mercoledì 31 marzo 2010

L'arte del buon cattivo gusto: Chew di John Layman e Rob Guillory (Bao Publishing/2010)

A ben vedere Chew è un lavoro perfetto proprio perché assolutamente non indispensabile. Non è il capolavoro ambizioso destinato a cambiare per sempre l’arte sequenziale, e neppure la meteora cool da seguire a ogni costo per capire dove andrà a parare nei prossimi anni il fumetto mainstream. Chew è semplicemente un fumetto divertente, intelligentissimo e autentico figlio dei propri tempi. Scritto e disegnato per una lettura briosa, senza per questo essere destinato a finire nel dimenticatoio una volta concluso. L’opera di John Layman e Rob Guillory è, detto in poche parole, intrattenimento a cinque stelle. Di quello che si incastra in tempo zero nell’immaginario collettivo proprio in virtù del suo essere genuinamente leggero e… attenzione alla parola proibita… piacevole. Partendo da uno spunto d’attualità (o perlomeno lo era all’uscita del primo volume statunitense) si finisce in un noir atipico e scorretto, con modalità e soluzioni introvabili altrove se non in un albo a fumetti. Dialoghi brillanti e mai volgari (o sforzati), tavole veloci e uno stile grafico che pare riprendere Eduardo Risso in versione old school Cartoon Network fanno il resto.



Altro punto a favore: tutta la vicenda parte da un’esperienza che tutti i lettori hanno vissuto sulla loro pelle (il terrore indotto per l’aviaria). Quale mezzo migliore per creare empatia e connessioni di significato tra fruitore e opera? Un po’ come il crollo delle torri in Ex Machina o l’abuso di Internet in KickAss (dove l’eroe diventa tale grazie a YouTube e MySpace). Una visione lucida del proprio tempo è quello che ha consentito a opere di fantascienza come Starship Troopers o District 9 di diventare dei classici istantanei, sfruttando la crisi medio orientale il primo (con questi nemici tutti uguali [disumanizzati] nascosti in grotte desertiche o impegnati in vigliacchi attacchi a distanza) o il nuovo apartheid mondiale il secondo (si veda il discorso relativo alle vite di scarto portato avanti da Bauman nell’omonimo testo). Si pensi invece a quanto, per esempio, suoni fuori tempo massimo l’idea di un fumetto che ci narra di una guerra fredda tra Umani e Alieni. Forse l’unico punto favorevole del casino che sono i nostri tempi è proprio l’abbondanza di materiale su cui lavorare, autentico bengodi da saccheggiare a piene mani. Sia che si tratti di delicate situazioni geopolitiche, gli esempi appena citati, piuttosto della mania dilagante per la pulizia, come succede in Chew. In un epoca dove l’Amuchina pare essere più preziosa dell’acqua noi ci ritroviamo immersi in una storia fatta di dichiarazioni d’amore consumate sotto geyser di vomito, sushi scaduto, pasti a base di cani putrefatti e investigatori cannibali. Si parte da provocazioni triviali (i soliti teenagers impegnati a pisciare nella friggitrice del fast food dove lavorano) e si arriva all’incorporazione dell’ultimo tabù da parte dei buoni. Senza mai disturbare veramente. Miracoli delle nuvole parlanti e del loro linguaggio specifico, membrana flessibile e malleabile come poche altre. Siamo ad anni luce dalla mediocrità dell’horror statunitense contemporaneo basato sulle stesse intuizioni. Esempio perfetto la pesca miracolosa nelle interiora di maiale in Saw 2: ne divertente come Chew, ne estrema come l’affogamento della sfortunata di turno tra le proprie feci nel primo Dead or Alive (regia di Takashi Miike, chi se no?).



Un basso peso specifico non lo si raggiunge con il vuoto pneumatico, come dimostrano le quintalate di fumetti realmente gratuiti che finiscono ogni settimana sugli scaffali delle fumetterie. Una delle categorie che più spesso insinua le nostre finanze è il classico pastiche postmoderno dove, con la scusa dell’ironia, ci troviamo infilato tutto l’armamentario trash degli ultimi 30 anni. Quindi alieni, ninja, tizie in bikini con UZI, splatter, blablablabla… zzzzzz… Chew invece, pur essendo un vero compendio di bizzarrie disgustose, riesce a mantenere una natura organica e complessa, dove ogni spunto pazzesco ha un suo perché perfettamente logico e coerente. Un po’ come succedeva nel fenomenale The Umbrella Chronicles, altro esempio di prodotto commerciale intoccabile sotto ogni aspetto. Tanto per dimostrare che si può portare avanti un discorso qualitativamente impeccabile pur rimanendo all’interno del sistema. Non un monito a cedere alle lusinghe del populismo, quanto ad accendere (e a far accendere al lettore) il cervello. Aggirare gli ostacoli ha sempre richiesto una certa arguzia.

lunedì 29 marzo 2010

Quando il gioco si fa tosto... cambiano le regole



Quei quattro eroi che si ostinano a leggere questo blog avranno capito quanto poco mi piace parlare dei cazzi miei. Questo per un semplice motivo: penso che i cazzi miei debbano interessare a me e a pochi altri. Punto. Non capisco come ci si possa sollazzare al pensiero di investire del tempo (la risorsa più rara che abbiamo) a leggere degli affari di sconosciuti (perchè di questo si tratta). Sopratutto quando questi racconti di vita vissuta non si compongono di scenette divertenti (che fanno sempre piacere) ma da lagne spesso basate sul nulla (o, ancora meglio, sulla mancata esperienza di qualche mese in miniera e/o cantiere). Sono un ottuso bergamasco delle Valli, e non sarò mai abbastanza contento di questo. Per me il "se lo penso, lo dico" o il famigerato "almeno è sincero" non sono sono la gran cosa di cui tutti si vantano. La civiltà si misura da quanto uno riesce a misurare i propri istinti, non viceversa. L'autoindulgenza diffusa è il male del nuovo millennio e una sana dose di indifferenza farebbe bene a tanta, troppa, gente. Perchè non è che bisogna essere sempre buoni. Fine della divagazione, ora arriviamo ai cazzi miei. Di cui avevo promesso di non parlare.



E' qualche tempo che voglio chiudere questo blog, sopratutto per mancanza di tempo. Poi però, sempre più raramente, pubblico qualcosa che mi soddisfa e me la godo come un riccio. Come rinunciare a questo spicchio di felicità? La questione è annosa. Ultimamente poi le cose si sono fatte ancora più MERAVIGLIOSAMENTE complicate con la notizia che diventerò papà (finalmente). Ed ecco l'angolo dei cazzi miei.



L'arrivo dell'erede porta a una serie di punti, tra cui:



- maggiore impegno sul lavoro vero (che adoro): ho 27 anni e tutta una carriera da costruirmi per garantire solidità al nuovo arrivato. Non posso pensare di sottrarre energie a un lavoro che mi da il pane per riversarle nel mio piccolo angolo di onanismo quotidiano. Anzi, se mai è proprio viceversa. Il gioco si fa tosto e ora qualcuno conta veramente su di me, non posso fare lo stronzo.
- scuole serali: già iscritto e frequentante. Se il piano A va male occore un piano B. Che si traduce nell'imparare un mestiere vero.
- cambio casa: processo già in corso ma che ora subirà una bella accelerazione. In tre nel nostro nido d'amore ci stiamo veramente stretti.
- la mamma: un minimo di attenzioni in più le merita pure lei.



Tutto questo prima che il nano metta fuori il naso, figuriamoci dopo. Si aggiunga poi il fatto che non intendo rinunciare al mio impegno con la Passenger Press. Anche se sembra ferma si sta lavorando parecchio, ve lo posso assicurare. Più conosco l'editoria italiana e le sue regoline da maialeccio di quarta categoria più adoro l'idea di buttare tempo e denaro in fumetti miei, fatti come dico io e dalla gente che dico io. Dopotutto considero da sempre lo slogan della HydraHead Records (Don't Like It? Don't Buy It!) uno dei miei mantra personali.



Conclusione? Da qui in avanti aspettatevi meno post, ma di una qualità più alta. Parlerò solo di cose che mi hanno detto qualcosa al 100%, mi prenderò più giorni per ogni pubblicazione ed eliminerò le cazzate. Meno tempo investito, ma in modo migliore. O almeno queste sono le intenzioni, poi si vedrà. Dopotutto dei grandi numeri non so cosa farmene, non uso neppure gli aggregatori. Il blog non è un mezzo verso altro, ma un fine (a sè stesso). Quindi anche se perderò lettori o posizioni... beh, pazienza. Mi dicono che il mondo va avanti lo stesso.

Fine. Da domani torno invisibile.

sabato 27 marzo 2010

Intervista Bizzarra!

Quei gran fichi di BizzarroCinema hanno pensato bene di intervistare Christian e me. Trovate tutto qui.

giovedì 25 marzo 2010

mercoledì 24 marzo 2010

Paolo Sorrentino "Hanno tutti ragione"

Una sola nomination, quella per il miglior trucco. Quando invece Il Divo avrebbe meritato statuette per miglior film, sceneggiatura, montaggio, attore protagonista e colonna sonora. Senza dimenticare quella per miglior regista. E invece si è scelto di premiare un film che non racconta nulla, tra l’altro in maniera piuttosto scialba (anche il coreano Myung Se Lee non ha mai raccontato nulla, ma lo stile a volte compensa la sostanza). Una sorpresona comunque, perché il titolo pigliatutto degli ultimi Academy Awards doveva essere il trionfo del vecchio travestito da novità. Mezzi nuovissimi per risultati più che consueti. Tipicamente statunitense.



Ci voleva un genio come Sorrentino per dimostrare che con il vecchio si può arrivare a risultati inediti. Perché quella perfetta fusione tra realtà e finzione, tra cinema, teatro, videoarte e videoclip, tra genere e autorialità, tra commedia e dramma, tra astrazione e cronaca che è Il Divo la si è saputa ottenere soltanto con movimenti di macchina, montaggio, fotografia, un parco attori da brivido e una facilità di scrittura da beatificare. Basti la magnifica citazione delle Iene tarantiniane (si metta a verbale: una delle uniche due o tre citazioni di tutto il cinema post moderno ad avere REALE significato), i titoli di testa, la messa in scena degli attentati mafiosi, il furioso monologo sulla necessità di amoralità da parte di Servillo per ricordarsi cosa significhi fare cinema. Se poi incominciassimo a parlare dei Boards of Canada e dei Lali Puna messi a punteggiare uno dei migliori noir contemplativi degli ultimi 20 anni e del grottesco Geremia a muoversi su sfondi astratti e geometrici allora non ne usciremmo più. Tutto questo preambolo per arrivare a due conclusioni: 1) Sorrentino è uno dei 5 migliori registi a livello mondiale 2) per quanto si sforzi di fare lo scrittore a me le palle sono girate: Hanno tutti ragione lo volevo vedere su pellicola. Ci si rassegni. Questo perchè, nonostante il libro in questione sia perfetto, il film lo sarebbe stato ancora di più.

Sinossi ufficiale: Tony Pagoda è un cantante melodico con tanto passato alle spalle. La sua è stata la scena di un’Italia florida e sgangheratamente felice, fra Napoli, Capri, e il mondo. È stato tutto molto facile e tutto all’insegna del successo. Ha avuto il talento, i soldi, le donne. E inoltre ha incontrato personaggi straordinari e miserabili, maestri e compagni di strada. Da tutti ha saputo imparare e ora è come se una sfrenata, esuberante saggezza si sprigionasse da lui senza fatica. Ne ha per tutti e, come un Falstaff contemporaneo, svela con comica ebbrezza di cosa è fatta la sostanza degli uomini, di quelli che vincono e di quelli che perdono. Quando la vita comincia a complicarsi, quando la scena muta, Tony Pagoda sa che è venuto il tempo di cambiare. Una sterzata netta. Andarsene. Sparire. Cercare il silenzio. Fa una breve tournée in Brasile e decide di restarci, prima a Rio, poi a Manaus, coronato da una nuova libertà e ossessionato dagli scarafaggi. Ma per Tony Pagoda, picaro senza confini, non è finita. Dopo diciotto anni di umido esilio amazzonico qualcuno è pronto a firmare un assegno stratosferico perché torni in Italia. C’è ancora una vita che lo aspetta.

Perfetto nella sua prosa da monologo teatrale, così facile da immaginarsi in bocca a un Servillo perfettamente calato nei panni del cantante Tony Pagoda. Napoletano fino al midollo, cocainomane, grottesco nel suo essere sospeso tra donne facili, camorristi e manager eroinomani. Eppure così vero. Tutta la prima, lunghissima, parte del libro è un alternarsi torrenziale di aneddoti e ricordi. Perle di filosofia spicciola sputate da uno che pensa di aver vissuto fino in fondo. Colto, infantile, volgare, saggio e stronzo da ogni lato lo si osservi. Un mare di episodi più veri della vita vera. Semplicemente grandioso.



Poi arriva il purgatorio amazzonico. La lingua si fa più carica di figure retoriche e di parentesi profonde. Viene introdotto il personaggio di Roberto Ratto, e subito vi ritroverete a sperare in un’intera collana di romanzi dedicata a lui. Picchiatore selvaggio munito di sole quattro dita, burattinaio di tutta la politica italiana quando il fango si tentava ancora di nasconderlo.



Conclusione capitolina, amara e aulica. Leggermente indigesta, si trascina stanca come il protagonista. La forma ha il sopravvento sul contenuto. La fusione tra linguaggio e contenuti è perfetta, mentre Tony si perde in una nuova Italia fatta di lustrini e volgarità. Doveva essere il paradiso, ci si commuove pensando alla vecchiaia come obbiettivo ultimo.



Si chiude il libro e si incominciano a contare le ore che ci separano da Questo deve essere il posto.

mercoledì 17 marzo 2010

E se i cinesi avessero capito come si fanno i blockbuster? The Message di Chen Kuo-Fu & Gao Qunshu (CH/2009)




E’ scientificamente provato: se mettiamo uno sopra l’altro tutti i kolossal cinesi usciti da Hero a oggi otteniamo una pila di letame indigeribile. Certo, esiste anche uno sparuto gruppetto di eccezioni, ma il risultato finale non cambia. Nulla di cui preoccuparsi quindi, il nostro multisala di fiducia è ancora esercizio esclusivo di produttori statunitensi e cinepanettoni italici. Poi però arriva questo The Message, e a qualcuno saranno incominciate a fischiare le orecchie.



Ogni anno i cinema orientali ospitano un grosso numero di blockbuster autoctoni, molti dei quali di sicuro successo anche in occidente se non fosse per le barriere culturali alzate negli ultimi 50 anni dagli Stati Uniti (tra gli ultimi esempi The Good, the Bad, the Weird). Nessuna delle nazioni dell’altra metà del mondo pare infatti avere la potenza necessaria per sfondare la cortina, relegando l’esportazione della propria produzione culturale ad appassionati ed emigrati. Con il boom della Cina però il discorso cambia, e qui torniamo su The Message.



La recensione potrebbe essere di due righe: esempio di cinema ricco, corale, ritmato e con tutti gli ingredienti giusti per incassare uno sproposito. A questo aggiungiamo una fotografia ultrapatinata, un cast in stato di grazia e una regia ipercinetica. Lo scrivi The Message, lo leggi blockbuster. Non un capolavoro, neppure un film eccezionale. Semplicemente un film che potrebbe piacere a tutti, dal cinefilo allo spettatore occasionale. Andiamo a elencare i punti di forza:



- un setting fresco e stimolante, ma non del tutto alieno: anni ’40, occupazione nazigiapponese della Cina.
- location fighe: gran parte del film è ambientato in un castello di stampo Europeo, molto Dove osano le aquile. Svastiche comprese. A chi non piace Dove osano le aquile?
- Gusto per il revival: principalmente The Message è un film che parla di spie anni ‘40. Uno di quei generi che se lasciati in un angolino per un po’ di tempo quando ci si ricorda che esistono fanno il botto. Vedi i pirati Disneyani.
- Regia cool: un po’ classica, un po’ Matrix, tanta steady che fa dinamico e frizzante. Montaggio supersonico.
- Qualche scena pesa tanto per farti dimenticare che sei davanti a un film studiato a tavolino.
- Un pizzico di romanticismo. Eroismo e nobiltà d’animo a vagonate.
- Conto alla rovescia: nel film tutto si deve risolvere entro 2 giorni, altrimenti sono guai.
- Twist finale con tanto di montaggio per farti capire che c’erano indizi lungo tutto il film. Bonus: il twist è piuttosto intelligente, giocando più con il COME rispetto al CHI (bonus nel bonus: capisci chi è il CHI dopo 14 secondi, quindi ti senti anche un po’ intelligente).
- Durata: sotto le due ore. Non uno shottino di 90 minuti ma neanche un mattone di 3 ore.
- Bello a vedersi: nulla da spiegare. Vetta assoluta la nevicata finale.



Detto questo, dubito che The Message cambierà qualcosa. Rimane comunque la testimonianza che i produttori cinesi stiamo imparando a cesellare i loro prodotti al millimetro, riuscendo nel miracolo di ottenere film qualitativamente inattaccabili ma perfetti per sfondare il botteghino.



Ripeto,
a qualcuno saranno incominciate a fischiare le orecchie.




martedì 16 marzo 2010

Farewell, Mona Lisa





Sei giorni all'alba.



PS: va bene essere i Radiohead del postcore, ma il video fotocopia è un pò troppo.



PPS: i DEP fanno sempre più quello che hanno voglia. Dove lo trovate un altro gruppo capace di inserire in maniera del tutto organica frammenti pop (non emo/indie/rock, dico proprio pop) in un tale marasma? Non lo trovate! Ma forse dovevamo capirlo ai tempi in cui passavano da una cover di Aphex Twin a una di Justin Timberlake (rifatta identica!).



PPPS: pare che i nostri siano passati dalle grazie di Mike Patton a quelle di un altro colosso della musica moderna. Vedi il video qui sotto. Il futuro promette bene.




lunedì 15 marzo 2010

[trailer] Hong Kong, e dove se no? FIRE OF CONSCIENCE di Dante Lam (HK/2010)





Fatalismo, fotografia notturna, budget risicati, brutalità, piombo, vetri infranti, vicoli lerci, sparatorie, regista old school (autore l'anno scorso di questo) e un cast composto dalle solite quattro facce. Sì, sì. Mi sa proprio che siamo dalle parti di Hong Kong.

venerdì 12 marzo 2010

Lo stupro e l'Apocalisse: The Horseman di Steven Kastrissios (Australia/2008)




Se The Horseman fosse durato un quarto d’ora in meno se ne starebbe già parlando come di un caposaldo del rape’n’revenge più ruvido e intransigente. Anche se il genere si presta parecchio al ritmo lento e insinuante (si veda Rolling Thunder o Thriller – A Cruel Picture) la discesa all’Inferno del povero Christian soffre di cali di tensione impossibili da ignorare. La natura schematico/maniacale della vicenda (esecuzione - ritorno all’umanità - esecuzione - ritorno all’umanità - …), unita a una messa in scena lercia e minimale, rischia di appesantire la visione, già di per sé provata da alcune delle scene più crudeli del cinema recente. Perchè una volta chiarita la questione ritmo, infatti, non rimane che autentico cinema del dolore e del corpo flagellato.



Peter Marshall, IMMENSO, interpreta un padre recentemente colpito dal lutto della figlia. Ancora stordito dal dolore della perdita, avvenuta per overdose, riceve una VHS anonima. A questo punto la prima intuizione geniale del regista Steven Kastrissios: nessun tipo di tortura o di società segreta, semplicemente un video pornografico dove la ragazza, in evidente stato confusionale, subisce i soprusi di quattro uomini. Il pugno nello stomaco sta proprio qui, nel fatto che simile materiale sia alla portata di tutti. In maniera legale e gratuita (grazie a Internet). Sulla progressiva scomparsa del sesso dalla pornografia si sono letti decine di articoli e saggi interessanti (a memoria il primo a parlarne fu Warren Ellis un paio di anni fa, sul suo blog), naturale quindi che prima o poi l’argomento sarebbe diventato la base su cui costruire un teatrino della carne violentata. Vedere un padre gettare furibondo le ceneri della sua stessa figlia nell’immondizia fa più male di qualsiasi scortificazione o doccia di sangue. E peccato che questo sia solo l’inizio.



The Horseman è un film brutale, che parte dalla realtà per rimanerci più o meno piantato (qualche licenza poetica c’è) per tutta la sua durata. Fotografia spenta, gestione della macchina da presa che pare concepire solo piani fissi o movimenti a schiaffo e un commento musicale composto da una manciata di note diluite in un mare di desolazione ne tratteggiano i confini. Poi è un trionfo di pinze, fiamme ossidriche e martelli. Nessun eccesso coreografico, frase smargiassa o metafora della redenzione. L’Apocalisse (si parla sempre di un horseman, dopotutto) è un gioco dove non vince nessuno, dove non si possono limitare i danni e da dove non ci si può ritirare. Evitato anche il rischio di moralismo facile, mantenendo dramma e tensione a livelli impossibili. Senza mettere sul banco dell’inquisizione la pornografia (ci viene ricordato che sono le ragazze stesse a scegliere questo tipo di vita) il tanfo di squallore e disumanizzazione rimane comunque appiccicato addosso, assieme al ricordo di sguardi balordi e voci spezzate dagli spasmi.



Piccola nota extrafilmica: secondo chi scrive il sesso non sta scomparendo dalla pornografia, semplicemente si sta frocizzando di brutto. Nulla in contrario al mondo queer (anzi, chi legge queste pagine sa quanto ci sia legato) però vedere che nel 2010 c’è ancora gente bisognosa di questi espedienti per sfogare la propria sessualità è un tantinello triste.



giovedì 11 marzo 2010

IndieMag Bonanza: Little White Lies + Nordic Vision

Freschi freschi di stampa ecco due esempi di ottimi magazine indipendenti. Per il cinema abbiamo Little White Lies. Il numero 28 è dedicato all'imminente KickAss con tanto di cover esclusiva a opera di John Romita Jr (disponibile anche la stampa in A3 limitata a 100 copie). Il magazine è stato premiato con il prestigioso MD&J Award per il miglior design, e basta buttare un occhio alla galleria delle cover per capire il perchè. Di ogni numero è presente anche la controparte digitale gratuita.






Fuori anche il nuovo numero di Nordic Vision, spettacolare fanzina norvegese dedicata alla musica estrema. Come al solito grafica e apparato iconografico da urlo, articoli mai banali e tanta passione.





mercoledì 10 marzo 2010

Daughters - Daughters (Hydrahead Records/2010)

Ma alla fine i Daughters sono un gran gruppo o semplicemente quattro bifolchi casinisti? Questa più o meno la domanda che ci si pone fin dal loro debutto, quel Canada Songs (licenziato da Robotic Empire) causa di buona dose di confusione all’epoca della sua uscita. Si potrebbe dire che la loro proposta si componga unicamente di rumore, ritmiche sbilenche e chitarre liquide. Vocals tanto sguaiate da fare a gara con i Locust e un immaginario al retrogusto di anfe e benzedrina. Un gran casino spacciato per postgrindnoisemathcore, insomma. Basta aggiungere un suffisso all’etichetta e tutto trova la sua giusta dimensione. Eppure non riesco neppure a immaginare quanto possa essere complesso comporre, suonare e registrare musica così arzigogolata e priva di appigli. Molto più estrema dell’ultima death metal band est europea, completamente slegata dai parametri di buon gusto e ragionevolezza. Impossibile da godere, affascinante come solo il perturbante può essere. Un disco che richiede assoluta concentrazione per tutta la sua durata, senza la garanzia che alla fine ci si senta soddisfatti. Anzi, probabilmente sarete nervosi e spazientiti. Senza punti di riferimento per capire se quello che avete subito vi possa piacere o meno. E allora lo riascolterete, ancora indecisi tra 0 e 10.

lunedì 8 marzo 2010

Nuove botte da orbi: Merantau di Gareth Evans (Indonesia/2009)

Chiariamo subito le cose, l’indonesiano Merantau è superiore a buona parte delle produzioni uscite dalla Thailandia negli ultimi anni (escludiamo Tabunfire e, parzialmente, Chocolate) per due semplici motivi: narrazione e linguaggio. Meno spettacolare e pornografico dei vari Ong Bak e Born to Fight, sicuramente più maturo e pronto a dare il via a una scuola già codificata al primo tentativo esportabile.



Partendo dal solito cliché del campagnolo travolto dalla lordura della modernità (la stessa storia che si ripete dai tempi del Piccolo Drago, passando per gli elefanti di Tony Jaa) Gareth Evans costruisce una vicenda dove le trovate di regia più clamorose vengono relegate ai segmenti di narrazione piuttosto che a quelli action. Escamotage tanto semplice quanto funzionale, perfetto nel costruire un crescendo emozionale e nell’allontanare lo spettro della banalizzazione. Così abbiamo a che fare con un film drammatico inframmezzato da scene di combattimento e non una serie di clip atletiche legate tra loro con un labile filo logico. Questo non significa che si ha che fare con una sceneggiatura da Palma D’Oro, ma almeno eviterete di mandare avanti veloce alla ricerca della prossima tempesta di mazzate.



L’arte marziale sfruttata dal protagonista è il letale silat, se possibile ancora più rozza e brutale (ma più variegata) del muay thai. La regia accompagna le furiose rotazioni del protagonista con ampie carrellate circolari, l’inquadratura non chiude mai su particolari incomprensibili (ingiustificabile dictat della nuova scuola statunitense, mutuato goffamente da certe intuizioni importate da HK) e indugia spesso in movimenti tanto dinamici da dimenticarsi del protagonista stesso (nel senso che continuano anche quando questo esce di scena). Nonostante qualche ingenuità il risultato è decisamente più funzionale e caratterizzante di qualsiasi Ong Bak 2, di cui si ricordano unicamente gli oggetti che vorticano a pochi centimetri dall’obbiettivo. Le coreografie si mantengono su ottimi livelli, prediligendo velocità e precisione alla spettacolarità pura e semplice. Coraggiosa la scelta di evitare eccessiva postproduzione audio ai combattimenti, mantenendo un approccio più o meno realistico, aiutando invece gli stunt con l’apporto di qualche cavo. Non manca neppure LA scena, segmento per cui l’intero lungometraggio merita la visione. In questo caso un duello all’interno di un ascensore, paragonabile per intensità all’ormai leggendario scontro Wu Jing/ Donnie Yen in SPL.



Nonostante la lunghezza e il mood non certo da commedia romantica Merantau scorre veloce, coinvolge e mantiene alta l’attenzione. Senza puntare tutto sulla performance marziale, cosa che pareva impossibile all’interno della new wave del cinema action.




giovedì 4 marzo 2010

Vi ricordate Carousel? Arrivano 5 seguiti!




Per la cronaca, Carousel è questo video. Visto il clamoroso successo la Philips ha pensato bene di commissionare agli stessi autori ben 5 "seguiti" slegati tra loro. La partenza di Parallel Lines è fissata per il 7 aprile, direttamente sull'apposita pagina Facebook.

mercoledì 3 marzo 2010

Loaded Bible: il Sangue di Cristo - Comunione (Edizioni Arcadia/2010)




Waves of Mutilation dei Pixies è una canzone che ti illude. Leggi il titolo e pensi a determinate coordinate sonore, poi vieni smentito passando all’ascolto e ulteriormente confuso leggendo il testo. Evitando improponibili paragoni qualitativi (Frank Black è pur sempre Frank Black) Loaded Bible è un po’ un Wave of Mutilation del fumetto statunitense: leggi il titolo (e sinossi) e pensi a una cazzata immane, una sorta di spin-off Tromesco senza la classe delle produzioni di Lloyd Kaufman. Poi scopri che in realtà il tutto è incredibilmente serio, sorprendendoti e facendoti temere il peggio (quando c’è in ballo la religione paternalismo e banalità sono sempre nei paraggi). Chiudi il volume e sei sicuro di aver letto qualcosa che non ti saresti mai aspettato. Anche sapendo che Loaded Bible parla di un futuro di post apocalittico dove Gesù combatte i vampiri per conto di un nuovo Vaticano.



Non siamo certo alle prese con un lavoro perfetto, questo è sottointeso, ma la freschezza e la volontà di non scadere mai nella faciloneria a buon mercato pagano più di tanta freddezza da artigiano rodato (almeno questa volta). Una vicenda a prima vista scontata e inutile viene trattata con profondità non comune, andando ad affastellare una serie di livelli di lettura che denotano una progettazione (per lo meno a livello concettuale) a lungo termine. Lo stesso personaggio di Gesù acquista tanta umanità da allontanare definitivamente il pericolo della macchietta gratuita. Ne paladino ne totale deficiente, semplicemente un uomo confuso dalle troppe responsabilità. Altro punto a favore il fatto che, nonostante in Loaded Bible gli eccessi non manchino, ci si mantiene sempre lontani da una certa slapstick comedy stopposa e banale, fatta di frattaglie e schizzi di sangue. Le tavole si contraddistinguono per immediatezza e semplicità, affiancando a temi non certo semplici colori accesi e un tratto quasi da cartone animato. Un rischio che può pagare o meno. Se in alcuni casi l’effetto dissonante risulta funzionale e affascinante, come nell’orgia di sangue in conclusione al breve story arc, spesso si corre il pericolo che l’eccessiva distanza tra contenuti e disegno generi uno stridore difficilmente sopportabile.



Tante piccole imperfezioni (comprese cadute di tono dei dialoghi) che non riescono a scalfire il perno centrale di questa pubblicazione. Una volta chiuso il volume il continuo gioco di specchi di Seeley e Norton rimane impresso, evitando che tutto l’insieme ci scivoli addosso come tante pubblicazioni formalmente perfette ma prive di un vero e proprio punctum barthesiano. Il famoso concetto di IDEA di cui parlava Alan Moore nel suo manuale di scrittura, chiave di volta dimenticata troppe volte dagli sceneggiatori a ogni latitudine del mondo.

martedì 2 marzo 2010

Perchè adoro la musica ignorante? Perchè esistono gli High on Fire!




High on Fire - Snake for the Divine (2010)



Ma siamo sicuri che droga e alcool facciano veramente così male? Perché il fatto che uno come Matt Pike, la mente affumicata dietro Dragonaut e Jerusalem, non riesca a far uscire un disco senza far gridare al mezzo capolavoro qualche dubbio lo fa venire. Non per nulla Snake for the Divine è un pachiderma metal, creatura gargantuesca composta da riff spietati, ritmiche terremotanti e vocals al vetriolo. Un incesto stonato tra Celtic Frost, Motorhead e Cathedral. Oppure vedetelo semplicemente come il disco più feroce, immediato, rozzo, volgare e urlato degli High on Fire. Basta l’apertura affidata alla title track per spazzare in un colpo solo gli ultimi Slayer, Metallica e tutta la marmaglia deathcore e post thrash delle ultime stagioni. Rispetto alle precedenti sortite del combo ci allontaniamo da lidi stoner e ci avviciniamo maggiormente ai mai troppo lodati Lair of the Minotaur, andando a privilegiare una fisicità e un tipo di violenza più concreti di qualsiasi bordata a base di compressioni e trigger. La grandezza di Pike sta tutta qui. Nell’ostinarsi a voler dare ancora valore a chitarre grasse e slabbrate, a una sezione ritmica raffinata come un rutto in una sala da te, a urla di carta vetrata e catrame. E a copertine sempre più eccessivamente metal. Non potete chiedere di più.