) a ogni comprimario della serie. Questo porta a sezioni incredibilmente complesse, interi numeri dove al massimo si sta sullo stesso personaggio per 1 o 2 pagine. La tavola prima si è a Manhattan, quella dopo nello spazio profondo, quella dopo ancora in un regno sperduto e così via. Il risultato è un mosaico di vicende pulsante e profondo, che Walter l’abile burattinaio riesce sempre e comunque a convogliare lungo binari destinati a scontrarsi. Se volessimo fare un paragone visivo è come trovarsi di fronte a un complesso e infallibile meccanismo da orologio realizzato però con ingranaggi di plastica colorata. I singoli elementi saranno anche infantili, ma il risultato finale è il frutto di un abile maestro.


E la stessa cosa l’abbiamo a livello di registri. Simonson dissemina di trovate umoristiche le sue storie, ma se c’è da picchiare duro è più epico di una cover di Ronnie James Dio. Quando Thor decide di venire a vivere sulla Terra viene in contatto con Nick Fury che gli consiglia di mimetizzarsi semplicemente indossando un paio di occhiali. Thor ci crede poco (giustamente), ma il colonnello dice che con quell’altro tizio ha sempre funzionato. Il figlio di Odino continua a essere dubbioso. Se questo scambio di battute non vi ha mandato in solluchero evidentemente non avete letto abbastanza fumetti. Stessa cosa la si potrebbe dire degli strepitosi teaser che chiudono ogni numero. Simonson riversa tutta la sua verve umoristica in deliranti strilli da romanzetto pulp, senza farsi mai mancare frecciatine al sistema fumettistico statunitense. Dopo qualche numero questo piccolo bonus diventa irrinunciabile. Ma guai a pensare che Thor sia un fumetto stupidotto e leggerino. Quando gli archi narrativi si avviano alla fragorosa chiusura l’atmosfera si fa seria e la pagine si riempiono di epiche battaglie. Il tratto muscoloso (mai grottesco o esagerato, retrò eppure nervoso e marcato come le produzioni più moderne) del Nostro va a tratteggiare splash page che spazzano in un colpo solo le varie Secret Invasion e tutta quella pletora di risse da oratorio che oggi siamo abituati a considerare come scontri epocali. Si passa dal tono della commedia (o della favola) a quello del grande romanzo fantasy, epurandolo però da tutto quell’armamentario di cazzate pacchiane che lo rendono sopportabile solo a chi gira con un dado a 20 facce in tasca.


Simbolo di questa tendenza il trattamento riservato a Thor. Se Simonson dimostra una sensibilità rara nel dedicare ampi spazi a comprimari prima invisibili, dipingendoli come eroi all’altezza di quelli con il nome in alto sulla copertina (vedi la struggente sezione dedicata a Balder the Brave, forse l’eroe recalcitrante meglio reso dell’universo Marvel), le libertà che si prende con il Dio del Tuono sono strabilianti. Se oggi come oggi il massimo che si può fare a un eroe è ucciderlo e farlo tornare sei mesi dopo (grazie Bendis!) nelle pagine di questa gloriosa run succede di tutto: lo si sostituisce con un mostruoso alieno più sensibile e saggio dello stesso figlio di Odino (che infatti lo adotta), lo si trasforma in una rana (e relativa Rana del Tuono), lo si fa cadere vittima di pozioni d’amore, lo si fa combattere accanto a Loki per la salvezza di Asgard (dimostrando così che anche il fratello malvagio è più di una figura bidimensionale),… Non ci sono limiti all’immaginazione di Simonson. Eppure non si scollina mai nei territori dell’indulgenza e del fine a stesso. Per quanto le avventure che viviamo su queste pagine siano enormi, eroici i personaggi o buffi i loro scambi di battute non si ha mai l’impressione che si sia fatto il passo più lungo della gamba. Non si sconfina mai nell’evasione troppo populista grazie alle continue trovate (che costringono il cervello a stare bene acceso) così come non si finisce mai nel pretenzioso “genere d’autore” grazie alla ruspante voglia di continuare a giocare.


E una volta girata l’ultima pagina si ha come la sensazione di aver letto qualcosa di importante, anche se si tratta solo di uomini muscolosi che si prendono a martellate fra loro. A quanto pare roba rara al giorno d'oggi.

venerdì 7 ottobre 2011

Ucci, ucci,sento odor di... Red State di Kevin Smith (US/2011)



Pare che finalmente Kevin Smith sia riuscito a distaccarsi dalla sua trilogia del Jersey. Red State, parzialmente autoprodotto e autodistribuito, segna un nuovo punto di svolta per un regista che nel corso degli anni ha saputo soprattutto farsi voler bene. Questa è l’unica spiegazione al fatto che gli si continui a dare fiducia, tonfo dopo tonfo, nonostante ormai sia passato ben più di un decennio dal suo ultimo film veramente importante. Merito della sua trasparenza totale (che molti indicano come controproducente per la sua carriera) e del suo essere prima di tutto un fan con la fortuna di essere passato dietro la macchina da presa piuttosto che un regista in contatto con il suo pubblico. Dopo tutto si sta parlando di un personaggio che con i primi soldi guadagnati a Hollywood si è aperto una fumetteria, tanto sincero da ammettere senza difficoltà di aver passato i mesi seguenti al flop di Zack & Miri chiuso in casa a fumare erba e da aprire un blog dove parla della sua costante lotta con un fisico sovrappeso. Quando si è venuti a sapere che il suo prossimo progetto, un horror privo del suo solito tocco da commedia sboccata, sarebbe stato sviluppato in totale autonomia, lontano da ogni logica da multisala, la curiosità è salita subito alle stelle. E Red State ripaga tutta questa attesa alla grande.


Nonostante si parli di un film piccolissimo (neanche 90 minuti di durata, 2/3 location, sviluppo della trama minimo) il parto del nuovo Smith arriva al punto in maniera molto più diretta e brutale di tante megaproduzioni. La trama è presto spiegata: una setta cristiana che vede i gay come gli emissari di Satana sta scatenando un’ondata di violenza mentre un poliziotto vecchio e stanco (un enorme John Goodman) cerca in ogni modo di fermarli. Fine. Le tematiche catto-cristologiche da sempre presenti nella poetica di Smith (Dogma, Diavolo Custode, Reaper) questa volta sono presentate con foga quasi da torture porn, evitando ogni forma di ironia. L’ex commesso del New Jersey dimostra perfino di aver imparato qualcosina a livello di regia (alcuni frangenti della sparatoria finale sono clamorosi, da cardiopalma) anche se il meglio lo dimostra ancora una volta a livello di scrittura. Il lunghissimo monologo che introduce il reverendo Cooper va contro ogni luogo comune: il folle predicatore è un ammaliatore brillante e carismatico, lontano dal cliché del redneck con un plotone di figli deformi nascosti in cantina. La stessa costruzione della vicenda (che segue un ritmo sbilenco, con i personaggi sbattuti dentro e fuori come pupazzetti privi d’importanza) riserva qualche svolta non certo prevedibile, immergendoci in un mondo dove tutti appaiono arroccati alle proprie posizioni in maniera cieca e oltremodo stupida. E questo è anche il limite maggiore per un’opera che vuole essere prima di tutto ideologica. Smith punta il dito contro tutti, urlando (giustamente) quanto ogni forma di estremismo sia controproducente e potenzialmente autodistruttiva. Senza un minimo di approfondimento, dimenticandosi dei toni di grigio (la ragazza che cerca di salvare i bambini non vale, sarebbe troppo comoda). Dando all’insieme uno spessore un po’ più importante non si sarebbe andati a inficiare certo la potenza della tesi. Anzi, si sarebbero costruite una serie di sovrastrutture indispensabili per rendere la complessità umana di certe tematiche. Con conseguente aumento di dramma e carica empatica.


Ma così si sarebbe sicuramente stravolta l’identità di un film che vuole essere prima di tutto aggressione. E in effetti Red State è violento, nervoso e privo di sconti. Con un sacco di cristiani vogliosi di spaccare qualche testa. Gente che non si ferma mica con una semplice stretta puzzona (neanche se la fa Jason Lee).

giovedì 6 ottobre 2011

L'omino giallo che è in me...



...non potrà assolutamente fare a meno di questo libro. Qui una succosa anteprima. Piccola nota di colore: i miei pensavano che regalandomi esclusivamente Lego per tutta la mia infanzia (storia vera, ne avevo una marea) sarei diventato intelligente. Illusi.


P.S. se leggendo "omino giallo" avete pensato al mio amore per il cinema orientale siete razzisti.

martedì 4 ottobre 2011

Maniac in vinile? Fuori domani per quelli della Mondo



Domani, a un orario imprecisato, quelli della Mondo metteranno in vendita le 500 copie dello splendore qui sopra. Il capolavoro della copia Spinell/Lustig viene omaggiato con un nuovo (incredibile) artwork e una masterizzazione curata da James Plotkin (già questo lo rende di culto assoluto). Scontato il sold out nel giro di poche ore (come al solito).

[Giochiamo alla VERA guerra?] Warco



Un giorno o l'altro dovrò costruire un monumento a Matteo Bittanti. Questa volta gli devo la scoperta di Warco, uno FPS in prima persona che mette il giocatore nei panni di un reporter di guerra. Nessuna tempesta di piombo o secchiata di testosterone quindi, ma qualche stimolo in più per una parte della corteccia celebrale che solitamente l'arte videoludica evita accuratamente di stimolare. Chi ha avuto a che fare con questi singolari personaggi, i reporter di guerra, sa bene di che pasta siano fatti per potersi confrontare ogni giorno con scelte morali di un peso certo non indifferente. Il giornalista è sempre diviso tra il ruolo di eroe e quello di spietato avvoltoio (il caso più eclatante rimane quello del famigerato Bang Bang Club). Al videogiocatore quindi la difficile scelta di cosa riprendere (e montare e inviare al network) e di cosa lasciare fuori dall'inquadratura.

lunedì 3 ottobre 2011

Riavviare il blog con una lezione di vita. Impartita dai Machine Head.



Dopo settimane di impegni improrogabili (e, va detto, ricchissimi di belle soddisfazioni) finalmente riesco a rimettere mano al blog. Avrei voluto parlare del Drive di Refn, ma il pupo continua a tenermi lontano dalla sala cinematografica. Meglio qindi affidare il delicato compito di riavviare questo spazio 2.0 a quei coatti dei Machine Head. E alla lezione di vita che sono riusciti a sbattermi sul muso.


Ci sono uscite (editoriali, cinematografiche, musicali,…) che ti trasmettono un profondo senso di felicità. Questo nonostante la produzione in questione magari non sia neanche la tua tazza di tè. E’ appunto il caso dell’ultimo disco dei Machine Head, termine di una parabola umana e artistica che ha il sapore dolce e soddisfacente del riscatto personale in virtù dell’accettazione incondizionata del proprio DNA. E da questo la sincera e disinteressata gioia per una band che ha rischiato di essere dimenticata proprio per la smania di esserci a ogni costo, anche in lidi che non gli appartenevano minimamente.


L’occasione per un parallelo con una figura umana che fa parte dell’adolescenza di tutti noi è troppo ghiotta, quindi beccatevi ‘sto pippone moralistico-musicale:


1. Chiunque, a 14/15 anni, ha avuto l’amico con le cassettine più pazze del vicinato. Quello che te le metteva su a tradimento e ti bastonava con suoni di cui non avresti mai sospettato dell’esistenza. Nella sua singolare accezione quel tipetto con il gilet pieno di toppe era un’autorità, se ne sbatteva di quello che pensavano gli altri e tirava dritto per a sua strada. Naturalmente lo adoravi.


I Machine Head a inizio carriera erano proprio così. Burn My Eyes e The More Things Change... (i primi due album della band) lanciano Robert Flynn e compagnia direttamente nell’olimpo dei grandi. Passando, oltretutto, per strade che non erano ancora state battute. Inventarsi un genere più duro dei duri, vendere centinaia di migliaia di copie e ritrovarsi corteggiati dagli Slayer a 26 anni non è una cosa propriamente da tutti.


2. Lo stesso amico, una volta arrivato agli anni universitari, tende a ripulirsi. Via i capelli lunghi e le mixtape dei Cannibal Corpse. “Ma ascolti ancora quella roba?” “No, no. Adesso mi fa impazzire il post-new wave e i gruppi pompati da NME. Chiamano un sacco di figa”.


Per i Machine Head è l’epoca di The Burning Red. Album di osceno nu-metal che vende un putiferio. Il sequel Supercharger è invece un tonfo senza pari, e lascia la band praticamente in mutande. Letteralmente.


3. Dopo qualche tempo riesci a farti invitare a casa. Arrivato nella magione dell’ex-metallaro ti accorgi che i dischi post-new wave li ha solo in macchina. Accanto allo stereo, mezzi nascosti, ci sono ancora Reign in Blood e tutti i classiconi. Senza un filo di polvere sopra.


Through the Ashes of Empires è un disco un po’ così, pieno di amarezza per quello che era ma ancora troppo timoroso per staccarsi del tutto dai consigli di NME. Però la voglia di tornare a fare quello che ti piace veramente è tanta. Troppa.


4. Passa qualche anno. Quello che era il matto della compagnia è diventato un mediocre uguale a mille altre persone. Prima lo criticavi perché troppo tamarro, adesso ti accorgi di quanto ti manchi la sua ignoranza e la sua avversione ai compromessi. Sei annoiato, al baretto di sempre, quando una macchina si ferma proprio nel parcheggio di fronte. Alla guida il tuo amico, dalle casse pompa un frastuono come non ne sentivi da anni. Incominci a sorridere.


2007, arriva The Blackening. I Machine Head, sulla soglia di una rovinosa bancarotta, si ripresentano al grande pubblico con un disco di sole otto tracce, di cui quella in apertura è una suite thrash metal di oltre 10 minuti. Tutto l’album è un concentrato di rabbia, foga esecutiva e menefreghismo assoluto per quello che il mercato vuole. E’ un trionfo. L’album finisce nella Top20 di un sacco di paesi e vende in due settimane più di quello che l’album precedente ha fatto in 3 anni. La critica “seria” lo stronca (almeno fino a quando non si accorge di cosa stia smuovendo) mentre la comunità metal ulula dalla felicità. Viene accolto come l’unico sequel possibile ai classici degli anni ’80. In effetti The Blackening è colossale, ultradinamico e dalla potenza di un Caterpillar. Composto, suonato e registrato come pochi dischi si meritano di essere. Poco conta quanto possa essere telefonato e già sentito, perché dentro questo Vaso di Pandora tutto funziona da Dio. Questo è l’amico che cercavi da un sacco di tempo, con tutti i suoi pregi (tantissimi) e i suoi (adorabili) difetti. Te ne sbatti di tutto e te lo godi. I MH tornano sulla vetta, e lo fanno per la via più dritta e controversa possibile.


5. Dopo anni di latitanza eccolo lì, il tuo vecchio compagno di avventure. Scende dalla macchina e si presenta all’happy hour fighetto con una maglietta degli Iron Maiden comprata al mercato. Se ne sbatte di quello che pensano gli altri, sa di essere fuoriposto ma è raggiante. Era anni che cercava il coraggio per fare quello che voleva veramente e solo ora capisce che non era il solo a sperarci. Smetti di annoiarti e lui torna a essere quel piccolo boss di quartiere che era 15 anni fa.


Unto the Locust, fuori per Roadrunner da circa 10 giorni, è kitsch, eccessivo, sbrodolone e lontano anni luce dal concetto di modernità. Eppure è qualcosa che i Nostri non hanno mai fatto, un nuovo tassello nella loro costante evoluzione. E’ sincerità allo stato puro. Praticamente tutte le testate di settore lo indicano come disco dell’anno. Disco METAL dell’anno per la precisione, con buona pace per tutti quelli che si fanno le seghe compilando quelle top-ten in cui si cerca leziosamente di miscelare ogni genere antipopulista. E da qui il senso di felicità di cui parlavo a inizio dell’articolo. Alla faccia della retorica spicciola i Machine Head hanno rischiato di scomparire cercando di inseguire quello che non erano, ma sono tornati più forti che mai rivelandosi per quello che sono veramente. Metallari.


Coatti, privi di senso della misura, sconsiderati nell’ascoltare solo se stessi (vedi l’orrido coro di bambini in apertura di Who We Are). Il succo è che da settimana scorsa ho riascoltato questo disco allo sfinimento. Nonostante i ritornelli che cercano di unire post-thrash termonucleare e Manowar. Perché è il disco che i Machine Head meritavano di fare, rischiando di brutto ed esponendosi come non hanno mai fatto. Quando sarebbe bastato proporre una copia carbone del precedente lavoro per vendere bancali di copie. E se anche Unto the Locust non vi piace non potete non fare lo stesso i complimenti alla ciurma di Robert. Per essersi ricordati, nonostante la loro incapacità cronica di stare fermi su loro stessi, da dove vengono e per aver capito che per andare alla conquista del mondo si deve prima di tutto convincere se stessi e la propria gente.